Nel giro di poche ore, i dossier più caldi del Vicino Oriente hanno imboccato direzioni inattese: una tregua fra Israele e Siria prende forma, mentre nella Striscia di Gaza il bilancio di nuovi bombardamenti sui punti di distribuzione umanitaria torna a crescere dolorosamente.
Una tregua inattesa tra Damasco e Tel Aviv
Il presidente siriano Ahmed al-Sharaa ha comunicato il via libera a un cessate il fuoco “immediato e complessivo” con Israele, provvedimento che punta a congelare l’escalation esplosa nei giorni scorsi nella provincia drusa di Suwayda. Le violenze, che avevano già lasciato sul terreno più di trecento vittime, rischiavano di espandersi a macchia d’olio in altre aree sensibili del Paese. Nella nota diffusa da Damasco si precisa che ogni futura violazione verrà considerata un’aggressione diretta alla sovranità siriana, formula che ricorda a tutti i protagonisti sul campo la portata politica, oltre che militare, dell’accordo.
Dietro il documento ci sono pressioni incrociate di capitali arabe e occidentali, ma anche la consapevolezza, soprattutto in Israele, che un doppio fronte aperto con Hamas a sud e con la Siria a nord sarebbe insostenibile a lungo. Il comandante in capo delle forze di Tel Aviv ha dato disposizioni perché i battaglioni schierati sul Golan passino a una postura difensiva, mentre a Damasco il ministero della Difesa ha avviato il rientro di alcuni reparti verso le caserme dell’interno. Resta da capire se i gruppi armati non riconducibili agli eserciti regolari si atterranno al nuovo quadro.
L’eco internazionale e l’appello alle comunità locali
Dalla Turchia l’inviato speciale statunitense Tom Barrack ha definito lo stop alle ostilità “un passo coraggioso, condiviso da Turchia, Giordania e altri partner dell’area”. Nel suo messaggio, diffuso su X, Barrack ha invitato drusi, beduini e sunniti a deporre le armi e a costruire, assieme alle altre minoranze, “una nuova identità siriana fondata sulla pacifica convivenza con i vicini”. L’appello, se raccolto, potrebbe smorzare la spirale di vendette interetniche che aveva iniziato a serpeggiare nelle campagne meridionali.
Sul piano diplomatico, la dichiarazione congiunta è stata salutata con cauto ottimismo anche a Bruxelles, dove si riconosce che la finestra aperta da Damasco e Gerusalemme potrebbe raffreddare l’intero quadrante mediorientale. Non meno significativa è la partecipazione della Giordania, chiamata a vigilare sull’applicazione del testo lungo i confini desertici. Spetterà ora alle Nazioni Unite trasformare le buone intenzioni in un meccanismo di monitoraggio solido e neutrale.
Bombardamenti sui centri di aiuto a Gaza: 26 vittime
Nel sud della Striscia il portavoce della difesa civile, Mahmoud Bassal, ha denunciato due attacchi avvenuti a ridosso di centri di distribuzione alimentare. Ventidue civili sono rimasti uccisi nella zona sud-ovest di Khan Younis e altri quattro a nord-ovest di Rafah; oltre cento i feriti, molti dei quali in condizioni critiche. Secondo le testimonianze raccolte dall’AFP, le esplosioni sarebbero state provocate da “colpi israeliani”, sebbene al momento manchi qualunque commento ufficiale da parte dell’Idf. Le squadre di soccorso hanno lavorato per ore, cercando di salvare chi era in fila per ricevere farina e acqua.
Il bombardamento su obiettivi dichiaratamente civili rinfocola la polemica umanitaria che da mesi accompagna il conflitto. Organizzazioni non governative sul terreno parlano di “un colpo diretto al sistema di sopravvivenza” dei palestinesi, già provati dalla distruzione di infrastrutture e dall’esodo interno. A peggiorare il quadro vi è l’interruzione di alcuni corridoi logistici dopo l’ultima ondata di combattimenti fra l’esercito israeliano e le brigate di Hamas. Senza sosta, volontari locali e personale medico cercano di allestire ospedali da campo con equipaggiamenti ridotti all’osso.
