Una pulsazione elettronica travolge gli speaker: con “We Play”, l’oscuro e affascinante universo di LOOMI J trova finalmente voce pubblica, spalleggiato dall’interpretazione rarefatta di AIVI. Il singolo d’esordio si muove fra club culture e introspezione digitale, aprendo un viaggio dove ritmo ed emozione convivono in equilibrio instabile.
Un debutto che reinventa l’electro-pop contemporaneo
Il primo incontro con “We Play” colpisce per la sua energia istantanea: il brano, registrato ai PPG Studios, intreccia modulazioni deep house, incursioni synthwave e un tocco di UK garage per scolpire un groove che resta impresso sin dal primo colpo di cassa. La firma dell’enigmatico LOOMI J convive con la voce limpida di AIVI, lasciata sospesa fra echi e filtri, creando un abbraccio tra elemento umano e architettura digitale. Questa unione genera un’atmosfera notturna, quasi cinematografica, che trascende la semplice destinazione da pista per farsi esperienza emotiva integrale.
Ben lontano dalle formule usa-e-getta che saturano l’FM, LOOMI J propone qui un debutto costruito su cura maniacale per i suoni: ogni scia di sintetizzatore viene stratificata con accenti ritmici dinamici, mentre il basso pulsa in un continuo dialogo con reverberi ampi e hi-hat schizzati. Non c’è volontà di dimostrare virtuosismo tecnico fine a sé stesso; piuttosto, l’artista indirizza l’attenzione su vibrazioni capaci di suggerire immagini, memorie, frammenti di futuro. Così la traccia diventa portale sensoriale, più che semplice produzione dance-floor.
Struttura fluida, pulsazioni profonde
La scelta di rinunciare al classico schema strofa-ritornello non nasce da un vezzo sperimentale, ma da un preciso disegno emotivo: “We Play” avanza per ondate, facendo leva su brevi motivi vocali ripetuti come mantra e su crescendo di sintetizzatori che si aprono e si richiudono con la logica di respirazioni meccaniche. Ogni transizione è guidata da micro-variazioni di texture, in modo che il corpo continui a danzare mentre la mente resta agganciata a dettagli in costante mutazione. È un equilibrio instabile che ipnotizza anziché sedurre con facilità.
Su questa impalcatura, la voce di AIVI svolge il ruolo di strumento aggiuntivo più che di front-line: filtri, eco e distorsioni la trasformano in riflesso lucente che emerge e scompare, rinnovando di continuo la tensione tra presenza e assenza. Il risultato è un’esperienza immersiva, quasi meditativa, che abbraccia sia l’ascolto individuale in cuffia sia il volume alto di un grande impianto. Il pubblico, spinto a esplorare nuove profondità emotive, trova nello spazio vuoto tra le parole una zona aperta all’interpretazione personale.
Il lato visuale: un corto d’azione in musica
L’universo estetico di LOOMI J si completa con il videoclip ufficiale, affidato alla regia di Luca Patrone per FludiVision e prodotto da Vitali Victorovick e Zsambor Örkeny. Invece di limitarsi a una performance in studio, la clip sceglie la forma dell’action movie: inseguimenti, luci al neon, parkour urbano e atmosfere da metropoli futura si intrecciano a rapidi stacchi ritmici sincronizzati con il beat. Ogni sequenza punta a tradurre in immagini quell’adrenalina cangiante che il brano genera, trascinando lo spettatore in un racconto dove la musica dirige il montaggio piuttosto che accompagnarlo semplicemente.
Le tecniche VFX di ultima generazione, impiegate in post-produzione, mescolano riprese reali e componenti digitali con una precisione che esalta i contrasti cromatici e sottolinea la dimensione cyber-noir dell’intero progetto. Si percepisce un’estetica mutuata dal cinema di fantascienza e dal mondo dei videogame AAA, ma declinata con sensibilità europea: taglio fotografico scuro, texture grani filmici, dettagli urban-decadent si fondono in un linguaggio visivo coerente con l’audio. Così il videoclip non sostiene soltanto il pezzo; lo amplia, diventando esperienza multisensoriale completa.
Tecnologia d’avanguardia e estetica cyber-noir
La troupe ha sperimentato camere ad altissima velocità, droni stabilizzati e lenti anamorfiche vintage per coniugare futuro e passato nello stesso frame: l’obiettivo era generare un continuo cortocircuito temporale, in linea con le stratificazioni sonore ideate da LOOMI J. Il risultato è una densità visiva allo stesso tempo tagliente e nostalgica, capace di evocare la notte metropolitana di un posto che potremmo riconoscere ma che, nell’inquadratura successiva, diventa territorio alieno. La regia restituisce la sensazione di trovarsi dentro a un videogioco in prima persona, dove la colonna sonora reagisce ai movimenti del protagonista.
