Chi l’avrebbe detto che, dopo diciotto anni di ipotesi e carte bollate, un semplice capello potesse riaprire la strada verso la verità? Noi cronisti lo abbiamo imparato sul campo: nelle storie giudiziarie niente è davvero piccolo quando la scienza forense decide di prendersi il suo tempo. Voi lo sapete bene, avete seguito passo passo la vicenda dell’omicidio di Chiara Poggi – la giovane di Garlasco trovata senza vita il 13 agosto 2007 nella villetta di famiglia – e ora vi ritrovate a domandarvi se quel filamento di poco più di tre centimetri, spuntato dal sacco azzurro dell’immondizia in un laboratorio della Polizia scientifica, potrà finalmente fare luce su chi entrò in casa quella mattina di fine estate.
Lasciamo che le emozioni si posino un attimo e concentriamoci sui fatti, perché sono i fatti a guidare un’inchiesta seria. Il reperto è emerso il 21 giugno 2025, durante il secondo round dell’incidente probatorio disposto dal gip di Pavia. Sarà sottoposto a un’analisi di DNA nucleare: un’operazione delicatissima, con novanta giorni di tempo per capire se quel bulbo – ammesso che il bulbo ci sia – possa portare a un profilo genetico diverso da quelli già noti. Sullo sfondo, Alberto Stasi sconta gli ultimi mesi dei sedici anni inflitti in via definitiva nel 2015, mentre i consulenti cercano risposte che potrebbero cambiare non solo la storia processuale, ma anche la percezione pubblica di un caso che non smette di dividere l’opinione italiana.
La scoperta inattesa nel sacco azzurro
Il capello, raccontano i consulenti, era nascosto tra un brick di tè freddo, la confezione di uno yogurt alla fragola e i resti di una colazione qualunque. Strano destino per un reperto che ora vale oro investigativo. Quel sacco di rifiuti venne sigillato a fine marzo 2008, quando la famiglia Poggi rientrò in casa dopo il lungo sequestro dell’immobile. Da allora è rimasto in un deposito del medico legale di Pavia, dentro uno scatolone, lontano da luce e umidità. E proprio questa conservazione “casalinga” ma rigorosa – a detta degli esperti – potrebbe aver salvato l’integrità del materiale organico.
Ora i microscopi dell’Ufficio di Polizia Scientifica di Milano stanno per scaldare i motori. I genetisti taglieranno pochi millimetri di corteccia esterna, proveranno a estrarre l’aDNA (ancient DNA, lo chiamano così quando il tempo gioca contro) e a moltiplicarlo attraverso sequenze PCR di nuova generazione. Tre centimetri, in apparenza nulla; in laboratorio, un universo intero. Se il bulbo fosse integro, si potrebbe ottenere un profilo nucleare completo. In assenza di bulbo, resterà la carta del DNA mitocondriale: meno risolutivo ma capace di indirizzare ugualmente i confronti in banca dati.
L’incidente probatorio e la cronologia
Ripercorriamo insieme la marcia degli ultimi mesi. Il 17 giugno 2025 si è aperto l’incidente probatorio più imponente degli ultimi anni: oltre cinquanta reperti, molti mai esaminati prima, altri rianalizzati con strumenti di terza generazione. Una curiosità che fa riflettere: nel 2022 la Procura aveva autorizzato la distruzione di alcuni oggetti, ritenendoli ormai inutili. Fu il clamore mediatico e la tenacia della famiglia Poggi a spingere per un supplemento di verifiche, poi accolto dal gip. La cronaca, a volte, la scrive la perseveranza.
Ecco perché quel sacco di rifiuti diventa cruciale: venne repertato otto mesi dopo il delitto, quando le indagini tentavano di orientarsi tra piste divergenti. All’epoca gli accertamenti sui capelli trovati nella villa non condussero ad Alberto Stasi; di diciotto campioni analizzati, solo uno con bulbo risultò della vittima, gli altri furono attribuiti a contatto ambientale. Questa nuova traccia, se appartenesse a un soggetto terzo, spalancherebbe scenari inediti: pensiamo, per esempio, alla figura di Andrea Sempio, l’amico di Chiara la cui impronta 97f continua a far discutere.
