Il futuro delle nostre esportazioni si gioca anche sul terreno dei dazi. Lo ha chiarito il viceministro Valentino Valentini durante l’incontro di Liguria d’autore a Rapallo: questi strumenti, ha avvertito, resteranno stabilmente nell’agenda internazionale e il paese dovrà attrezzarsi per affrontarne le conseguenze.
Un quadro tariffario che non si dissolve
La posizione espressa dal viceministro non si limita a fotografare un malessere temporaneo: descrive, piuttosto, una trasformazione strutturale del commercio mondiale. Valentini ha sottolineato che le tariffe non rappresentano più soltanto uno strumento di pressione diplomatica, ma si sono ormai tramutate in un pilastro delle strategie fiscali nazionali. L’idea che basti attendere per vedere svanire queste barriere, quindi, è una pia illusione. Le imprese italiane, ha spiegato, dovranno considerare i dazi un costo fisso con cui convivere, ricalibrando contratti, supply chain e previsioni di bilancio di lungo periodo.
La fermezza con cui il viceministro ha illustrato il tema deriva da dati ormai consolidati: la discussione sui dazi non è circoscritta a un solo continente e coinvolge operatori di mercato di dimensioni molto diverse. Ogni volta che un Paese introduce una barriera, l’eco si ripercuote su approvvigionamenti, prezzi e occupazione in Paesi lontani. Per questo, ha ribadito Valentini, l’Europa non può permettersi di leggere il fenomeno come se fosse un capitolo episodico, ma deve attrezzarsi con riserve finanziarie e strumenti diplomatici capaci di reggere a un confronto di lunga durata.
Le motivazioni economiche dietro i dazi
Secondo l’analisi offerta a Rapallo, la logica che sta guidando l’ondata tariffaria è anzitutto fiscale. Valentini ha ricordato che molti governi guardano alle imposte doganali come a una fonte di entrate relativamente facile da esigere, utile a tamponare squilibri di bilancio che altrimenti richiederebbero interventi impopolari. È un meccanismo che riduce l’urgenza di riforme strutturali, ma nel contempo alza il prezzo degli scambi internazionali, modificando la competitività relativa dei settori produttivi e ridisegnando la geografia delle catene del valore globali.
Il viceministro ha rimarcato anche un aspetto meno discusso: l’assenza di criteri pienamente oggettivi nella fissazione delle aliquote. L’esperienza recente, ha spiegato, dimostra che la scelta dei prodotti da colpire e la percentuale di dazio applicata spesso rispondono più a logiche politiche che a calcoli econometrici. Questo grado di arbitrarietà alimenta incertezza e rende difficoltoso elaborare piani industriali pluriennali. Di conseguenza, le imprese sono costrette a mantenere riserve di liquidità più elevate e a moltiplicare le coperture assicurative contro le oscillazioni normative.
Le dinamiche negoziali con Washington
Una parte significativa del discorso di Valentini è stata dedicata al rapporto con Washington. Il viceministro ha ricordato che l’amministrazione statunitense adotta una strategia negoziale ben collaudata: avanzare richieste iniziali molto elevate, per poi arretrare gradualmente verso soglie che appaiono di compromesso. È un copione che chiude il cerchio nelle sale dei negoziati, ma si traduce in mesi di incertezza per gli esportatori, costretti a operare nel limbo tra minaccia e concessione. Questa prassi, osserva Valentini, favorisce chi può permettersi tempi lunghi e margini ampi, penalizzando soprattutto le piccole e medie imprese italiane.
L’intervento ha inoltre evidenziato che la natura selettiva delle misure statunitensi rende ancora più complicato il quadro. Prodotti analoghi possono essere colpiti in modo diverso a seconda della provenienza o del peso politico del partner commerciale, una condizione che, secondo Valentini, mina alle fondamenta la prevedibilità del sistema multilaterale. L’Europa, ha suggerito, deve perciò dotarsi di un’unica voce, capace di negoziare da pari a pari con le superpotenze. In caso contrario, il rischio è quello di restare imprigionati in trattative bilaterali dove la leva del volume di mercato fa la differenza.
L’impatto sulle esportazioni italiane
La riduzione del dazio statunitense al 15 per cento, risultato della più recente tornata di negoziati, non basta a infondere ottimismo. Valentini ha ricordato che il nostro flusso di beni verso gli Stati Uniti sfiora i 70 miliardi di euro e che un prelievo di questa entità corrode margini e competitività. Anche se la percentuale appare più mite rispetto a quella imposta ad altre nazioni, l’effetto cumulato sul fatturato è tutt’altro che trascurabile. Settori come meccanica, moda e agroalimentare ne risentono già nelle fasi di quotazione e selezione dei fornitori.
Il viceministro ha concluso sollecitando un cambio di mentalità: non possiamo più ragionare in termini di azioni tampone, ma di adattamento strutturale. Ciò significa investire in innovazione, diversificare i mercati di destinazione e stringere alleanze strategiche per contenere i costi logistici. Il messaggio finale, carico di pragmatismo, è che l’Italia possiede le competenze per rimanere protagonista, a patto di accettare il nuovo scenario con lucidità. Solo così la cifra dei 70 miliardi, oggi sotto pressione, potrà tornare a crescere in un contesto di rinnovata competitività.
