La tensione commerciale tra Washington e il blocco dei Brics ha toccato un nuovo picco: dal suo social Truth, Donald Trump ha minacciato un supplemento tariffario del 10% verso qualsiasi nazione che sostenga politiche giudicate anti-americane. L’avvertimento è arrivato mentre a Rio de Janeiro si apre il vertice annuale dell’organizzazione in presidenza brasiliana.
La minaccia dei nuovi dazi americani
La sortita di Trump non è un semplice proclama elettorale, bensì un impegno pubblico a colpire con tariffe aggiuntive ogni prodotto proveniente da Paesi che, a suo dire, si mettano in scia delle «politiche anti-americane» di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica e dei nuovi membri. Il presidente ha scritto che non farà «alcuna eccezione», aprendo la porta a un’escalation che potrebbe iniziare già il 9 luglio, data in cui entrerà in vigore il meccanismo di dazi “reciproci” da lui stesso preannunciato. L’uscita segue precedenti avvertimenti, quando aveva ventilato addirittura prelievi del 100% nel caso fosse lanciata una valuta comune alternativa al dollaro.
Ora la discussione si sposta da un piano ipotetico a un terreno operativo: le ambasciate dei Paesi coinvolti stanno ricevendo istruzioni per negoziare deroghe prima che scattino i dazi, ma Trump ribadisce che «le porte restano aperte solo a chi rispetta l’America». Nel contempo gli analisti osservano che un prelievo lineare del 10% intaccherebbe catene del valore già fragile, imponendo costi sui consumatori statunitensi proprio nel momento in cui l’inflazione stenta a rientrare. La posta in gioco, dunque, supera la lotta retorica e tocca l’equilibrio dell’economia globale, con imprese di tutto il mondo che ricalcolano contratti e rotte logistiche.
Come si è trasformato il gruppo Brics
Quando nel 2006 i ministri di Brasile, Russia, India e Cina si riunirono per la prima volta, l’acronimo Brics era poco più di un’etichetta accademica. Quindici anni dopo, la sigla rappresenta un meccanismo istituzionalizzato che ha incorporato nel 2011 Sudafrica e che negli ultimi due anni ha aperto le porte a Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Indonesia e Iran. Secondo il sito ufficiale, anche Arabia Saudita farebbe parte di quell’allargamento, ma le autorità di Riad partecipano al summit di Rio de Janeiro ancora in veste di invitate, dettaglio confermato da una fonte della tv satellitare panaraba Al-Arabiya.
Accanto ai membri effettivi, il portale del gruppo elenca un nucleo di Paesi partner– Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malaysia, Nigeria, Thailandia, Uganda e Uzbekistan – categoria cui il Brasile ha aggiunto da ultimo il Vietnam. È un mosaico eterogeneo che, sulla carta, mira a dare voce al Sud Globale nei tavoli dove si decidono le regole della finanza, del commercio e dell’ecologia. Proprio questa rete estesa, sostengono i sostenitori, legittimerebbe la richiesta di un «posto al sole» negli organismi multilaterali dominati dalle economie avanzate.
Obiettivi dichiarati e percezione di Washington
Nella narrativa ufficiale, i Brics si autodefiniscono come «forum di coordinamento politico e diplomatico per i Paesi emergenti», con la missione di rafforzare cooperazione economica, influenza globale e inclusione sociale. In pratica ciò si traduce in piani di infrastrutture comuni, programmi di sviluppo tecnologico e, soprattutto, nell’aspirazione a ridisegnare il sistema di governance internazionale dove, a loro avviso, domina un ordine occidentale ormai incapace di riflettere il peso crescente del Sud Globale. Queste ambizioni, tuttavia, vengono percepite negli Stati Uniti come un tentativo di svincolarsi dall’orbita del dollaro e di guadagnare leva negoziale sulle regole commerciali.
Trump traduce quella lettura in un linguaggio bellico: chi appoggia il consorzio, ammonisce, assume una postura ostile nei confronti di Washington. Pechino replica che il gruppo «non è mai stato progettato per lo scontro», mentre il portavoce del Cremlino ricorda che «l’interazione al suo interno non è diretta contro terzi». Il cortocircuito narrativo è evidente: da un lato la Casa Bianca teme un’alleanza capace di minare la primazia statunitense; dall’altro i Brics rivendicano di voler solo bilanciare poteri eque opportunità di sviluppo.
Le parole da Rio e il braccio di ferro sui dazi
Dal palco di Rio de Janeiro è giunta una dichiarazione congiunta in cui i membri condannano la moltiplicazione di misure protezionistiche, siano esse tariffarie o regolamentari. A loro giudizio, l’imposizione indiscriminata di dazi e altri ostacoli all’importazione rischia di compromettere ulteriormente le catene di approvvigionamento, alimentare incertezze negli investimenti e aggravare le disuguaglianze. Pur evitando di citare direttamente Trump, il documento contiene un riferimento esplicito alla pratica di «travestire il protezionismo da tutela ambientale», passaggio percepito come un affondo alle linee guida commerciali statunitensi.
La presa di posizione punta a smontare l’accusa di voler orchestrare un blocco contro l’Occidente: i delegati ribadiscono di non aspirare a costruire sfere d’influenza rivali, bensì a preservare un sistema multilaterale fondato sulle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Da Washington, però, il segnale è recepito come mero tatticismo. Il rischio, sostengono consulenti della Casa Bianca, è che un linguaggio pacato mascheri una progressiva saldatura degli interessi tra economie emergenti, destinata a manifestarsi nel momento in cui gli Stati Uniti saranno chiamati a negoziare su valuta, energia e materie prime critiche.
Vietnam, l’eccezione che complica lo scenario
Alla vigilia del vertice, il Brasile ha salutato l’adesione del Vietnam come decimo partner del gruppo, una mossa che avrebbe potuto passare inosservata se Trump non avesse, quasi in simultanea, annunciato «un grande accordo di cooperazione» con Hanoi. L’intesa, stando al post pubblicato su Truth, prevede dazi zero sulle esportazioni americane, un prelievo del 20% sulle importazioni statunitensi dal Vietnam e un’imposta del 40% sui beni di Paesi terzi che transitano per il territorio vietnamita. Un piano, dunque, che sembra ritagliare per l’alleato asiatico un corridoio preferenziale verso il mercato USA.
Così, mentre Hanoi avanza nel perimetro dei Brics, ottiene al contempo un canale privilegiato con Washington, creando una zona grigia che gli strateghi commerciali faticano a decifrare. Se il Vietnam farà valere la partnership per accedere a eventuali programmi di credito o a reti infrastrutturali del blocco, potrebbe trovarsi stretto tra due schemi tariffari contrapposti: da un lato le promesse americane di accesso agevolato, dall’altro l’impegno a non allinearsi a misure considerate anti-Usa. L’incrocio di interessi rende la minaccia dei nuovi dazi ancora più complessa da applicare in modo uniforme.