In un contesto già tesissimo, gli appelli alla resa dei conti si sovrappongono a una proposta diplomatica che promette di cambiare gli equilibri nella Striscia di Gaza. Mentre l’ombra di nuove operazioni militari aleggia sui cieli mediorientali, si moltiplicano le pressioni internazionali per riportare gli ostaggi in Israele e fermare lo spargimento di sangue.
La pressione crescente su Hamas
Il crescendo di richieste rivolte a Hamas ha assunto toni che raramente si erano uditi con tanta veemenza. Da un lato, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha rotto ogni indugio dichiarando pubblicamente che il movimento palestinese dovrà liberare senza condizioni gli ostaggi ancora rinchiusi e deporre le armi; dall’altro, il presidente statunitense Donald Trump ha scandito un ultimatum netto, promettendo «conseguenze gravi» nel caso in cui la nuova intesa sugli ostaggi non venga siglata in tempi rapidissimi. L’alternativa, ripetono le due capitali, sarebbe l’allargamento del conflitto e una devastazione priva di precedenti.
La minaccia al centro del messaggio diffuso da Katz sui social non lascia spazio a interpretazioni: egli parla di un «enorme uragano» pronto a scuotere i tetti delle torri di Gaza City, mentre le forze armate israeliane proseguono la propria offensiva «come previsto». Secondo il ministro, l’Idf starebbe già predisponendo la fase successiva dell’operazione, che prevederebbe un’avanzata estesa nella Striscia allo scopo di «conquistare Gaza». Il linguaggio bellico impiegato rimarca la determinazione di Israele ma, al contempo, evidenzia il rischio di un deterioramento irreversibile dell’intero scacchiere regionale.
Il monito del ministro della Difesa israeliano
La scelta di rendere pubblico un avvertimento tanto dettagliato si inserisce in una precisa strategia di pressione psicologica. Pubblicare la minaccia su X, la piattaforma che sostituisce Twitter, punta a raggiungere simultaneamente l’opinione pubblica internazionale, la popolazione civile di Gaza e i vertici di Hamas. L’intento è duplice: da un lato, convincere il mondo che Israele ha concesso all’avversario un’ultima possibilità; dall’altro, far percepire ai miliziani l’imminenza di un attacco anche più ampio di quanto finora subito sul territorio costiero palestinese.
In questo contesto, la minaccia di «annientamento» non appare mero esercizio retorico. Rapporti trapelati dai quartieri generali israeliani indicano che l’esercito avrebbe già spostato artiglieria pesante e assetti corazzati verso i confini settentrionali della Striscia, mentre i droni raccolgono ininterrottamente dati su bunker e tunnel sotterranei. Katz sostiene che nessuna opzione verrà esclusa, neppure l’occupazione prolungata di aree urbane densamente popolate. Il messaggio, dunque, risuona sia come deterrente sia come preludio a un’escalation potenzialmente devastante per civili e combattenti coinvolti direttamente.
Trump e la diplomazia degli ostaggi
Nelle stesse ore, Donald Trump ha scelto la sua piattaforma social, Truth Social, per annunciare quello che descrive come il suo «ultimo avvertimento» al movimento islamista. Secondo il presidente, Israele avrebbe già approvato una bozza di accordo elaborata dalla Casa Bianca, facendo ricadere sull’avversario l’intera responsabilità di un eventuale fallimento. «Tutti vogliono che gli ostaggi tornino a casa, tutti desiderano che la guerra finisca», ha scritto, invitando Hamas ad accettare i termini senza ulteriori ritardi e lasciando intendere che non ci saranno nuovi margini di mediazione.
Con il suo consueto ottimismo, il tycoon ha poi sottolineato di attendersi «un accordo a Gaza molto presto», arrivando a ipotizzare il recupero di tutti gli ostaggi, inclusi coloro che purtroppo potrebbero non essere più in vita. In una stima che ha immediatamente fatto discutere, Trump ha parlato di «poco meno di venti» persone ancora in vita tra i rapiti del 7 ottobre. Pur trattandosi di numeri provvisori, la dichiarazione ha riacceso speranze mai sopite tra le famiglie e al contempo ha accentuato la pressione sul gruppo islamista.
Contenuto della proposta americana
La bozza di accordo, svelata da un alto funzionario israeliano e rimbalzata sui media internazionali, prevede innanzitutto la liberazione dei 48 ostaggi ancora in mano a Hamas entro il primo giorno di attuazione. In cambio, Israele concederebbe la scarcerazione di un numero compreso fra 2.500 e 3.000 detenuti palestinesi, compresi centinaia di individui condannati all’ergastolo per omicidi di civili israeliani. L’architettura della proposta punta a un equilibrio delicatissimo, mescolando elementi umanitari e calcoli politici di lunga data per due popoli in conflitto.