Il silenzio delle autorità israeliane
Finora le forze armate israeliane non hanno offerto spiegazioni sull’accaduto, limitandosi a ribadire che le operazioni aeree mirano esclusivamente a postazioni militari. L’assenza di una ricostruzione ufficiale, tuttavia, accresce le tensioni con le agenzie internazionali che coordinano la distribuzione degli aiuti. In più occasioni l’ONU aveva segnalato le coordinate dei depositi di generi di prima necessità per evitarne il coinvolgimento nei raid, ma ciò non è bastato a impedire le ultime tragedie.
Nel contesto di un conflitto che registra ormai una lunga serie di episodi controversi, il resoconto di Bassal rischia di alimentare nuovi appelli al rispetto del diritto umanitario. Le immagini dei feriti trasportati in barella tra sacchi di farina squarciati hanno immediatamente fatto il giro dei social, sollevando un’ondata di sdegno globale. Le capitals occidentali, in particolare, osservano con inquietudine il possibile impatto di questi fatti sui negoziati in corso in Qatar.
Il nodo ostaggi tra dichiarazioni di Trump e negoziati in stallo
Nel corso di una cena privata con i senatori repubblicani, l’ex presidente Donald Trump ha rivendicato di aver “già riportato a casa la maggior parte degli ostaggi” detenuti a Gaza e di attendere “la liberazione di altri dieci nelle prossime ore”. Lo stesso Trump ha elogiato il suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, definendolo “fantastico” per l’impegno profuso. La bozza di accordo sul tavolo prevede la restituzione di dieci ostaggi vivi e dei resti di altri diciotto, in cambio del rilascio di un numero non specificato di prigionieri palestinesi.
Nonostante l’ottimismo dell’ex inquilino della Casa Bianca, i colloqui ospitati a Doha restano in bilico. Il portavoce delle Brigate Ezzedine al-Qassam, Abu Obaida, ha accusato Israele di ostacolare un’intesa completa, spiegando di aver proposto la restituzione simultanea di tutti gli ostaggi. Se “il nemico persiste”, ha avvertito, non vi sarà più apertura a scambi parziali. L’eco di queste parole si è fatta sentire anche a Gerusalemme, dove fonti governative imputano invece a Hamas la responsabilità della stasi.
Hamas accusa, Israele replica
Un funzionario israeliano, parlando in briefing riservato, ha sostenuto che il movimento islamista starebbe “prendendo tempo”, convinto che il passare dei giorni giochi a suo favore. Il nodo principale rimane il rapporto tra il numero di palestinesi da liberare e gli ostaggi israeliani da rilasciare: su questo punto le distanze paiono immutate. Nel frattempo, Israele afferma di essere “pronto a chiudere” l’accordo, ma di non poter concedere ulteriori dilazioni.
La tensione è destinata a riflettersi sul terreno, dove ogni stallo negoziale si traduce in nuove offensive o rappresaglie. La comunità internazionale osserva con crescente frustrazione, consapevole che la questione degli ostaggi rappresenta la chiave psicologica oltre che diplomatica per congelare le armi a Gaza. Senza un’intesa, sottolineano fonti ONU, “la spirale di violenza continuerà a consumare vite innocenti su entrambi i fronti”.
La voce della Santa Sede e il confronto con Netanyahu
In un nuovo appello telefonico, Papa Leone XIV ha sollecitato il premier israeliano Benjamin Netanyahu a impegnarsi “con rinnovato coraggio” per il cessate il fuoco e la fine della guerra, dopo che un bombardamento ha colpito l’unica chiesa cattolica di Gaza. Il pontefice ha definito “tragico” l’incidente e ha chiesto che la tutela dei luoghi di culto e dei civili sia prioritaria. Il dialogo tra i due leader, secondo fonti vaticane, si è svolto in un clima di franchezza ma anche di reciproca disponibilità ad approfondire vie di soluzione.
Netanyahu, da parte sua, ha espresso “rammarico” per l’accaduto e si è detto “vicino a un’intesa” con Hamas. Ha inoltre invitato il Papa a visitare Israele “per testimoniare di persona gli sforzi compiuti per la sicurezza di tutti i fedeli”. In agenda, oltre alla pace, ci sarebbero anche iniziative umanitarie a favore dei cristiani di Gaza e delle altre minoranze religiose coinvolte nel conflitto. Resta ora da verificare se il gesto simbolico del pontefice potrà contribuire a spezzare l’impasse che imprigiona la Striscia e a dare sostanza ai tanti impegni proclamati a livello diplomatico.