Dal febbraio scorso, l’insediamento di Kash Patel al vertice dell’FBI ha introdotto nuove tensioni interne: gli agenti vengono convocati al poligrafo per misurare la lealtà verso la leadership, in un clima che molti descrivono come febbrile e carico di sospetti.
Fedeltà istituzionale e prove al poligrafo
Negli ultimi mesi l’Agenzia ha moltiplicato i test al poligrafo, un esame tradizionalmente riservato a indagini su possibili fughe di notizie o tradimenti della sicurezza nazionale. Decine di funzionari, da Washington ai più remoti uffici distaccati, sono stati fatti accomodare davanti ai sensori. Alcuni raccontano che, oltre alle domande di routine su contatti sensibili o violazioni procedurali, sia stato chiesto espressamente se avessero mai pronunciato parole poco lusinghiere su Patel stesso. Il messaggio implicito, riferisce una fonte interna, è che criticare il direttore equivale a minacciare l’istituzione.
L’impulso all’utilizzo della macchina della verità si è esteso perfino a vicende che, in passato, sarebbero rimaste confinate a un semplice colloquio disciplinare. Un caso emblematico riguarda la fuga di notizie sulla richiesta, avanzata da Patel, di vedersi assegnare un’arma di servizio: un desiderio insolito per chi non svolge mansioni operative. Subito dopo l’articolo apparso sulla stampa, l’Ufficio ha individuato il presunto responsabile e lo ha sottoposto all’esame, nella speranza di mappare ogni possibile reticolo di confidenze. L’obiettivo dichiarato: individuare eventuali sacche di resistenza interna.
Un clima di lealtà forzata
Per numerosi ex dirigenti dell’FBI, questa strategia rappresenta un cambio di paradigma tanto drastico quanto allarmante. Il poligrafo, spiegano, non è mai stato pensato per valutare la devozione personale a un superiore, bensì la credibilità di chi gestisce informazioni classificate. Eppure, l’uso esteso della cosiddetta «domanda di controllo» – in cui si chiede all’esaminato se abbia mai screditato il proprio capo – ha finito con il rendere l’apparecchio uno strumento di disciplina culturale. Nei corridoi si sussurra che un parere critico, anche espresso in privato, possa costare la carriera.
L’ex agente James Davidson, veterano con ventitré anni di servizio, sintetizza il malumore: «La nostra fedeltà è verso la Costituzione, non verso un direttore o un vice». Parole pesanti, pronunciate mentre circolano voci di trasferimenti punitivi e congedi amministrativi per chi avrebbe espresso dubbi sulla nuova linea. Il timore diffuso è che l’organizzazione, nata per proteggere l’interesse pubblico, finisca per trasformarsi in una macchina di sorveglianza interna, pronta a colpire ogni nota di dissenso. In questa atmosfera rarefatta, la fiducia reciproca – cemento indispensabile per operazioni delicate – rischia di sgretolarsi.
Turnover vertiginoso e depauperamento di competenze
Le conseguenze di questa stretta non tardano a manifestarsi nei dati sul personale. Fonti interne parlano di un turn-over che ha toccato circa il quaranta per cento degli alti responsabili dei vari field office: un’emorragia di esperienza maturata sul campo in anni di indagini complesse che spaziano dal terrorismo al cyber-crime. Alcuni funzionari si sono ritirati anticipatamente, altri sono stati relegati a ruoli marginali, altri ancora hanno scelto di cambiare agenzia, spinti dal timore di trovarsi nel mirino di Patel o del suo vice, Dan Bongino.
La perdita di competenze coincide con l’ingresso di quadri considerati più allineati alla nuova dirigenza, generando l’impressione – raccontano diversi insider – di una progressiva politicizzazione dell’organico. L’FBI, tradizionalmente basata su protocolli tecnici e meritocrazia, sembra ora privilegiarne l’adesione ideologica. Nel frattempo le pratiche di assunzione prevedono controlli di sicurezza via via più invasivi, compreso il poligrafo come prerequisito per avanzamenti di carriera. Il risultato, dicono le fonti, è un circolo vizioso: meno diversità di vedute, più omologazione, maggior rischio di decisioni unanimi ma non necessariamente corrette.
Il caso della sede di Norfolk
L’esempio più emblematico di questa deriva riguarda la filiale di Norfolk, Virginia. Qui Michael Feinberg, responsabile operativo fino alla scorsa primavera, è stato informato che avrebbe dovuto sottoporsi al poligrafo, non per questioni di sicurezza nazionale, ma per chiarire la natura della sua amicizia con Peter Strzok, ex alto funzionario licenziato anni fa dopo avere inviato messaggi critici sull’allora presidente. Per la dirigenza, quell’amicizia rappresentava un potenziale segnale di disallineamento. «Ti chiederemo di spiegare quanto sei vicino a Pete», si sarebbe sentito dire da un superiore subentrato di recente.
Feinberg, che per oltre due decenni aveva guidato indagini delicate in materia di antiterrorismo, ha descritto la situazione come «una rivoluzione culturale» dentro l’FBI: chi desidera restare, sostiene, deve prima umiliarsi, chiedere perdono e giurare fedeltà alla nuova ortodossia. Davanti a un bivio, ha optato per le dimissioni, aggiungendosi a una lista crescente di professionisti usciti di scena per «incompatibilità ambientale». Il suo addio, confidano colleghi rimasti in agenzia, rischia di privare la sede di competenze difficilmente sostituibili in tempi brevi.
Un dispositivo controverso ai limiti della legalità
I tribunali statunitensi, pur riconoscendo la portata tecnologica del poligrafo, ne limitano l’utilizzabilità come prova, ritenendo le reazioni fisiologiche troppo soggettive per garantire un verdetto equo. Nondimeno, le agenzie che operano in ambito di sicurezza nazionale lo impiegano da decenni per i controlli d’accesso a informazioni sensibili. L’attuale dirigenza dell’FBI ha spinto questo strumento oltre le sue tradizionali funzioni, trasformandolo in una verifica periodica non tanto di segreti custoditi, quanto di sentimenti politici, un uso che molti considerano senza precedenti.
Gli stessi tecnici che conducono gli esami ammettono che la cosiddetta «domanda di controllo» serve a calibrare i parametri fisiologici del candidato. Eppure, quando la domanda punta dritto a sapere se qualcuno abbia criticato Kash Patel, l’effetto collaterale diventa immediato: si semina diffidenza, si instaura la paura di esprimere opinioni, si induce l’autocensura. Così, in un contesto già provato da turn-over e tensioni politiche, la macchina della verità rischia di trasformarsi più in uno strumento di conformismo che in un alleato della giustizia.