TEL AVIV / WASHINGTON – Israele ha accettato l’ultima bozza di tregua redatta dall’inviato speciale USA Steve Witkoff, mentre Hamas ha fatto sapere di voler “studiare” il testo prima di dare una risposta formale. La notizia è arrivata nella serata del 29 maggio dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, che ha confermato l’«ok» di Gerusalemme. Per il governo Netanyahu si tratta del primo via libera a un cessate-il-fuoco da quando la precedente pausa di due mesi è saltata a marzo. Hamas, però, martella sui punti che mancano all’intesa: ritiro delle truppe israeliane, fine definitiva della guerra e corridoi umanitari senza limiti.
Secondo fonti convergenti di Reuters, AP e Washington Post, la bozza statunitense prevede un congelamento delle ostilità di 60 giorni, il rilascio immediato di dieci ostaggi ancora vivi più i resti di altri diciotto, e l’ingresso quotidiano di centinaia di camion di aiuti gestiti dall’ONU. In cambio, Israele potrebbe liberare oltre 1.100 detenuti palestinesi, fra cui un centinaio con ergastoli. Il documento, garantito politicamente dal presidente Donald Trump, vincola le parti ad aprire negoziati su una tregua permanente già durante la pausa.
Cosa prevede la proposta statunitense
La bozza, intitolata «Framework for Negotiating an Agreement to a Permanent Ceasefire», si articola in tre fasi. Nella prima settimana Hamas dovrebbe consegnare nove-dieci ostaggi vivi insieme ai resti di diciotto persone uccise il 7 ottobre 2023. Israele, da parte sua, rilascerà progressivamente i prigionieri palestinesi, sospenderà i voli militari per metà giornata e arretrerà da alcune aree di Gaza, consentendo il ritorno di sfollati non armati. Ogni step sarà monitorato da Stati Uniti, Qatar ed Egitto.
Il secondo nodo riguarda gli aiuti. Il piano impone l’ingresso di almeno seicento camion di viveri e carburante al giorno, con priorità al nord della Striscia, da settimane a rischio carestia. La gestione resta in mano alle agenzie ONU e alla nuova Gaza Humanitarian Foundation (GHF), iniziativa sostenuta da Washington ma già criticata da Nazioni Unite e ONG per le difficoltà di distribuzione e sicurezza. Il testo prevede anche un meccanismo di verifica che permetta la ripresa dei combattimenti se una parte viola gli impegni.
Le reazioni di Israele e di Hamas
Gerusalemme ha colto la proposta come un successo diplomatico. Fonti vicine a Netanyahu riferiscono che il premier, in un incontro riservato con le famiglie degli ostaggi, ha parlato di «passo essenziale» per riportare a casa i prigionieri. Allo stesso tempo, la coalizione di destra ultra-nazionalista lo pressa: alcuni ministri temono che la tregua congeli l’offensiva “Gideon’s Chariots” e lasci Hamas ancora radicato nel territorio. Il calcolo politico è delicato: se il governo crollasse, Netanyahu rischierebbe non solo il processo per corruzione ma anche l’ira degli elettori di centro che chiedono una svolta umanitaria.
Dall’altra parte, Hamas appare diviso. Il portavoce Sami Abu Zuhri ha definito la bozza «in linea con le posizioni israeliane» e «priva di garanzie sul ritiro». A Doha, emissari del movimento segnalano che qualsiasi accordo dovrà includere la ricostruzione di Gaza e un governo tecnico palestinese. Al Jazeera cita fonti interne secondo cui il comma sul rientro parziale delle truppe israeliane è «insufficiente» e potrebbe trasformare la tregua in un “timeout” utile solo a Israele. Il politburo di Hamas dovrebbe riunirsi nel weekend per formulare la risposta, con forti pressioni delle famiglie dei prigionieri palestinesi.
Il ruolo della diplomazia internazionale
Steve Witkoff, ex mediatore immobiliare diventato plenipotenziario di Trump per il Medio Oriente, è il volto della proposta. Il suo staff mantiene un filo diretto con Qatar ed Egitto, gli unici a parlare con Hamas e con l’ala militare di Israele. A margine dei colloqui, l’Unione europea ha fatto sapere di “[appoggiare qualsiasi passo verso un cessate-il-fuoco verificabile]”, mentre Ankara e Amman insistono su una conferenza di pace regionale entro l’autunno. Witkoff ha dichiarato di avere «sensazioni molto buone» sul raggiungimento di “una soluzione a lungo termine”.
Intanto l’ONU denuncia che i corridoi umanitari restano sotto minima capacità. La GHF ha aperto un terzo punto di distribuzione, ma scene di caos – con migliaia di persone assaltate da fame e disperazione – hanno obbligato le guardie private a ritirarsi. In undici settimane di blocco quasi totale, solo 1,8 milioni di pasti sono arrivati in un territorio di oltre due milioni di abitanti, mentre l’OMS avverte che almeno un quarto dei bambini sotto i cinque anni è in stato di malnutrizione acuta.
Il contesto militare e umanitario sul terreno
Dall’attacco del 7 ottobre 2023, in cui Hamas ha ucciso 1.200 israeliani e catturato 251 persone, la contro-offensiva di Israele ha provocato oltre 54.000 morti palestinesi, secondo il ministero della Sanità di Gaza. Il ritorno ai bombardamenti dopo il collasso della tregua di marzo ha visto l’esercito spingere l’operazione “Gideon’s Chariots” fino al cuore di Rafah, con pesanti perdite civili e la distruzione di infrastrutture critiche come ospedali e impianti idrici.
La Striscia vive una crisi umanitaria senza precedenti: il 90 % della popolazione è sfollato, l’acqua potabile scarseggia e l’economia di sussistenza è collassata. Dopo l’imposizione del blocco totale il 2 marzo, l’ingresso di carburante è crollato del 95 %, paralizzando la rete elettrica. Il Programma Alimentare Mondiale stima che due milioni di persone siano “a un passo dalla carestia”, mentre aerei e droni israeliani continuano sorvoli quotidiani a bassa quota, impedendo la riparazione di edifici strategici.
Gli scenari futuri
Se Hamas accettasse la bozza, il calendario sarebbe rapido: entro la prima settimana si procederebbe agli scambi di prigionieri, alla riapertura completa dei valichi di Rafah e Kerem Shalom e al dispiegamento di osservatori internazionali. Nelle otto settimane successive, mediatori USA-Qatar-Egitto dovrebbero trasformare la tregua in un armistizio duraturo, con un possibile mandato ONU per la ricostruzione e la supervisione di un governo tecnico palestinese fino a nuove elezioni.
Restano però numerosi ostacoli politici. Il premier Netanyahu teme di perdere l’appoggio dei partner ultranazionalisti se accetterà un cessate-il-fuoco che lasci Hamas nel gioco; Hamas, fiaccato militarmente, teme di cedere l’unica leva – gli ostaggi – senza garanzie di sopravvivenza politica. Sullo sfondo, l’amministrazione Trump punta a un risultato tangibile prima del voto di metà mandato, mentre l’Unione europea valuta sanzioni selettive su armi e colonie se la crisi umanitaria non si attenua. A oggi, quindi, la tregua resta una porta socchiusa: la settimana entrante dirà se si aprirà o sbatterà di nuovo.