Non tutti i volti che contano appaiono sullo schermo. Alcuni restano nell’ombra ma sanno raccontare come pochi. Gianni Leacche era uno di questi. Un uomo che non amava i riflettori, ma sapeva come orientarli. La sua firma – discreta, elegante, a tratti invisibile – l’abbiamo vista in centinaia di episodi tra fiction, soap, cinema e teatro. Lunedì sera, “Un posto al sole” gli ha dedicato una puntata. Un messaggio semplice, in sovraimpressione: “Questa puntata è dedicata a Gianni Leacche, prezioso compagno di lavoro.” Tutto lì. Eppure bastava.
Chi era? Chi c’era dietro quel nome? Per chi frequenta la soap solo davanti alla TV, magari la dedica è passata quasi inosservata. Ma per chi ci lavora – o ci ha lavorato – quel nome è un pezzo di storia. Una colonna silenziosa. Leacche è scomparso pochi giorni fa. Aveva 73 anni. Era nato a Roma, il 28 maggio del 1951. Una vita tra pellicole, set e tanta, tantissima voglia di raccontare.
Un’infanzia tra rottami di pellicole e sogni in Super 8
C’è un’immagine che forse più di tutte racconta chi era. Da ragazzino, ai Parioli, aveva scoperto una discarica di pellicole 35mm vicino casa. Altro che giochi. Quelle bobine diventavano mondi da esplorare. Le recuperava, le tagliava, le incollava, le sonorizzava. Poi le proiettava al catechismo. Aveva appena dieci anni quando vide “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman. Diceva che fu come un’epifania. E da lì in poi, nessun dubbio: avrebbe fatto cinema.
Lo faceva costruendosi i carrelli da solo, modificando obiettivi, cercando pellicole anche fuori Italia. Autodidatta, ingegnoso, testardo. Ma con una sensibilità rara.
Dai set di “Un posto al sole” a “La Squadra”
Il suo nome è legato a doppio filo con UPAS. Ne ha diretto oltre 150 puntate tra il 2001 e il 2004. Era uno di quei registi che non facevano rumore, ma lasciavano il segno. Precisione, umanità, ritmo. Sapeva dare forma ai momenti difficili senza appesantirli. E far parlare le pause come fossero battute.
E poi c’è “La Squadra”. Altra pietra miliare della fiction italiana. Napoli ancora, ma vista da un altro angolo. Leacche ha firmato 54 episodi, nell’arco di dieci anni. In quella serie, il suo tocco era ancora più evidente: crudo, ma mai cinico. Con uno sguardo profondo sul quotidiano, sulla fatica, sulle relazioni.
Il ricordo di chi lo ha conosciuto
Peppe Zarbo, lo storico Franco Boschi della soap partenopea, ha affidato il suo saluto ai social. Una frase asciutta, senza orpelli: “Buon viaggio Spa.” Lo chiamavano così, Spa. Non servivano troppe parole. Chi lo ha conosciuto, ha capito.
Cinema, teatro, fiction: un uomo che non si è mai fermato
Gianni Leacche non era solo fiction televisiva. Aveva scritto e diretto “Ordinaria sopravvivenza” nel 1990. E poi “Pietra Avata” nel 2008, dove si era occupato di tutto: soggetto, regia, sceneggiatura. Aveva collaborato con Sergio Staino in “Non chiamarmi Omar”. E per Rai Cinema aveva diretto “Onore il padre e la madre”.
In teatro aveva firmato regie pirandelliane al Teatro Manzoni di Roma, lavorando con nomi del calibro di Michele Placido e Massimo Bonetti. Anche lì, sempre con quella cifra tutta sua: mai sopra le righe, ma profondamente presente.
Un’eredità che resta, anche se non si vede
Il suo è stato un mestiere fatto di presenza silenziosa. Di artigianato vero. Non era uno che cercava consensi. Voleva solo raccontare bene. E ci riusciva. Perché capiva i tempi, capiva le emozioni. E sapeva cosa lasciar fuori. Perché anche quello è cinema.
Se ne è andato senza fare rumore, così com’era vissuto. Ma certe firme, anche se invisibili, restano. Sotto la pelle delle storie, nei dettagli delle inquadrature, nei silenzi dei personaggi. E allora, mentre guardiamo quella soap che accompagna le nostre sere da anni, vale la pena fermarsi un attimo. E pensare a chi ci ha lavorato in silenzio, regalando emozioni senza bisogno di apparire. Gianni Leacche era uno di loro. E adesso tocca a noi non dimenticarlo.