Alla base di questa sincronizzazione perfetta vi è un workflow che combina software di color-grading basati su intelligenza artificiale e compositing tradizionale: un dialogo costante che replica, in ambito visuale, il mix fra analogico e digitale già presente in studio di registrazione. Ogni colore, ogni lampo, ogni particella di pulviscolo che attraversa l’immagine segue un algoritmo di timing con il beat, trasformando la visione in danza luminosa. “We Play” diventa così prototipo di come musica e cinema possano coesistere in un’unica esperienza modulare.
Il viaggio dell’artista tra Londra, Parigi e Varsavia
Prima di approdare sulle piattaforme digitali con questo singolo, LOOMI J ha percorso un tracciato fisico e culturale fitto di incontri, set improvvisati e ascolti notturni. Dai club sotterranei di Londra, dove la bass music è rito collettivo, agli open-air parigini baciati dall’alba, l’artista ha assorbito vibrazioni urbane differenti, convertendole in un vocabolario sonoro personale. Ogni città ha lasciato una cicatrice luminosa nella sua produzione, una specie di coordinate segrete che riaffiorano in bassline distorte o in armonie vaporose e sospese.
Il punto di svolta arriva in un club nascosto di Varsavia: tra luci stroboscopiche e corridoi di cemento, il produttore incontra AIVI, cantante e modella dalla timbrica tanto eterea quanto ipnotica. La chimica fra i due si manifesta in pochi minuti, portando a sessioni notturne di registrazione che mescolano improvvisazione e ricerca timbrica. Quel materiale grezzo, scritto su laptop fra cavi intrecciati e frappé di caffè polacco, diventerà il nucleo di “We Play”, un manifesto di connessioni artistiche nate dal caso e trasformate in visione condivisa.
Quel giradischi regalato dal nonno
Se si scava ancora più indietro, si scopre che l’intera passione di LOOMI J affonda le radici in un gesto familiare: a dodici anni, il nonno gli regala un giradischi, aprendo inconsapevolmente una porta che resterà per sempre spalancata. Da quel momento il giovane inizia a collezionare vinili con voracità, trasformando la propria stanza in archivio sonoro. Ciascun solco diventa lezione di storia, e ogni ascolto alimenta il desiderio di fondere tradizione analogica e sperimentazione elettronica in continua, fertile, evoluzione quotidiana.
Con gli anni, questa ritualità si trasforma in raduno periodico di amici: il produttore apre i cassetti del proprio catalogo domestico e condivide rarità acquisite nei mercatini di Camden o nelle bancarelle parigine. Durante queste sedute d’ascolto, si definisce l’orecchio critico che oggi emerge nella cura maniacale di ogni dettaglio produttivo. Il giradischi rimane il suo strumento di meditazione, ponte costante tra infanzia e futuro, tra il crepitio del vinile e la perfezione numerica dei plug-in contemporanei che lo ispirano.
Un’identità volutamente sfocata
In tempi di sovraesposizione social, LOOMI J sceglie di arretrare nell’ombra: poche fotografie filtrate, nessuna biografia ufficiale, solamente messaggi criptici disseminati nelle stories. Tra questi spiccano gli slogan «We don’t perform. We channel.» e «LOOMI J is not someone. It’s something.», quasi fossero coordinate per un gioco di specchi. Questa strategia di semi-anonimato non è posa narcisistica, ma parte integrante del concept: l’artista invita il pubblico a concentrarsi sul flusso sonoro, a interiorizzarlo, diventandone co-autore emotivo di ogni sua pulsazione sublime.
Con l’uscita di “We Play”, questa filosofia sfocata trova la sua prima prova tangibile: il singolo non pretende spiegazioni lineari, né fornisce chiavi di lettura preconfezionate. Piuttosto, l’artista inaugura un percorso in cui musica, visual e storytelling si intrecciano fino a confondere i confini tra autore e fruitore. Non c’è narratore esterno, solo vibrazione condivisa. Ogni streaming diventa atto esperienziale, un momento in cui l’identità di chi ascolta rimbalza sulla produzione, generando significati sempre diversi con nuovi strati di suggestione.