Ci troviamo davanti all’ennesimo lampo d’allarme nel cielo mediorientale. Nelle prime ore di sabato 28 giugno 2025 le sirene hanno squarciato la quiete di Beersheba, Dimona e di diversi kibbutz del Negev. Un missile a lunga gittata è partito dallo Yemen, verosimilmente dalle aree controllate dagli Houthi, ed è stato intercettato in volo dai sistemi di difesa israeliani. Lo ha confermato l’ufficio stampa dell’IDF con un messaggio su X: «Un intercettore è stato lanciato; il razzo è stato con tutta probabilità neutralizzato prima di raggiungere il territorio israeliano».
E quindi, rieccoci a raccontare una storia tremante di allarmi, corse ai rifugi, sospiri di sollievo e, soprattutto, di interrogativi aperti. Perché lo Yemen? Perché adesso? E fin dove può spingersi l’escalation? Ve lo diciamo subito: non c’è stata alcuna vittima, nessuna struttura colpita. Ma l’episodio si innesta in una catena di lanci che, dall’autunno 2024, tiene con il fiato sospeso l’intero scacchiere regionale.
Che cosa è successo
Il fatto nudo è semplice: un vettore balistico è stato rilevato dai radar dell’Aeronautica israeliana intorno alle 04:40 locali. In automatico sono partite le sirene “Tzeva Adom” nel sud del Paese; pochi secondi dopo, un intercettore – l’IDF non specifica se Arrow 3 o David’s Sling – ha centrato l’obiettivo sopra il deserto del Negev, frammentandolo in quota.
Da Tel Aviv non sono arrivati dettagli sulla traiettoria né sull’esatto punto di caduta dei detriti, ma fonti militari lasciano intendere che l’ordigno avrebbe potuto proseguire verso il nucleo urbano centrale se non fosse stato abbattuto in tempo. Per ora, quindi, solo la paura. Il portavoce Daniel Hagari ha aggiunto che «le nostre difese multilivello stanno reagendo a una minaccia in costante evoluzione dal fronte yemenita».
Chi muove i fili
Gli investigatori israeliani puntano il dito contro il movimento sciita Houthi, sostenuto da Teheran, che da mesi rivendica il sostegno armato ai palestinesi di Gaza. Gli Houthi hanno già lanciato droni “Samad” e missili “Burkan‑3” in direzione di Eilat lo scorso inverno, imitandone la rotta lungo il Mar Rosso.
Dall’altra parte, l’IDF schiera un mosaico di sensori radar, batterie Patriot, Iron Dome per i corti raggi, David’s Sling per le minacce intermedie e Arrow 2‑3 contro i balistici strategici. L’ingegnere capo di IAI ha spiegato pochi giorni fa che «ogni ingaggio contro i razzi yemeniti fornisce dati preziosi per affinare il nuovo Arrow 5».
Il lancio è avvenuto, stando a fonti open‑source di tracciamento satellitare, da una zona dell’altopiano di Saada, roccaforte Houthi nel nord‑ovest yemenita. Dal decollo all’intercettazione sono passati circa otto minuti: abbastanza per far suonare gli allarmi fino a Dimona, dove sorge il reattore nucleare di Nahal Sorek.
L’abbattimento si è consumato a metà mattina ora israeliana, e le autorità hanno riaperto il traffico aereo civile sopra Ben Gurion dopo una sospensione di trenta minuti. Anche la linea ferroviaria Ashkelon‑Beersheba è ripartita senza ritardi significativi, segno che la macchina di emergenza si è mossa con la solita rapidità che gli israeliani, loro malgrado, conoscono bene.
Perché la tensione sta salendo
La risposta, ahinoi, è scritta nella geografia dei conflitti. Da oltre un anno gli Houthi dichiarano di voler «aprire un nuovo fronte» per costringere Israele a dividere le sue risorse mentre prosegue l’operazione Spade di Ferro a Gaza. Nel frattempo, la marina israeliana ha colpito più volte il porto di Hodeida per frenare gli arrivi di armi iraniane. Ogni raid spinge Sana’a a rilanciare con un missile in più.
A Gerusalemme, politici di governo e opposizione concordano su un punto: la minaccia yemenita non mira tanto a causare vittime quanto a logorare psicologicamente la popolazione e a testare lo scudo balistico. Il problema, però, è che più intercettazioni significano costi elevatissimi (si parla di 1‑2 milioni di euro per ogni Arrow lanciato) e l’eventualità che un singolo vettore sfugga al filtro resta concreta.
Le reazioni internazionali e gli scenari futuri
Washington ha condannato «l’aggressione contro un alleato» e ha ricordato che le sue unità Aegis pattugliano già il Mar Rosso per neutralizzare eventuali lanci verso Israele o il traffico commerciale. Da Bruxelles, l’Alto rappresentante Josep Borrell ha invitato «tutte le parti ad astenersi da azioni che possano incendiare un’area già altamente instabile».
Dal canto nostro, vediamo due ipotesi sul tavolo. La prima: un effetto domino con ripetuti lanci e contro‑lanci che mantengono il conflitto a bassa intensità ma eterno. La seconda, più cupa, riguarda un eventuale attacco di saturazione – decine di missili simultanei – capace di forzare le maglie dello scudo israeliano. Voi cosa pensate? È il momento di ignorare la stanchezza e tenere gli occhi aperti: la sicurezza collettiva passa anche dalla capacità di informarsi e di discutere senza fiato corto. Scriveteci, fatevi sentire: ogni voce conta.