Il significato forense del capello
Perché agitarsi tanto per tre centimetri di cheratina? Perché, ci dicono gli specialisti, il capello è uno “storico” silenzioso: assorbe contaminanti, conserva dna nel midollo, testimonia contatti fisici. In questo caso, il laboratorio tenterà di ridurre al minimo il rischio di cross‑contamination, sfruttando camere bianche e reagenti certificati ISO 17025. La partita si giocherà su tre step: isolare, amplificare, confrontare. Nel mirino, oltre a Stasi, ci sono profili di archivio raccolti dai RIS sui possibili sospetti del passato.
Volendo guardare oltre i confini italiani, non mancano precedenti incoraggianti. Pochi giorni fa, a Bristol, la giustizia britannica ha riaperto un cold case del 1967 grazie a un capello conservato sul vestito della vittima: il DNA estratto ha portato a un confronto “miliardario” con il nuovo imputato Ryland Headley, novantaduenne oggi a processo. Quando il tempo si allea con la tecnologia, il passato non è mai davvero passato.
Gli scenari giudiziari possibili
Se il nuovo profilo genetico dovesse coincidere con quello di Stasi, la difesa probabilmente invocherebbe la “contaminazione post‑delitto” o la spiegazione domestica; l’accusa, al contrario, parlerebbe di ulteriore conferma della colpevolezza. Se, invece, emergerà un profilo maschile sconosciuto, scatterà l’interrogazione automatica al database SDI della Polizia. E se non ci fosse match? Allora la Procura potrebbe richiedere un confronto allargato con i volontari che, in quei mesi del 2007, frequentavano via Pascoli. In extremis, il codice penale italiano consente la revisione del giudicato, scenario che riaprirebbe il processo in corte d’Appello.
Gli avvocati delle parti si preparano a mesi di schermaglie. La famiglia di Andrea Sempio ribadisce che il giovane, allora ventiduenne, quel 13 agosto era a casa col padre; dall’altra parte, la difesa di Stasi parla di “prove che vanno dove deve andare la verità”. Intanto il gip ha fissato la prossima udienza tecnica per il 4 luglio, quando sarà verificato lo stato di avanzamento delle analisi e si deciderà se estendere i campionamenti ad altri reperti ritenuti minori, come la famosa etichetta del brick di tè freddo.
A Garlasco l’attesa pesa come un macigno. Nella piazzetta di fronte alla chiesa, i residenti si scambiano poche parole e molti sospiri. “Ogni volta che sembra finita, si ricomincia” – ci confida una vicina di casa di Chiara, stretta nel giaccone nonostante l’afa di fine giugno. La madre Rita, che non ha mai parlato pubblicamente dal 2017, ha fatto sapere tramite l’avvocato che spera e teme allo stesso tempo: teme un altro nulla di fatto, spera in un nome chiaro su quel maledetto dossier.
Sul web l’hashtag #VeritàPerChiara è tornato tra i trend nazionali; decine di gruppi chiedono di finanziare borse di studio per la genetica forense, quasi a voler trasformare il dolore in ricerca. Nel carcere di Bollate, Stasi avrebbe scritto agli amici: “Sto pagando il mio debito, ma voglio che la giustizia sia completa”. Sono frasi che filtrano con il contagocce, smentite o confermate a seconda delle parti, eppure testimoniano un’urgenza condivisa: sapere, finalmente.
Cosa ci insegna questo caso
Stiamo assistendo a un vero manuale di criminologia applicata: dall’errata convinzione che il tempo cancelli le prove alla dimostrazione opposta, cioè che un reperto ben conservato può parlare anche dopo vent’anni. Ecco la lezione più grande. Non gettare mai via ciò che non si è ancora capito. Le difformità normative – ricordate la scelta del 2022 di distruggere parte dei reperti? – alimentano il dibattito su come bilanciare costi di archiviazione e valore probatorio in prospettiva futura.
Allora, che fare adesso? Respirare, aspettare, pretendere trasparenza. Il 4 luglio sapremo se il capello avrà parlato; a settembre scadranno i novanta giorni concessi ai periti; entro l’autunno, forse, ci troveremo con una risposta netta. Siamo pronti a raccontarvela, senza sconti e senza scorciatoie. Nel frattempo vi chiediamo di restare vigili: la verità non è mai figlia di un solo indizio, ma di un coro di domande ostinate. E noi, insieme a voi, non abbiamo intenzione di smettere di farle.