Il disegno di legge in tema di fine vita, ora sotto la lente delle Camere, ribadisce che il Servizio sanitario nazionale mantiene funzioni di supervisione senza tramutare il suicidio assistito in un servizio preteso, come spiega con chiarezza il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli.
Il ruolo del Servizio sanitario: garanzia, non obbligo
Secondo Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, le pronunce della Consulta riconoscono che il Servizio sanitario nazionale deve restare un garante del percorso, limitandosi a vigilare sull’osservanza delle condizioni di legge. Le stesse decisioni, però, non aprono la strada a un diritto alla prestazione: lo Stato, ricorda il giurista, tutela anzitutto la vita e non può trasformare l’aiuto al suicidio in un servizio erogato su richiesta. La non punibilità dell’aiuto prestato a chi, in determinate circostanze, sceglie di morire non coincide con l’obbligo di fornire mezzi, personale o farmaci. L’architettura normativa disegnata finora punta a distinguere con nettezza la garanzia istituzionale dal soddisfacimento concreto della volontà di morire.
Il costituzionalista sottolinea come la prima ordinanza della Suprema Corte ribadisca che il diritto a vivere gode di tutela piena, mentre nessuna norma o decisione ha mai conferito un analogo diritto a morire. Questa asimmetria, lungi dall’essere un cavillo tecnico, costituisce la bussola che orienta l’intero impianto legislativo. Da essa deriva il principio secondo cui lo Stato deve, da un lato, evitare l’accanimento terapeutico e, dall’altro, limitarsi a verificare che ricorrano le condizioni di non punibilità per chi presta aiuto. In sostanza, la giustizia costituzionale legittima la depenalizzazione in situazioni eccezionali, ma non impone al SSN di organizzare o finanziare l’atto finale.
La libertà del personale sanitario e l’assenza di obbligo
L’idea di non attribuire al Servizio sanitario nazionale la messa in opera materiale del suicidio assistito, spiega Mirabelli, serve a salvaguardare la libertà professionale di medici e infermieri. Non si parla di obiezione di coscienza, figura che presuppone un dovere dal quale ci si può svincolare; qui il dovere non nasce affatto. Ogni eventuale collaborazione all’atto terminale sarebbe quindi affidata alla volontarietà individuale, evitando che il personale si trovi a subire pressioni, conflitti etici o obblighi disciplinari. Così si riconosce la pluralità di convinzioni che attraversa il mondo sanitario, senza comprimere il diritto dei malati a un’informazione corretta sulle alternative terapeutiche.
La distinzione tra garanzia e obbligo consente inoltre di mantenere separati i piani dell’assistenza clinica quotidiana e della decisione estrema. Un medico che cura un paziente cronico, ad esempio, non vedrebbe automaticamente trasformato il proprio ruolo in quello di esecutore di una procedura letale. La scelta di accompagnare o meno il malato nel percorso verso la morte rimarrebbe una decisione squisitamente personale, tutelata sia sotto il profilo deontologico sia sotto quello legale. Tale impostazione evita contenziosi, riduce il rischio di conflitti sul posto di lavoro e, soprattutto, protegge la relazione terapeutica, che deve restare fondata sulla fiducia reciproca e sul primato della cura.
Scelte legislative, controllo pubblico e divieto di lucro
Nel quadro delineato dalle sentenze, il Legislatore conserva un margine di manovra considerevole: potrà definire le modalità pratiche di impiego dei farmaci che attenuano la sofferenza, stabilire protocolli di sicurezza e indicare eventuali luoghi diversi dalle strutture ospedaliere in cui, con il nulla osta delle autorità competenti, sia possibile ricorrere al suicidio assistito. La cornice pubblica di controllo resta imprescindibile: non basta depenalizzare, occorre vigilare sulle procedure, verificare la sussistenza delle condizioni cliniche, documentare il consenso informato e scongiurare abusi. In questo ventaglio di opzioni, la presenza o l’assenza del SSN nell’erogazione materiale rappresenta solo una delle variabili in gioco.
La preoccupazione che la sofferenza possa diventare terreno di speculazione economica è stata affrontata dallo stesso Mirabelli. Egli osserva che, purché permanga la supervisione pubblica e siano garantite l’appropriatezza clinica e la trasparenza dei costi, il legislatore potrebbe anche ammettere forme di assistenza esterne al servizio nazionale, purché non lucrative. La chiave di volta sta nel salvaguardare l’uguaglianza sostanziale: nessuno deve essere spinto verso soluzioni drastiche per ragioni di reddito, e tutte le alternative terapeutiche, in primis le cure palliative, devono restare effettivamente accessibili. Solo così si evita di trasformare la decisione più drammatica in un privilegio per pochi.
La zona grigia tra malato e curante
Oltre gli aspetti normativi, Mirabelli richiama l’attenzione sul rapporto, spesso delicato, che unisce il paziente gravemente sofferente a chi lo assiste. Eliminare l’accanimento terapeutico, afferma, riduce di molto i casi in cui si invoca il suicidio assistito, segno che la richiesta di porre fine alla vita si intreccia spesso con la percezione di cure sproporzionate. All’interno di questo spazio umano, le leggi possono solo tracciare linee di confine, ma non potranno mai sostituirsi alla relazione di fiducia e alle valutazioni cliniche personalizzate. La flessibilità, dunque, diventa un valore: permette di adattare la risposta sanitaria all’evoluzione della condizione del malato, evitando scelte meccaniche e standardizzate.
Da questa prospettiva nasce l’invito a evitare steccati ideologici: pretendere norme minuziose rischia di irrigidire un ambito già complesso, mentre una disciplina ragionevolmente aperta e verificabile consente di mantenere equilibrio tra autodeterminazione del paziente e dovere di tutela da parte dello Stato. Resta comunque escluso, ribadisce l’ex presidente della Corte, che possa esistere una pretesa giuridica alla prestazione: chi chiede assistenza e chi eventualmente la fornisce operano in un contesto di volontarietà reciproca, sorvegliato ma non imposto. In quest’ottica, il fine vita si colloca al crocevia fra diritto, etica e medicina, richiedendo prudenza più che slogan.