Il futuro di Gaza dipende da negoziati intensi che ruotano intorno a richieste di smilitarizzazione, al rilascio degli ostaggi e all’afflusso di aiuti umanitari. Israele, Hamas e numerosi mediatori internazionali si confrontano su un cessate il fuoco di 60 giorni, mentre l’Unione europea annuncia un accordo con Tel Aviv per incrementare l’assistenza alla popolazione civile.
Condizioni di Israele per la tregua e avvertimenti del premier Netanyahu
Nel suo ultimo videomessaggio, Benjamin Netanyahu ha delineato in maniera dettagliata la proposta israeliana per una tregua temporanea di sessanta giorni. L’intesa, secondo il premier, prevede lo scambio tra “la metà degli ostaggi ancora in vita e i corpi dei caduti” e un cessate il fuoco a tempo determinato. Una volta avviata la pausa, precisa, si aprirebbero trattative per una fine permanente delle ostilità basata su tre cardini: deposizione delle armi da parte di Hamas, assenza di ogni capacità di governo o militare dell’organizzazione e smilitarizzazione completa della Striscia di Gaza. Solo al verificarsi di queste condizioni, ripete, la tregua potrà trasformarsi in pace stabile.
Accanto alle richieste, il leader israeliano ha lanciato un avvertimento privo di ambiguità. Se i negoziati non dovessero portare ai risultati sperati entro la finestra indicata, lo Stato ebraico, ha scandito, “otterrà lo stesso obiettivo con la forza dell’esercito”. Il riferimento è alla possibilità di un’ulteriore offensiva per svuotare Hamas di ogni residua infrastruttura militare e di governo. Parole che la diplomazia internazionale interpreta come messaggio di pressione sugli interlocutori, ma anche come segnale alla propria opinione pubblica che il governo non intende cedere su sicurezza e rilascio degli ostaggi. La nota finale dell’intervento di Netanyahu ribadisce quindi la centralità della smilitarizzazione quale prerequisito imprescindibile.
Il tavolo indiretto di Doha: mediatori al lavoro giorno e notte
Intanto, a Doha, continua un complesso balletto diplomatico che ormai dura da cinque giorni consecutivi. Delegazioni di Israele e di Hamas, pur senza sedere nella stessa stanza, permangono nella capitale qatariota mentre i mediatori percorrono instancabilmente corridoi e sale riservate. Sin da domenica le discussioni si sono concentrate sui dettagli del cessate il fuoco, sui meccanismi di verifica e, soprattutto, sul calendario per lo scambio di ostaggi e prigionieri. Secondo una fonte a conoscenza dell’evoluzione dei contatti, gli emissari “fanno la spola per colmare le ultime divergenze e preservare lo slancio verso l’intesa”. L’atmosfera è descritta come cautamente costruttiva, ma ogni parola pesa come piombo.
La spinta a trovare un punto di equilibrio non arriva soltanto dal Qatar. L’Egitto e gli Stati Uniti, citati nella dichiarazione ufficiale dell’Unione europea, sostengono il lavoro di mediazione, convinti che un accordo provvisorio possa prevenire una nuova ondata di violenza. I rappresentanti dei vari Paesi, dicono i testimoni, si alternano negli incontri riservati, consegnano proposte scritte, ritirano osservazioni e riscrivono bozze quasi in tempo reale. L’obiettivo immediato è impedire che la finestra di sessanta giorni diventi un muro invalicabile; quello di medio periodo è evitare che l’ipotesi di smilitarizzazione sia percepita come capitolazione totale. Nel frattempo, appare chiaro che ogni minuto guadagnato al tavolo ne risparmia decine nei campi di battaglia.
L’intesa Ue-Israele sugli aiuti e le sue prospettive concrete
Mentre la diplomazia lavora alle tregue, l’Unione europea ha annunciato di aver raggiunto con Israele un’intesa per migliorare con urgenza le condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza. Il portavoce della Commissione ha spiegato che l’accordo, frutto del dialogo tra l’Alta rappresentante Kaja Kallas e il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, prevede un “sostanziale aumento” dei camion di viveri e beni essenziali, l’apertura di più valichi a nord e a sud, il ripristino delle rotte di aiuto giordana ed egiziana e la distribuzione di pane tramite panifici pubblici. Sono inclusi inoltre carburante per le strutture umanitarie, protezione degli operatori e la manutenzione delle infrastrutture essenziali, dall’acqua desalinizzata all’energia elettrica.
L’accordo, sottolinea Bruxelles, si inserisce in una strategia più ampia che combina incentivi e leve di pressione sui partner israeliani. L’Ue ribadisce infatti la richiesta di un cessate il fuoco immediato e la liberazione di tutti gli ostaggi, riservandosi in futuro di riesaminare le relazioni d’associazione qualora la situazione sul terreno non evolvesse. A fare da discrimine sarà la capacità di evitare deviazioni degli aiuti verso Hamas e di garantire che gli impegni su valichi e carburante siano rispettati senza ritardi. Al di là dei dossier diplomatici, l’intesa viene accolta come spiraglio concreto da decine di agenzie sul campo, alle prese con scorte limitate e infrastrutture gravemente danneggiate.
Bilancio delle vittime vicino ai centri di assistenza: le cifre diffuse dall’ufficio stampa di Gaza
Proprio sulla tenuta dei corridoi umanitari pesa l’ultimo drammatico bilancio fornito dall’ufficio stampa di Gaza. Dalla fine di maggio, racconta il rapporto, 773 civili sono stati uccisi nei pressi dei centri di distribuzione sostenuti dalla Gaza Humanitarian Fund, iniziativa autorizzata da Israele per alleggerire l’emergenza alimentare. Nello stesso arco di tempo 5.101 persone risultano ferite e 41 ancora disperse a seguito di attacchi o scontri verificatisi vicino ai magazzini e ai punti di consegna. Le cifre, al momento non verificabili in modo indipendente, offrono tuttavia uno spaccato della vulnerabilità di chi tenta semplicemente di ottenere un sacchetto di farina o una tanica d’acqua.
Secondo gli operatori locali, le aree destinate alla distribuzione assumono ormai i connotati di trincee dove la linea sottile tra soccorso e pericolo è determinata da pochi metri. La mole di persone in coda, la scarsità di personale di sicurezza e la presenza di infrastrutture devastate espongono i civili a rischi continui. In questo contesto, la promessa di più valichi e di rifornimenti costanti diventa non solo questione logistica, ma anche di credibilità internazionale. Finché i numeri delle vittime continueranno a crescere accanto ai magazzini degli aiuti, ammoniscono fonti umanitarie, ogni discorso sulla tregua o sulla smilitarizzazione resterà fatalmente incompleto e fragile.