Un fragile equilibrio tiene insieme la crisi di Gaza e le tensioni con Teheran, mentre fonti diplomatiche avvertono che i colloqui indiretti fra Israele e Hamas a Doha rischiano di naufragare e, parallelamente, il premier Benjamin Netanyahu fa sapere a Donald Trump di essere pronto a colpire l’Iran se il suo programma nucleare dovesse avanzare ulteriormente.
Le ombre sui colloqui di Doha
Le voci raccolte fra i negoziatori palestinesi, che hanno chiesto l’anonimato, dipingono un tavolo di Doha quasi deserto di figure decisive. La delegazione israeliana inviata da Netanyahu – sostengono le fonti – è arrivata senza un mandato robusto, con l’obiettivo di guadagnare tempo dopo la recente missione del premier alla Casa Bianca. Mancano nomi chiave come il capo del Mossad David Barnea, il responsabile ad interim dello Shin Bet e il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer; assenze che, secondo i palestinesi, tradiscono l’intenzione di procrastinare piuttosto che chiudere un accordo. Il risultato è un clima di crescente sfiducia, in cui ogni minuto perso pesa come un macigno.
Al centro della discussione resta l’insistenza di Hamas perché le IDF si ritirino dall’intera Striscia e la distribuzione degli aiuti umanitari venga affidata esclusivamente alle agenzie internazionali, escludendo la statunitense Ghf, considerata troppo vicina a Israele. I negoziatori non hanno ancora scalfito questi nodi essenziali e il rischio di impasse totale appare concreto. Ogni richiesta, ogni contromossa, diventa lo specchio di un conflitto profondo in cui la fiducia vale più delle parole. Finché non si spezzerà il circolo fatto di sospetti reciproci, la popolazione civile continuerà a vivere nell’attesa di un cessate il fuoco che sembra allontanarsi.
La strategia di Netanyahu tra Gaza e Teheran
Fonti della stampa statunitense riferiscono che, durante il faccia a faccia alla Casa Bianca, Netanyahu ha messo sul tavolo l’ipotesi di nuovi raid contro siti iraniani qualora Teheran prosegua con l’arricchimento di uranio. Donald Trump avrebbe ribadito la sua preferenza per una soluzione diplomatica, senza però escludere l’opzione militare. L’idea, spiegano gli insider, è usare la minaccia di un altro attacco per spingere l’Iran a siglare un’intesa che limiti rigidamente il suo programma nucleare. Una partita a scacchi in cui la deterrenza si intreccia con la diplomazia, e ogni mossa viene calibrata con estrema cautela.
Un alto funzionario israeliano ha osservato che Washington potrebbe tentare di dissuadere Gerusalemme da un’azione immediata per non compromettere i colloqui con l’Iran. Ciononostante, Tel Aviv non si sentirebbe obbligata a chiedere un via libera esplicito prima di agire. L’equilibrio fra alleati, in questi frangenti, è una linea sottile: abbastanza elastica da assorbire le divergenze, ma anche fragile, pronta a spezzarsi se l’interesse nazionale prevale sulla concertazione. La sensazione, nelle capitali mediorientali, è che il tempo a disposizione per la diplomazia si stia accorciando rapidamente.
L’attacco alla base di Al Udeid
Nel frattempo il Pentagono ha ammesso pubblicamente, per la prima volta, l’impatto di un missile balistico iraniano che il 23 giugno ha colpito la base aerea di Al Udeid in Qatar, snodo essenziale per le comunicazioni militari statunitensi in Medio Oriente. L’ordigno ha danneggiato una cupola geodetica che ospitava apparecchiature sensibili per la sicurezza delle truppe americane. Il riconoscimento ufficiale conferisce un’urgenza nuova a un episodio finora avvolto da versioni parziali. Quando un’infrastruttura così strategica finisce nel mirino, l’intera architettura di sicurezza regionale si scopre vulnerabile.
Il raid su Al Udeid, nel contesto già teso dei negoziati su Gaza e del braccio di ferro sul nucleare iraniano, evidenzia quanto rapidamente un singolo evento possa amplificare le paure di escalation. L’attacco lancia un messaggio diretto a Washington e ai suoi partner: il conflitto per l’influenza nella regione non conosce confini netti fra diplomazia e azione militare. Ogni gesto, ogni dichiarazione, diventa parte di un mosaico complesso, dove la sicurezza degli uni si misura con l’incertezza degli altri. Nessuno, da Doha a Tel Aviv, può più permettersi di ignorare i segnali che attraversano il Golfo.