Da mesi i dossier riservati provenienti da più capitali europee disegnano uno scenario inquietante: agenti chimici, vietati da decenni, sarebbero diventati una costante nell’arsenale di Mosca sul fronte ucraino. La frequenza di tali episodi, stando alle nuove rivelazioni, indica un’escalation metodica che rischia di varcare la linea rossa tracciata dal diritto internazionale.
Uso crescente di armi chimiche nel conflitto russo-ucraino
Secondo un’analisi appena diffusa dai servizi segreti olandesi, le forze armate russe avrebbero compiuto dal 2022 oltre novemila azioni in cui sono stati impiegati agenti chimici. Le informazioni, raccolte in collaborazione con fonti interne al governo di Kiev, descrivono un impiego ormai sistematico di gas urticanti e, in particolare, di cloropicrina. Se le bombolette lacrimogene erano già state segnalate nei mesi scorsi, l’adozione regolare di questa sostanza – letale in spazi ristretti e proibita dalla Convenzione sulle armi chimiche – rappresenta, a detta degli analisti, un salto di qualità destinato a cambiare la morfologia dello scontro.
Gli 007 dell’Aia sottolineano che l’impiego di tali composti non sarebbe episodico, bensì integrato nelle procedure operative russe. L’obiettivo – spiegano – è dislocare i reparti ucraini dalle trincee e dalle postazioni fortificate, rendendoli vulnerabili all’artiglieria convenzionale. La tattica garantirebbe vantaggi tattici immediati: bastano pochi istanti di esposizione perché occhi e vie respiratorie si infiammino, costringendo i militari ad abbandonare i ricoveri che fino a quel momento li proteggevano dai proiettili convenzionali. Nel «doppio colpo» così orchestrato risiede, dicono le fonti, la ragione principale dell’aumento delle perdite ucraine.
La cloropicrina e il suo potenziale letale
La cloropicrina è un liquido incolore, dal pungente odore che ricorda il cloro misto a solventi. Impiegata in agricoltura come fumigante e in alcune lavorazioni industriali, diventa un’arma insidiosa quando viene aerosolizzata. Durante la Prima guerra mondiale fu classificata tra i gas lacrimogeni e vescicanti: irrita occhi, pelle e polmoni, provocando nausea e vomito; a concentrazioni elevate può generare edema polmonare e condurre rapidamente al decesso. Proprio le sue caratteristiche di volatilità e penetrazione la rendono estremamente efficace negli spazi chiusi, dove la ventilazione ridotta impedisce la dispersione della nube tossica.
L’evoluzione normativa internazionale ha tentato di bandire definitivamente questa sostanza: la Convenzione del 1993 sulle armi chimiche ne vieta produzione e impiego in ogni circostanza. Nonostante ciò, il dossier olandese evidenzia che Mosca avrebbe non solo mantenuto scorte di cloropicrina, ma investito in nuovi laboratori e nel reclutamento di scienziati specializzati per ottimizzarne l’utilizzo. Per gli esperti si tratta di un indicatore allarmante: chi persevera nello sviluppo di tecnologie proscritte mostra la volontà di superare i tabù che per oltre trent’anni hanno retto l’architettura di sicurezza globale, rimettendo in discussione il fragile equilibrio post Guerra fredda.
Effetti sul terreno e costi umani
Finora Kiev attribuisce direttamente all’esposizione chimica la morte certificata di almeno tre militari, cifra che potrebbe sembrare contenuta. Il dato, tuttavia, maschera un impatto molto più ampio: decine di reparti sarebbero stati costretti a evacuare trincee strategiche proprio mentre l’artiglieria russa intensificava il tiro. Uomini spossati da lacrimazione e tosse persistente diventano bersaglio facile per le granate convenzionali. In termini di bilancio finale, sostengono i funzionari ucraini, l’impiego di gas si traduce in un moltiplicatore di vittime, perché spezza la capacità di resistenza psicofisica e incrina la fiducia nei dispositivi di protezione.
Un ulteriore aspetto evidenziato nell’indagine è la pressione logistica cui è sottoposto l’esercito ucraino. Maschere antigas, filtri di ricambio e kit di decontaminazione devono essere distribuiti in quantità ben superiori alle disponibilità attuali; ogni mancanza alimenta la percezione di vulnerabilità. A lungo termine, dicono i medici militari, l’esposizione ripetuta a sostanze irritanti può provocare danni respiratori cronici e ridurre la prontezza operativa delle truppe. Di riflesso, le comunità civili delle zone contese vivono nell’ansia costante di contaminazioni accidentali, a conferma di quanto l’arma chimica, pur se definita «non strategica», abbia un impatto sociale profondo.
Condanna internazionale e responso politico
Il ministro della Difesa dei Paesi Bassi, Ruben Brekelmans, ha definito «completamente inaccettabile» la sistematicità con cui Mosca starebbe violando la Convenzione. La sua preoccupazione va oltre il conflitto ucraino: se la soglia d’impiego di agenti proibiti si abbassa in un teatro europeo, l’effetto emulazione potrebbe manifestarsi ovunque. Washington ha già sposato questa lettura: per il Dipartimento di Stato statunitense, l’utilizzo della cloropicrina rientra in una più vasta strategia finalizzata a spezzare le difese ucraine nelle aree fortificate. Il Cremlino, dal canto suo, bolla ogni accusa come infondata e politicamente motivata.
L’opinione pubblica internazionale osserva con crescente disagio. Organizzazioni umanitarie ricordano che la Convenzione del 1993, firmata anche dalla Federazione Russa, non prevede eccezioni per l’uso sul campo di sostanze irritanti a fini bellici. I giuristi sottolineano che un eventuale accertamento delle violazioni aprirebbe la porta a sanzioni ulteriori o a procedimenti penali individuali. «Dobbiamo impedirne la normalizzazione», dichiarano i diplomatici dell’Aia, convinti che un conflitto dove l’uso di gas lacrimogeni evoluti diventa routine rischi di erodere la legittimità stessa del diritto umanitario contemporaneo.
Scambio di accuse e contesto giudiziario
Il confronto mediatico non si limita alle relazioni d’intelligence. Un tribunale di Kiev ha recentemente condannato in contumacia il generale russo Igor Kirillov, deceduto per un’esplosione a Mosca il 17 dicembre scorso, ritenendolo responsabile di aver autorizzato l’uso di sostanze proibite contro i soldati ucraini. Pochi giorni prima, il responsabile del servizio di protezione radiologica, chimica e biologica di Kiev, Artem Vlasiuk, aveva affermato che oltre duemila militari ucraini erano stati avvelenati dall’inizio dell’invasione, con almeno tre morti confermati. Il quadro giudiziario, dunque, si intreccia inesorabilmente con quello militare.
Da parte russa, le controaccuse non si sono fatte attendere. Il governatore ad interim della regione di Kursk, Aleksei Smirnov, ha denunciato varie incursioni ucraine dotate – a suo dire – di proiettili contenenti composti chimici. Gli osservatori indipendenti non dispongono, per ora, di elementi pubblici che confermino l’una o l’altra versione, ma la reciproca attribuzione di violazioni suggerisce una pericolosa corsa al ribasso delle norme di guerra. Finché la comunità internazionale non riuscirà a far rispettare i divieti, il timore è che la ‘nuova normalità’ del conflitto includa anche il ricorso abituale a presidi tossici.