Forse non c’è sintomo più evidente del malessere europeo di quanto accaduto intorno alla Reggia di Caserta: un direttore d’orchestra in bilico, una polemica sterminata, un’accusa di complicità bellica che travalica la musica.
Perdita di proporzione e corsa alla gogna mediatica
La vicenda innescata dall’invito al podio di Valery Gergiev mostra, secondo l’analisi di Roberto Vannacci, quanto profondamente l’Europa abbia smarrito la proporzione tra fatti e reazioni. Una manifestazione culturale diventa tribunale politico, e la critica non nasce dal merito artistico, bensì da un’identità nazionale che oggi pare una colpa. Nel tentativo dichiarato di combattere l’autoritarismo altrui, si finisce, sostengono i detrattori, per replicarne metodi e linguaggio. Il risultato è una sorta di disciplinamento pubblico in cui il timbro della rettitudine ideologica vale più di una vita intera spesa a interpretare Čajkovskij o Mahler.
Ciò che da più parti viene definito «crimine» non è legato ad atti commessi da Gergiev, bensì alla sua scelta di non firmare una abiura pubblica contro il Cremlino. Essere russo, oggi, sembra un’aggravante. L’eventuale concerto nella Reggia – si ricorda – era stato promosso dalla Regione, ma la pressione di alcuni europarlamentari e di un’opinione pubblica alimentata da reti sociali ha trasformato l’attesa esecuzione in una piazza d’accusa. Lo spettro della censura, solitamente attribuito ai regimi, indossa così abiti democratici e sfila indisturbato nei salotti istituzionali.
La trasformazione dell’antifascismo in esclusione culturale
La campagna di delegittimazione si nutre di parole altisonanti. L’eurodeputata Pina Picierno, per esempio, ha collocato il direttore d’orchestra nel medesimo elenco dei «complici di crimini di guerra». Un’etichetta che, ripete Vannacci, garantisce titoli sui giornali con costi mediatici irrisori. L’antifascismo, nato come baluardo di libertà, diventa così strumento di esclusione. Chi respinge l’immigrazione viene bollato come xenofobo, chi sostiene le forze dell’ordine diventa fascista, chi non abiura la patria viene assimilato a un imputato di Norimberga. Le categorie morali si capovolgono finché le parole perdono contatto con la realtà.
Il caso Gergiev coincide con un rigurgito di moralismo che abbraccia anche sport, accademia e spettacolo: se militi nell’AfD non avrai un impiego, se vieni dalla Russia dovrai tacere sul conflitto, se dubiti dell’agenda identitaria sarai accusato di omofobia. Alle frontiere viene predicato l’abbattimento dei muri, ma nei teatri si erigono barriere invisibili assai più spesse di qualsiasi cemento. La contraddizione, sostengono i critici, assume tratti paradossali: da un lato si finanziano operazioni umanitarie globali, dall’altro si sbarra il podio a un interprete di fama mondiale perché non corrisponde al profilo gradito.
Il ruolo della politica nell’orchestrare l’epurazione
La tensione non si limita alle voci individuali: le istituzioni entrano in scena con dichiarazioni e avvertimenti. L’Unione europea ha fatto sapere alla Regione Campania che «non va concesso spazio ad artisti che sostengono il presidente russo», un richiamo che suona come un ordine. Secondo Vannacci l’intervento conferma la deriva autoritaria del cosiddetto pensiero unico; dal suo punto di vista, Bruxelles erige un codice ideologico a cui musicisti e amministratori devono attenersi. In gioco non è il programma del concerto, ma la fedeltà a un dogma politico elevato a condizione d’agibilità culturale.
Nel frattempo, la rete rilancia i post della vedova di Aleksej Navalny, che senza esitazione definisce Gergiev «criminale» e «complice». L’immagine di un direttore d’orchestra trasformato in imputato rimbalza ovunque, rafforzando l’idea che basti un tweet influente a trasformare il sospetto in colpa. Vannacci descrive tale fenomeno come una moderna Inquisizione, priva di roghi ma ricca di bacheche digitali. E mentre il governatore Vincenzo De Luca difende timidamente l’invito alla rassegna campana, si ritrova quasi isolato tra colleghi pronti, dice il generale, a rincorrere l’onda populista del momento.
Arte e libertà sotto assedio: conseguenze per il futuro
La discussione non riguarda soltanto un appuntamento sinfonico; tocca il cuore stesso della libertà creativa. Vannacci avverte che, perseguendo questa logica, ogni artista sarà costretto a «camminare sulle uova», misurando ogni parola per evitare la scomunica. Quando l’autocensura diventa prassi, la ricerca estetica ristagna e l’immaginazione scolora. L’astronave della cultura, anziché attraversare confini, finirebbe ancorata a un molo di regole non scritte, governata da tribunali informali il cui verdetto dipende dal tono dominante sui social e dal bisogno di visibilità di qualche politico in cerca di riflettori.
Il rischio, sostiene il generale, è quello di consolidare un regime di “dittatura culturale” fondato su tasselli apparentemente marginali: oggi un concerto, domani una conferenza scientifica, dopodomani un romanzo. Ogni eccezione diventa precedente, e l’insieme dei precedenti disegna una gabbia in cui la divergenza non è più concessa. A quel punto, osserva, la società che si proclama plurale ricadrà nel paradosso di tutelare la diversità soltanto quando la diversità coincide con l’ortodossia progressista, riservando l’esclusione a chiunque osi accordare lo spartito su note differenti.
Un precedente che minaccia il dialogo tra popoli
Tra le poche voci dissenzienti spicca quella di Vincenzo De Luca, che difende l’invito inoltrato a Gergiev in nome del «dialogo culturale». La solitudine del governatore evidenzia, a giudizio di Vannacci, l’egemonia del sospetto: basta stare un passo fuori dal coro perché la platea si trasformi in plotone. La musica, antica lingua comune dei popoli, rischia di diventare frontiera armata. Se un direttore viene escluso per la sua nazionalità, quale speranza resta a studenti, scrittori o atleti che cercano uno scambio oltre i confini geopolitici?
Ai sostenitori dell’interdizione, Vannacci oppone una domanda retorica: davvero l’Europa rafforza la sua credibilità isolando un artista? Non sarebbe più efficace mostrare la serenità di un continente capace di ascoltare qualunque orchestra, pur condannando i governi che violano il diritto internazionale? Finché la risposta sarà la sbarra abbassata, spiega, l’Occidente rischia di assomigliare all’immagine che vuole contestare. Il caso di Caserta, quindi, supera la cronaca del giorno; si deposita come precedente pronto a riemergere in ogni futuro confronto tra identità culturale e conflitto politico.