Voci giuridiche e testimonianze umane si sono intrecciate questa mattina, quando la Corte costituzionale ha ascoltato, in udienza pubblica, il caso di “Libera”, persona gravemente malata che chiede di porre fine alle proprie sofferenze con l’assistenza di un terzo.
La questione davanti alla Consulta
All’interno della sala gremita di Palazzo della Consulta, il giudice relatore Stefano Petitti ha illustrato i contorni della norma sotto esame, l’articolo 579 del Codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente. Nel caso specifico la disposizione si scontra con la condizione di Libera, la quale, impedita fisicamente e priva di strumenti che le permettano di agire in autonomia, affida la propria autodeterminazione a un’altra persona. Il giudizio penale nei confronti di chi la aiuterebbe diventa quindi la porta d’ingresso per il controllo di legittimità costituzionale, rivelando una complessa zona d’ombra che il diritto non ha ancora illuminato.
La Corte ha ascoltato argomentazioni che intrecciano la tutela della vita con il rispetto della dignità individuale. Da un lato, l’ordinamento protegge l’esistenza biologica; dall’altro, l’articolo 2 della Costituzione riconosce la persona come centro di diritti inviolabili. In questo equilibrio precario si colloca la domanda: fino a che punto il divieto penale può comprimere il desiderio di porre termine alle sofferenze quando la volontà è stabile ma la possibilità materiale è inesistente? Macchie di incertezza normativa emergono proprio laddove il codice, concepito quasi un secolo fa, incontra le sensibilità contemporanee sul fine vita.
Le ragioni di “Libera” e della difesa
L’avvocata Filomena Gallo, in rappresentanza di Libera, ha chiesto ai giudici di dichiarare incostituzionale l’articolo 579, ritenendo che esso violi gli articoli 2, 3, 13 e 32 della Carta. Secondo la difesa, quei precetti non si limitano a proteggere la vita e la salute, ma riconoscono anche la dignità inviolabile e l’uguaglianza sostanziale di ciascun individuo. Gallo ha ricordato alla Corte che la Costituzione deve agire come «scudo», non come prigione; pertanto, ostacolare la decisione consapevole di chi non può agire da sé equivarrebbe a trasformare lo scudo in catene.
La legale ha citato la giurisprudenza costituzionale che, nel tempo, ha colmato molte aree grigie attraverso il ricorso alle cosiddette azioni di accertamento preventivo. A suo avviso anche oggi occorre la stessa chiarezza: il procedimento penale, più che giudicare un aiutante, diventa strumento per far emergere un diritto ancora inespresso, quello di decidere come e quando concludere il proprio percorso umano quando la malattia rende insostenibile la vita quotidiana. Solo un intervento diretto della Consulta, ha concluso, può restituire coerenza interna all’ordinamento e dare risposta a chi, come la sua assistita, non dispone di altri mezzi.
La replica dell’Avvocatura dello Stato
Dalla sponda opposta, l’Avvocatura dello Stato, con la voce di Gianna Maria De Socio, ha riconosciuto l’esistenza di una zona d’ombra ma ha negato che spetti alla Corte eliminarla. Per il rappresentante governativo non esiste un «diritto a morire»; al contrario, fino all’ultimo istante deve restare intatto il potere della persona di tornare sui propri passi e scegliere la vita. Per questa ragione l’evento che viene in rilievo – l’assistenza al suicidio – è definito «futuro e ipotetico», inadatto a fungere da grimaldello per fare a pezzi la norma penale attraverso l’incostituzionalità.
L’Avvocatura ha inoltre ricordato che una sentenza civile non avrebbe valore vincolante in sede penale, se non a seguito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Eppure – ha osservato – proprio questo è stato lo scopo dell’azione promossa davanti al Tribunale di Firenze: forzare la mano per portare la questione al vaglio della Consulta. Secondo lo Stato, l’intervento risolutivo deve spettare al Parlamento, anche perché né la Costituzione né la Convenzione europea dei diritti dell’uomo impongono un diverso approdo. Solo una riforma legislativa organica, ha concluso De Socio, può dare certezze senza minare l’impianto penalistico.
Il nodo legislativo e le prospettive aperte
La discussione odierna ha quindi evidenziato una tensione ormai cronica tra il principio di autodeterminazione e l’esigenza di tutela penale. Da un lato, i fautori del cambiamento chiedono alla Corte di illuminare l’angolo buio lasciato da leggi scritte in altri tempi; dall’altro, lo Stato invoca la riserva di legge, sostenendo che l’unico soggetto legittimato a modificare i divieti è il legislatore. In assenza di parametri sovranazionali vincolanti, come ribadito anche dalla giurisprudenza Cedu, l’organo parlamentare diventa il vero spazio d’azione per colmare le lacune.
Ora la decisione passa ai giudici costituzionali, chiamati a bilanciare valori di rango primario senza la guida di precedenti obbliganti. Qualunque sia l’esito, il dibattito di oggi ha reso evidente che la domanda di dignità nel fine vita non può più restare sospesa nel limbo. Se la Corte dovesse accogliere la questione, si aprirebbe un nuovo capitolo nella disciplina del suicidio assistito; se invece la Consulta scegliesse la via della inammissibilità, la palla tornerebbe, forse definitivamente, alle Camere. In entrambi i casi i tempi dell’attesa pesano sulla vita concreta di persone come Libera, che continuano a chiedere una risposta chiara e tempestiva.