Una corte federale d’appello ha ribadito che l’ex presidente Donald Trump dovrà versare 83,3 milioni di dollari a Jean Carroll per diffamazione, respingendo la difesa basata sull’immunità presidenziale e confermando integralmente la decisione di primo grado.
Conferma della condanna civile
La pronuncia, depositata nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 2025, segna un punto di svolta nella lunga battaglia giudiziaria fra l’ex inquilino della Casa Bianca e la scrittrice. Nel dispositivo, i magistrati affermano che l’immunità riconosciuta dalla Corte Suprema riguarda unicamente gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche, escludendo in modo espresso le dichiarazioni personali rilasciate a mandato terminato. L’insulto diretto, la smentita sferzante e la denigrazione pubblica, osserva il collegio, non rientrano fra gli strumenti istituzionali di un presidente. Di conseguenza, l’intera somma fissata in precedenza è stata confermata senza riduzioni.
Al centro della decisione restano le parole pronunciate da Trump dopo la pubblicazione, nel 2019, del libro in cui Carroll raccontava l’aggressione subita negli anni novanta all’interno di un camerino del quartiere commerciale di Manhattan. L’allora presidente bollò l’autrice come “una bugiarda in cerca di pubblicità”, frasi replicate in meeting politici, interviste televisive e post sui social. La corte ha giudicato quelle dichiarazioni non soltanto false, ma deliberatamente lesive della dignità personale, rilevando come la loro eco abbia generato un’ondata di minacce che ha aggravato il danno reputazionale e giustificato i danni punitivi.
Una vicenda iniziata in un camerino e proseguita sui social
Le radici della vicenda affondano negli anni novanta, quando Carroll, allora firma di spicco nel giornalismo newyorkese, sostiene di essere stata spinta da Trump nel camerino di un grande magazzino di New York e lì violentata. Il racconto è rimasto custodito per quasi tre decenni, finché la giornalista non lo ha reso pubblico nel 2019, affidandolo alle pagine di un libro e a un articolo di ampia diffusione. La scelta, dichiarò allora, mirava a rompere il silenzio e a dare coraggio alle donne che temono ripercussioni quando denunciano figure potenti.
All’immediata reazione del futuro imputato si unì un coro di sostenitori online, con migliaia di messaggi che definivano Carroll una “truffatrice” e ipotizzavano complotti politici. Di fronte a quel flusso di insulti, la giornalista decise di citare Trump per diffamazione, affiancando alla causa il successivo procedimento in cui una giuria lo ha riconosciuto responsabile di abusi sessuali, pur non di stupro. Il doppio verdetto, sottolineano gli osservatori, costituisce una rara convergenza fra diritto civile e tutela delle vittime, dimostrando che l’autorevolezza della carica non cancella la responsabilità individuale.
Implicazioni politiche e giudiziarie
Il team legale dell’ex presidente ha annunciato l’intenzione di valutare ulteriori ricorsi, compresa una possibile istanza alla stessa Corte Suprema che pochi mesi fa ha definito i limiti dell’immunità presidenziale. Gli avvocati contestano presunti vizi procedurali e sostengono che le dichiarazioni contestate rientrassero nel panorama del dibattito pubblico. Tuttavia, numerosi costituzionalisti osservano che la sentenza odierna poggia su una distinzione netta tra ruolo istituzionale e comunicazione personale. Per Trump la sfida non riguarda soltanto i milioni da corrispondere, ma la credibilità politica in vista di eventuali nuove campagne elettorali.
Dal punto di vista della parte lesa, il pronunciamento conferma la piena efficacia degli strumenti civili quando la diffamazione raggiunge livelli tali da compromettere la sicurezza personale e la reputazione professionale. I legali di Carroll hanno salutato la decisione come una vittoria che “ridà voce alle vittime”, sottolineando l’importanza di non arretrare di fronte a poteri mediatici e istituzionali. La sentenza, oltre al risarcimento economico, pone un precedente rilevante: l’immunità non trasforma un insulto in argomento politico, né rende lecita la distorsione dei fatti ai danni di un cittadino.
