Nei minuti che hanno preceduto la gara di qualificazione mondiale tra Israele e Italia, la tensione accumulata fuori dal campo è esplosa sugli spalti ungheresi. La cronaca, fitta d’emozioni e contraddizioni, ha consegnato immagini che resteranno impresse ben oltre il fischio finale.
Vigilia segnata dalle polemiche
Il cammino degli Azzurri verso il Mondiale 2026, gruppo I, è approdato a Debrecen l’8 settembre 2025 sotto una cappa di controversie legate alla guerra a Gaza. Nei giorni precedenti più voci, in Italia ma non solo, avevano auspicato che la Nazionale rinunciasse alla trasferta, sostenendo che scendere in campo avrebbe significato ignorare il dolore di un conflitto ancora acceso. Questo dibattito, rimbalzato sui media e nei bar di provincia, ha fatto da colonna sonora al viaggio verso la capitale della grande pianura ungherese, alimentando speranze, critiche e interrogativi sulla funzione sociale del calcio in tempi di crisi internazionale.
In questa atmosfera incandescente, la scelta di disputare la partita in terreno neutro al Nagyerdei Stadion è sembrata il compromesso necessario per salvare il calendario senza disinnescare del tutto le tensioni. Molti osservatori hanno notato come, fin dall’arrivo delle squadre, fosse palpabile un clima di vigilante compostezza: controlli di sicurezza rafforzati, pochi colori in vista, sguardi attenti. Eppure, dietro la facciata di normalità imposta dall’orologio FIFA, rimaneva latente il timore di proteste clamorose che potessero interrompere il rito collettivo dell’inno, momento in cui la politica – volente o nolente – irrompe sempre dentro al calcio.
Il silenzioso dissenso dei 184 azzurri
Quando dagli altoparlanti è risuonato Hatikvah, i 184 tifosi italiani presenti si sono voltati di schiena, spalle rivolte al rettangolo verde, mentre dagli spalti si levavano fischi isolati. Quel gesto, studiato e compatto, ha trasformato un’area di gradinata in una silhouette scura, quasi immobile, pronta a farsi portavoce di una contestazione che – nelle intenzioni – trascendeva la rivalità sportiva. Nei pochi secondi dell’inno, il silenzio volontario degli italiani si è sovrapposto all’eco di un conflitto distante ma onnipresente, richiamando l’attenzione sulle vite segnate quotidianamente a Gaza.
Alla fine dell’esecuzione, i supporter azzurri hanno alzato cartelloni identici, bianchi su sfondo rosso, con la semplice parola “Stop”. Nessun altro slogan, nessun simbolo, solo quattro lettere per sintetizzare la richiesta di cessare il ciclo di violenza che insanguina il Medio Oriente. La coreografia, durata un istante, ha colpito per la determinazione pacata con cui è stata messa in scena. Una protesta priva di clamore acustico, ma densa di significato, quasi a voler ricordare che a volte la forza di un messaggio passa per l’assenza di parole.
Scenario sugli spalti e sul terreno di gioco
Al di là del settore italiano, lo stadio si presentava semivuoto: appena circa tremila spettatori hanno popolato i seggiolini di uno degli impianti più moderni d’Ungheria. Le autorità locali, coadiuvate da steward e forze di polizia, hanno preferito limitare la vendita dei biglietti per evitare eccessi di frizione. Così la partita si è disputata in un’atmosfera quasi ovattata, dove ogni applauso risuonava più forte e ogni pausa assumeva sfumature quasi teatrali. Il pubblico ridotto ha accentuato il contrasto tra la vastità dell’arena e l’esiguità dei presenti, producendo un silenzio carico di apprensione.
Sul rettangolo verde, invece, i calciatori israeliani e tutto lo staff tecnico indossavano il lutto al braccio in ricordo delle sei vittime dell’attentato terroristico avvenuto a Gerusalemme. In simili circostanze, ogni gesto – dal riscaldamento agli abbracci di inizio partita – sembrava impregnato da un rispetto quasi sacrale. L’Italia, ben consapevole della delicatezza del contesto, ha mantenuto un atteggiamento sobrio negli scambi pre–gara: pochi sorrisi, strette di mano essenziali, sguardi diretti. L’unica lingua parlata, in quel momento, era un reciproco desiderio di normalità dentro un panorama emotivo anomalo.
Dopo gli inni la partita prende il via
Terminata la breve, intensa parentesi degli inni, il direttore di gara ha fischiato l’inizio dell’incontro e gli occhi si sono finalmente spostati sulla palla. Eppure, a prescindere dal risultato tecnico, la partita era già passata alla cronaca per ciò che era avvenuto sugli spalti. Gli spalti stessi, pur sgranati e silenziosi, hanno continuato a vibrare di quella protesta silenziosa, mentre in campo i ventidue cercavano di concentrarsi su schemi, diagonali e tempi di gioco, consapevoli di appartenere a un evento in cui sport e geopolitica s’intrecciano irrimediabilmente.
Nel prosieguo della serata, la contesa si è svolta senza ulteriori incidenti, a conferma che la protesta, per quanto forte dal punto di vista simbolico, era stata pensata per non degenerare. Alla fine, resta l’immagine di un calcio che prova, nonostante tutto, a mantenere il proprio spazio d’espressione, e di un gruppo di tifosi che ha scelto di far sentire la propria voce attraverso un eloquente silenzio volto altrove.
