Fabio Fognini saluta il tennis, indossa le scarpe da ballo e racconta senza filtri la sua visione sul duello che sta infiammando i campi di oggi. Dietro un sorriso disarmante, l’ex numero uno azzurro svela quanto lo incuriosisca misurarsi con i passi di danza mentre scruta con occhio esperto i progressi di Jannik Sinner e Carlos Alcaraz.
Una nuova pista, lontano dai campi
Pronto a cambiare parquet dopo una vita trascorsa dietro la linea di fondo, Fabio Fognini si prepara a debuttare a Ballando con le Stelle con lo stesso misto di entusiasmo e autocritica che lo ha accompagnato nei tornei del circuito. Ha confessato di essere già «in ritardo» sulle coreografie, di non aver ancora sentito la maestra, eppure la curiosità lo spinge ad affrontare la sfida. Prima di accettare, l’ex campione ha dovuto negoziare una lunga trattativa domestica con Flavia Pennetta, la «capo di casa» alla quale aveva promesso tempo per i figli. Alla fine, l’idea di trasformare il sudore degli allenamenti in armonia di passi gli è parsa l’occasione giusta, ora o mai più.
Esplorare uno studio televisivo, per lui, significa tornare vulnerabile, quasi come quando da ragazzino stringeva per la prima volta una racchetta. Racconta che, durante un’ospitata lampo nella scorsa edizione, i giudici lo avevano premiato con voti inaspettatamente alti: «Lo fanno per invogliarti a tornare», scherza. Stavolta, però, il ritorno non sarà una passerella di una sera. Milly Carlucci ha insistito con molte telefonate, finché l’ex tennista si è trovato con un sì in tasca e un’agenda di prove serrate. Promette di restare in pista per «qualche mese, spero», prima di capire se, all’orizzonte, possa riaprirsi uno spazio tecnico nel mondo che lo ha reso celebre.
Tra note e racchette: la metamorfosi di Fabio
Il passaggio dal silenzio ovattato di Wimbledon, dove a luglio ha salutato il circuito, ai riflettori luccicanti di uno show serale non è soltanto un cambio di scena; è un cambio di pelle. Lui stesso ammette di aver bisogno di un diversivo che lo costringa a imparare di nuovo, a sentirsi novizio, a rimettere in gioco l’orgoglio. Nel viaggio, porta con sé l’indole d’istinto che lo ha sempre contrapposto alla disciplina dei colleghi più «metodici». La danza, dice, appare come la cartina di tornasole perfetta: non ammette improvvisazioni, pretende sincronismo, premia la dedizione quotidiana. Se saprà domare quell’indole, scoprirà forse un modo inedito di canalizzare l’energia ribelle che gli ha regalato vittorie indimenticabili e qualche sconfitta rumorosa.
La metamorfosi, tuttavia, non implica un addio definitivo ai campi. Pur non indossando più un completo da gara, Fognini non esclude di tornare a respirare l’odore della resina come commentatore o consulente tecnico. «Vediamo se esce qualcosa a livello tennistico», confida, consapevole che il contatto con la terra rossa resta un richiamo potente. Intanto osserva con curiosità i protagonisti della nuova generazione, analizzando ogni loro dettaglio con l’occhio di chi ha affrontato i migliori per oltre quindici anni. Ed è proprio da questa prospettiva privilegiata che giudica il dibattito che infiamma il pubblico: scegliere tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz non è un gioco di simpatia, ma la fotografia di due filosofie diametralmente opposte.
Sguardo ravvicinato su Jannik Sinner
Quando parla di Jannik Sinner, lo fa con rispetto quasi fraterno, ma senza sconti. Il termine che gli viene spontaneo è «quadrato», un aggettivo che riporta alla memoria i giorni trascorsi con Andreas Seppi, soprannominato «crucco» per l’aria austera e la provenienza di confine. Ecco, il campione altoatesino raccoglie quell’eredità di rigore: la postura, la strategia, la capacità di restare dentro il match come un orologio svizzero. Secondo Fognini, in Italia lo si esalta o si punisce con la stessa facilità, perché l’opinione pubblica vive di eccessi, e nessuno sfugge alla logica manichea del fenomeno o del perdente. Quel che conta, a suo avviso, è la chiarezza mentale con cui il ventiquattrenne legge i propri limiti e li trasforma in lavoro quotidiano.
Un esempio cristallino arriva dal post partita degli ultimi US Open a New York. Con la serenità di chi non si nasconde, Sinner ha dichiarato di essere divenuto «prevedibile», di necessitare una fuga dalla zona di comfort per ribaltare l’inerzia. Fognini ammira quella lucidità che, a ventiquattro anni, è tutto fuorché scontata. Ricorda perfettamente come, nelle stesse circostanze, lui avrebbe forse reagito con foga; Jannik, al contrario, seziona il problema come un chirurgo e già immagina le contromisure. L’ex numero uno d’Italia intravede in quella onestà brutale la chiave per reggere nel tempo la pressione di un avversario che sembra nato per scardinare schemi consolidati.