La seconda colonna portante del testo contempla un cessate il fuoco immediato e la sospensione dell’operazione israeliana mirata alla conquista di Gaza City. Successivamente, verrebbe aperto un tavolo negoziale sotto la supervisione diretta di Washington. Israele insisterebbe sul disarmo completo di Hamas, mentre il movimento chiederebbe il ritiro totale dell’Idf dalla Striscia. Il presidente statunitense, fanno sapere i suoi consiglieri, si impegnerebbe «attivamente» per garantire la tenuta dell’intesa, ma non esclude un’offensiva su larga scala nel caso di un ulteriore rifiuto da parte dei miliziani.
Reazioni in Israele e tra le famiglie
Il documento statunitense ha alimentato un cauto ma palpabile senso di speranza tra i parenti degli ostaggi, che, in una nota diffusa ai media israeliani, definiscono la proposta «un’opportunità per una vera svolta». Sottolineano come l’offerta di Trump rappresenti un passo «storico» perché coniuga la liberazione simultanea di tutti i prigionieri con il congelamento delle ostilità durante la fase negoziale. Le famiglie, da mesi sospese fra disperazione e tenacia, implorano ora il governo di Gerusalemme di dare un sostegno «pieno e incondizionato» al progetto.
Un sostegno analogo è giunto dal leader del partito Blu e Bianco-Unità, Benny Gantz, che ha invitato l’intero arco parlamentare a rispondere con un secco «sì» all’iniziativa americana. Gantz si è spinto fino a proporre l’ingresso in un eventuale governo di unità nazionale «qualora necessario» pur di garantire la liberazione dei rapiti. Secondo indiscrezioni filtrate da ambienti governativi, l’esecutivo starebbe «valutando con grande serietà» la bozza. Ciononostante, rimane il timore che i vertici di Hamas possano respingere l’intesa, facendo dunque scivolare la regione in uno scenario ancor più drammatico.
La risposta di Hamas
A poche ore dall’ultimatum statunitense, Hamas ha diffuso un comunicato in cui annuncia la propria disponibilità a «sedersi immediatamente al tavolo dei negoziati». Il testo, filtrato attraverso i canali ufficiali del movimento, conferma di aver ricevuto «alcune proposte» dall’amministrazione americana e di «accogliere con favore» ogni iniziativa capace di mettere fine a quella che definisce «l’aggressione contro il nostro popolo». La nota, pur dai toni apparentemente concilianti, ribadisce la volontà di non accettare soluzioni che non contemplino garanzie di lungo periodo.
I vertici del movimento islamista pongono tre condizioni ritenute non negoziabili: una chiara dichiarazione di fine della guerra, il ritiro totale delle truppe israeliane dalla Striscia e la costituzione di un comitato di amministratori palestinesi indipendenti incaricato di governare Gaza. Solo in presenza di tali impegni, affermano, sarà possibile discutere il rilascio congiunto di prigionieri e ostaggi. Il muro contro muro fra richieste di disarmo e richieste di ritiro resta quindi intatto, lasciando intravedere trattative lunghe e irte di ostacoli, benché un timido spiraglio di dialogo appaia finalmente aperto.
Nuovo sangue a Gerusalemme Est
Il clima di tensione si è manifestato con brutalità anche sulle strade di Gerusalemme Est, dove un attacco armato ha ferito quindici persone alla fermata dell’autobus dell’incrocio di Ramot. Secondo i soccorritori del Magen David Adom, gli assalitori avrebbero aperto il fuoco in pieno mattino, cogliendo di sorpresa passeggeri e passanti. Le sirene delle ambulanze e l’arrivo dei reparti speciali hanno ricordato alla città che, nonostante le trattative politiche, la violenza resta un pericolo quotidiano che può esplodere in qualunque momento e luogo.
Le forze di sicurezza hanno confermato di aver «neutralizzato» due sospetti terroristi poco dopo l’inizio della sparatoria, evitando un numero di vittime potenzialmente più alto. Testimoni oculari parlano di una risposta rapidissima, con agenti in abiti civili che avrebbero individuato gli assalitori e li avrebbero colpiti a distanza ravvicinata. Il raid di Ramot rafforza il senso di urgenza: mentre le cancellerie discutono di scambi di prigionieri, la sicurezza delle strade israeliane rimane appesa a un equilibrio fragile e costantemente minacciato.
