Oggi vi raccontiamo quello che è accaduto all’alba. Poco dopo le due, una formazione di 125 velivoli statunitensi – sette bombardieri invisibili B‑2 Spirit in testa – ha attraversato il cielo iraniano quasi senza essere individuata. In venticinque minuti ha sganciato quattordici Massive Ordnance Penetrator da 30 mila libbre sulle installazioni nucleari di Fordow, Natanz ed Esfahan, mentre un sottomarino lanciava oltre venti Tomahawk per aprire la strada. Il Pentagono ha battezzato l’azione “Operazione Midnight Hammer” e l’ha definita «la più grande sortita di B‑2 della storia».
L’onda d’urto politica è immediata. Israele – reduce da dieci giorni di scambi di fuoco con Teheran – applaude; l’Iran parla di “invasione” e promette ritorsioni. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunirà in seduta d’emergenza entro stasera, mentre i Paesi europei implorano la diplomazia e le borse mondiali guardano nervose al prezzo del petrolio. Voi vi chiederete: stiamo scivolando verso una guerra aperta? Noi proviamo a rispondere, analizzando i fatti che le agenzie di tutto il mondo stanno confermando.
Che cosa è accaduto nelle prime ore di domenica
In termini militari, il raid è stato chirurgico. Secondo il generale Dan Caine, i B‑2 sono decollati ieri pomeriggio dal Missouri, hanno fatto rifornimento tre volte in volo e, una volta sopra il Golfo Persico, hanno sincronizzato la loro rotta con caccia e droni d’esca per ingannare i radar iraniani. Nessun colpo di contraerea avrebbe sfiorato i velivoli stealth, e «l’elemento sorpresa è rimasto intatto dall’ingresso all’uscita».
Le bombe hanno centrato tre obiettivi precisi: i tunnel di Fordow – scavati sotto 90 metri di roccia calcarea – le centrifughe di arricchimento a Natanz e il complesso di produzione di combustibile di Isfahan. Le prime immagini satellitari Maxar mostrano bocche di galleria ostruite, crateri multipli sul costone montuoso e nubi di polvere che avvolgono l’impianto sotterraneo.
Dove sono stati colpiti i siti nucleari
Fordow si trova a sud‑ovest di Qom, in una zona irregolare di altopiani aridi. Per anni gli analisti hanno ritenuto quel sito virtualmente inespugnabile; oggi i fori scavati dai bunker‑buster raccontano una storia diversa. Natanz, invece, è al centro dell’altopiano iraniano: qui le centrifughe IR‑6 avrebbero potuto spingere l’arricchimento oltre il 60 %. Infine Isfahan, cuore dell’impianto di conversione dell’uranio, è anche snodo logistico tra Teheran e il Golfo.
Sul terreno, reporter locali descrivono colonne di mezzi di soccorso verso Fordow e movimento di camion militari intorno a Natanz; l’agenzia IRNA nega perdite di materiale radioattivo e l’AIEA conferma l’assenza di contaminazione esterna.
Chi ha ordinato l’offensiva e chi la sostiene
L’ordine è arrivato dal presidente Donald Trump, che in diretta televisiva ha parlato di «spettacolare successo» e di «nuova chance di pace se Teheran accetterà di negoziare». Israele ha collaborato nei dettagli operativi: Benjamin Netanyahu ha ringraziato Washington e ha parlato di «decisione audace che cambierà la storia».
Sul fronte opposto, l’Iran invoca l’articolo 51 della Carta ONU e considera legittimi bersagli tutte le basi USA nella regione. Russia e Cina definiscono il blitz «flagrante violazione del diritto internazionale», mentre l’Unione Europea invita entrambe le parti a «fermare l’escalation» ribadendo che «l’Iran non deve mai acquisire l’arma nucleare».
Quando si è passati dalle parole ai fatti
Il conto alla rovescia è iniziato dieci giorni fa, quando Israele ha lanciato “Operazione Rising Lion”, colpendo laboratori militari e scienziati nucleari iraniani. Teheran ha risposto con salve di missili su Tel Aviv. Nel frattempo l’intelligence statunitense avrebbe intercettato segnali di un possibile “break‑out” nucleare iraniano, accelerando la decisione di intervenire.
Il decollo dei B‑2 è avvenuto sabato alle 11:40 EDT; dopo un volo di 18 ore e tre rifornimenti, i velivoli sono entrati in Iran alle 2:05 locali di domenica. Alle 2:10 il primo MOP ha perforato la montagna di Fordow; alle 2:35 tutte le bombe erano sganciate, e alle 3:15 l’intera formazione era di nuovo sul Golfo, protetta da caccia F‑35 in copertura.
Perché Washington ha deciso di colpire ora
Ufficialmente, l’obiettivo è «allontanare la minaccia nucleare» senza rovesciare il regime. Il Pentagono sostiene che l’operazione ha ritardato di «anni» la capacità iraniana di arricchire uranio a livello militare. Dietro le quinte, però, pesano fattori politici: Trump ha promesso di non trascinare gli USA in «guerre stupide», ma la pressione del Congresso – e di Tel Aviv – si è fatta sentire dopo i lanciamissili su Israele.
C’è anche la partita regionale: Arabia Saudita, Emirati e Qatar temono che un Iran nuclearizzato alteri l’equilibrio del Golfo. Alcuni diplomatici del GCC hanno fatto sapere che «preferiscono un’azione decisa ora, piuttosto che una corsa atomica domani», pur ribadendo di non voler un conflitto aperto.
Cosa può succedere adesso
Il comandante delle Guardie Rivoluzionarie, Hossein Salami, ha dichiarato che «la guerra inizia adesso» e ha invitato le milizie alleate – Hezbollah, Houthi, milizie sciite irachene – a colpire interessi americani ovunque. Un’escalation regionale metterebbe a rischio il 20 per cento del traffico petrolifero mondiale che transita dallo Stretto di Hormuz; gli analisti di Barclays stimano che il greggio potrebbe sfondare i 150 dollari al barile nel giro di una settimana se Teheran chiudesse il passaggio.
E voi? Vi state domandando se le diplomazie abbiano ancora margine? Il Consiglio di Sicurezza ONU si riunisce entro poche ore; l’ambasciatore iraniano ha già consegnato una lettera che definisce l’attacco «non provocato» e chiede una risoluzione di condanna. In parallelo, Bruxelles studia nuove sanzioni mirate per convincere Teheran a rientrare nei ranghi dell’AIEA. Il mondo trattiene il fiato: mai come ora forza e negoziato corrono sullo stesso filo, sottile, incandescentemente teso.