Il carisma leggero di Carlos Alcaraz
Se Sinner incarna l’ingegneria di precisione, Carlos Alcaraz rappresenta invece la gioia viscerale del gioco. «Sembra che si diverta davvero», ripete Fognini, rievocando il documentario nel quale il giovane spagnolo confessa che, dopo un match, ama scappare a Ibiza per ballare fino all’alba. A Fabio quella spontaneità appare contagiosa: rivede in lui lo slancio estroverso che, durante la carriera, gli consentiva di cambiare ritmo al pubblico con un rovescio improvviso o un sorriso plateale. Alcaraz, ai suoi occhi, non solo alimenta spettacolo; ha bisogno dello spettacolo per alimentarsi a sua volta. E in questa fame di libertà Fognini riconosce una parentela spirituale innegabile.
Ciò non significa che il talento ispanico viva di spensieratezza priva di metodo. Nella finale di New York ha sorpreso tutti modificando l’impostazione del servizio, dimostrazione di un’intelligenza tattica in piena evoluzione. «Ogni volta aggiungono un tassello», sottolinea Fognini, convinto che l’inventiva di Carlos, pur vestita di leggerezza, nasca da un lavoro certosino. È proprio questa dualità, svago e sacrificio, a renderlo diverso: la stessa che, in altri tempi, distingueva Roger Federer dall’agonismo di Rafael Nadal. Però, avverte l’ex tennista ligure, il paragone è un mero riflesso generazionale; i ragazzi di oggi stanno imboccando una strada personale, capace di sorpassare i modelli che ancora permettono di decifrarli.
Un duello destinato a scrivere capitoli senza fine
Fino a questo momento, Sinner e Alcaraz si sono incrociati più di dieci volte, e il conteggio è destinato ad esplodere nei prossimi anni. Entrambi, dice Fabio, si conoscono «a memoria», ma nessuno dei due si accomoda sullo schema precedente: la partita seguente è sempre il foglio bianco su cui inventare nuovi margini. È in questa dinamica di continuo aggiornamento che l’ex numero uno azzurro intravede la scintilla capace di appassionare persino gli spettatori occasionali. Lo spettacolo, insomma, non si riduce al colpo di teatro di una singola sfida, bensì all’evoluzione di due personalità che, a ogni incontro, si spingono a uscire dal rispettivo guscio tecnico.
A chi gli chiede una preferenza, Fognini risponde con una diplomazia che non gli apparteneva negli anni ruggenti: «Sono diversi» ribadisce, non senza un sorriso malizioso. Sottointende che, in fondo, l’unica cosa che conta è il brivido che riescono a trasmettere. Il pubblico italiano, comprensibilmente, tiferà Sinner con foga intermittente, pronto ad incensarlo quando vince e a ridimensionarlo quando inciampa. Dall’altra parte, l’allegria di Alcaraz annulla le barriere nazionali e conquista anche chi non si riconosce nel suo passaporto. Per Fabio, la grandezza di questa rivalità consiste proprio nella capacità di rendere lo spettatore partecipe di un dialogo tecnico ed emotivo all’altezza dei giganti che hanno illuminato la sua generazione.
Il giudice interiore di Fognini
Tra una prova di chassé e un’analisi tattica, Fognini resta il primo censore di se stesso. Sa bene quanto sia facile passare da idolo a bersaglio, e ricorda di aver vissuto identica oscillazione ogni volta che, nel circuito, crollava la sua concentrazione. Oggi, però, la prospettiva è cambiata: l’errore non è più una minaccia, ma un’occasione didattica. Nell’approcciarsi ai passi di danza chiede disciplina per rispetto della troupe; nell’osservare i nuovi campioni chiede onestà, perché soltanto una critica costruttiva potrà aiutarli ad aggiungere longevità al talento. Così, con la stessa schiettezza con cui un tempo reclamava un hawk-eye, ora ascolta gli insegnanti di ballo correggere un mezzo giro di troppo.
Resta da capire se i riflettori di Ballando con le Stelle basteranno a placare la nostalgia da competizione. Intanto lo vedremo affrontare la prima serata televisiva come un torneo a eliminazione diretta: un round dopo l’altro, un giudizio dopo l’altro, sapendo che la sconfitta non sarà meno amara, ma di certo sarà diversa. «Mi tratterò qualche mese, spero», ripete, lasciando intendere che ogni orizzonte resta aperto. Se poi dal backstage dovesse arrivare la chiamata di qualche accademia o di un torneo esibizione, nulla vieta di immaginare un doppio tra genitori celebri, magari con la stessa Pennetta al fianco. Ma questo sarà un capitolo ancora da scrivere; per ora c’è da imparare un passo dopo l’altro, tenendo il tempo e il cuore sincronizzati.
