Le ultime ventiquattro ore hanno intrecciato tregue improvvise e nuovi lutti: mentre Damasco proclama la cessazione delle ostilità con Israele, raid sul sud di Gaza lasciano decine di vittime. Sul terreno diplomatico, negoziati sugli ostaggi avanzano a fatica e il Papa chiede un impegno rinnovato per spegnere il conflitto.
Cessate il fuoco immediato tra Israele e Siria
In un comunicato diffuso alle prime ore del mattino, il presidente siriano Ahmed al-Sharaa ha decretato il “cessate il fuoco immediato e totale” con Israele, dopo gli scontri che, nella provincia drusa di Suwayda, hanno causato oltre trecento morti in pochi giorni. L’ordine presidenziale, sostenuto da una nota che richiama la difesa della sovranità nazionale, impone a tutti i combattenti di fermare le armi in ogni angolo del Paese. Qualsiasi infrazione alla tregua, avverte Damasco, sarà considerata una violazione della sovranità siriana e incontrerà una risposta adeguata. L’annuncio giunge nel tentativo di evitare un’escalation capace di innescare nuovi fronti lungo i già instabili confini settentrionali di Israele.
La dichiarazione di al-Sharaa è stata accolta con favore dall’inviato statunitense per la Siria, Tom Barrack, che, da Ankara, ha confermato la firma del documento da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu e il sostegno di Turchia e Giordania. Barrack ha rivolto un invito diretto alle comunità druse, beduine e sunnite affinché depongano le armi, proponendo la costruzione di una nuova identità siriana condivisa con i Paesi confinanti. L’obiettivo, spiegano le diplomazie coinvolte, è prevenire una spirale di vendette settarie e offrire alla popolazione civile una prospettiva di stabilità dopo anni di conflitto. Ora l’attenzione si sposta sulle forze sul terreno, chiamate a trasformare le parole della leadership in disciplina militare.
Conseguenze umanitarie nella Striscia di Gaza
Nelle stesse ore in cui Damasco e Gerusalemme provano a fermare le armi, la Striscia di Gaza è stata nuovamente scossa da colpi d’artiglieria esplosi, secondo le autorità locali, dalle Forze di difesa israeliane. Due aree adibite alla distribuzione degli aiuti – una a sud-ovest di Khan Younis, l’altra a nord-ovest di Rafah – sono state colpite mentre centinaia di civili attendevano cibo e medicinali. Il portavoce della Difesa civile, Mahmoud Bassal, ha contato ventisei morti, inclusi donne e bambini, e oltre cento feriti che le ambulanze hanno faticato a trasportare negli ospedali già al collasso.
L’assenza di un commento ufficiale da parte israeliana, al momento in cui scriviamo, alimenta il clima di incertezza. I sanitari raccontano scene di panico: i sacchi per alimenti sparsi tra macerie, le urla di chi cercava familiari dispersi, le sirene che non cessano di echeggiare nel corridoio meridionale. Organizzazioni umanitarie temono che, senza corridoi sicuri, la popolazione assista a una riduzione degli aiuti indispensabili alla sopravvivenza. Intanto, la comunità internazionale osserva con apprensione l’ennesima violenza che rischia di vanificare i limitati progressi diplomatici registrati negli ultimi giorni.
Ostaggi, scambi di prigionieri e trattative
A Washington, il candidato presidenziale Donald Trump ha scelto una cena con senatori repubblicani per annunciare che «tra poco altri dieci ostaggi torneranno a casa». Il magnate ha rivendicato il “recupero della maggior parte” dei prigionieri detenuti a Gaza e ha lodato il suo emissario in Medio Oriente, Steve Witkoff, definendolo “fantastico”. Secondo la bozza di accordo attualmente sul tavolo, il rilascio di dieci ostaggi – insieme ai resti di altri diciotto – sarebbe accompagnato dall’uscita dalle carceri israeliane di un numero imprecisato di detenuti palestinesi e da una tregua temporanea tra Israele e Hamas.
Su questo schema negoziale pesa però un muro di diffidenze. Il portavoce delle Brigate Ezzedine al-Qassam, Abu Obaida, ha dichiarato che Hamas è pronto a liberare tutti gli ostaggi in un’unica soluzione, giudicando insufficienti le proposte di scambi parziali. Dall’altra parte, un alto funzionario israeliano – parlando con i cronisti a Doha – accusa il movimento islamista di «prendere tempo» e di non accettare il rapporto numerico proposto per gli scambi di prigionieri. Il timore condiviso è che l’intransigenza reciproca protragga le sofferenze dei civili, mantenendo in stallo sia i negoziati sia il cessate il fuoco.
Pressioni e appelli internazionali
Il conflitto continua a muovere diplomazie e autorità spirituali. Papa Leone XIV ha telefonato al premier israeliano Benjamin Netanyahu all’indomani del bombardamento che ha danneggiato l’unica chiesa cattolica di Gaza, esprimendo rammarico e chiedendo «un rinnovato impegno per i negoziati, per il cessate il fuoco e per la fine della guerra». Netanyahu, a sua volta, ha ribadito la vicinanza di Israele alle vittime, ha definito «vicino» un accordo con Hamas e ha invitato il Pontefice a visitare lo Stato ebraico.
Alle sollecitazioni vaticane si sommano gli sforzi delle cancellerie regionali che hanno sottoscritto il cessate il fuoco fra Siria e Israele. Turchia e Giordania si sono impegnate a monitorare l’applicazione della tregua, convinte che il rispetto del patto possa ridurre la pressione lungo il confine e creare spazio per il dialogo multilaterale. L’equilibrio rimane fragile: ogni colpo d’arma da fuoco, ogni raid non rivendicato o ogni violazione della linea di contatto potrebbe innescare una reazione a catena, vanificando quanto sinora ottenuto al tavolo negoziale. Resta dunque cruciale la vigilanza congiunta di tutte le parti coinvolte.