Un intero stadio, cinquantottomila voci, e un uomo di settantacinque anni determinato a trasformare la musica in coscienza civile: così Bruce Springsteen ha riconquistato San Siro, offrendo non un semplice concerto ma un messaggio inequivocabile a chi teme per il futuro della democrazia americana.
Il ritorno a San Siro: quattro decenni di storia condivisa
Il 21 giugno di quarant’anni fa Springsteen calcava per la prima volta il prato del Meazza; ieri sera, per la nona volta, ha celebrato quell’esordio con l’entusiasmo di allora e la consapevolezza di oggi. Molti spettatori, presenti già nel 1985, si sono ritrovati fianco a fianco con figli e nipoti, a testimonianza di un legame generazionale che resiste al tempo. L’età non scalfisce il carisma del rocker del New Jersey: con il corpo asciutto, lo sguardo vigile e la solita energia da maratoneta del palco, ha superato le tre ore di spettacolo senza cedimenti, confermando che il rock può ancora essere un esercizio di resistenza culturale prima che musicale.
La data milanese segna la penultima tappa del segmento europeo del tour 2025, destinato a chiudersi il 3 luglio con un secondo sold-out nello stesso stadio. Non c’erano effetti speciali, né scenografie monumentali: solo un palco spartano, qualche luce essenziale e il maxi-schermo che proiettava la traduzione in italiano dei testi più impegnati, perché nessuna sfumatura andasse perduta. La sobrietà degli allestimenti ha ricordato al pubblico che la forza del concerto risiedeva interamente nelle canzoni, nella loro capacità di inchiodare le contraddizioni dell’America contemporanea e di riflettere sui pericoli che minacciano le istituzioni democratiche.
Una scaletta come dichiarazione politica
La serata si è aperta poco prima delle 20 con “No Surrender”, accolto da un boato. Elegantissimo in camicia bianca, gilet gessato, cravatta scura e immancabili jeans, il Boss ha salutato la folla presentando “il tour della Terra, della speranza e dei sogni”, ribadendo il “potere giusto” dell’arte nei “tempi pericolosi” che stiamo attraversando. Ha quindi puntato il dito contro “un’amministrazione corrotta, traditrice e incompetente” che, a suo dire, ha messo l’America nelle mani dell’autoritarismo. Il pubblico, sollecitato a “difendere la democrazia”, ha risposto con cori fragorosi mentre partivano le prime note di “Land of Hope and Dreams”.
L’impianto del concerto ha privilegiato i brani a contenuto sociale: “Death to My Hometown”, “Rainmaker” – dedicata senza mezzi termini a Donald Trump – e l’invocazione civile di “Long Walk Home”. Springsteen non ha risparmiato né sarcasmo né ammonimenti: ha ricordato che, quando un Paese offre terreno fertile a un demagogo, quest’ultimo troverà il modo di imporsi. L’artista ha poi riservato a “My City of Ruins” un passaggio accorato, definendo inadeguato il presidente in carica ma ribadendo la fiducia nella capacità del popolo statunitense di superare il momento.
La voce della E Street Band e la risposta del pubblico
Compagna inseparabile di tanti trionfi, la E Street Band si è dimostrata ancora una macchina perfetta: il sax di Jake Clemons, l’organo di Roy Bittan e la chitarra di Steven Van Zandt hanno cucito un tappeto sonoro potente e preciso, permettendo al Boss di alternare raffiche rock e momenti di intimità acustica. In “Hungry Heart” l’artista ha potuto limitarsi a dirigere il coro; lo stadio, da solo, ha portato a compimento l’intero ritornello. L’armonica donata a una bambina delle prime file ha confermato l’abitudine di Springsteen a rompere la barriera fisica fra palco e platea, cementando un patto di partecipazione che trascende l’evento musicale.
Mentre l’Europa segue con attenzione il botta e risposta a distanza fra Springsteen e l’ex presidente Trump, Milano ha vissuto in diretta un nuovo capitolo di questo confronto. Il cantante, già durante l’apertura di tour a Manchester, aveva trasformato lo show in tribuna politica; ieri sera ha rilanciato l’appello, traendone nuovo slancio creativo. Il pubblico ha risposto con ovazioni continue e con la determinazione a sostenere quei valori di libertà e inclusione che il rocker invoca da oltre mezzo secolo.
Memoria, identità e futuro nel rock di Springsteen
Nel segmento conclusivo sono apparsi i classici che nessuno vorrebbe mai perdere: “Dancing in the Dark”, “Thunder Road”, la cover di “Because the Night” di Patti Smith e, in chiusura, una triade da brivido con “Born in the U.S.A.”, “Born to Run” e “Chimes of Freedom”. Quest’ultimo brano, assente dalle scalette dal 1988, ha restituito una suggestione dylaniana che si sposa perfettamente con la natura programmatica del tour. Ogni nota è parsa un invito a ricordare che il rock non è soltanto potenza elettrica, ma anche riflessione civile e slancio solidale.
A concerto finito, mentre le luci dello stadio si riaccendevano, la domanda aleggiava quasi retorica: cosa rende ancora imprescindibile questo ex ragazzo che continua a radunare masse planetarie? Forse la capacità di coniugare memoria e speranza, lutto e sogno, dolore privato e cause collettive, mantenendo intatta una coerenza che nel frastuono contemporaneo appare sempre più rara. Se il mondo cambia a velocità vertiginosa, Springsteen rimane un riferimento morale – e sonoro – per chi crede che la libertà debba essere difesa non solo con le parole, ma con l’eco di una chitarra che, a ogni accordo, ricorda di alzare la voce contro l’ingiustizia.