La mattina di martedì 13 agosto 2007 la 26enne Chiara Poggi viene trovata senza vita nella villetta di famiglia a Garlasco, provincia di Pavia. L’abitazione, divenuta scena del crimine, mostra segni di colluttazione: sangue vicino alle scale che portano alla taverna, impronte incomplete, un lavandino dove l’assassino si sarebbe lavato. A distanza di quasi diciotto anni, quelle stanze continuano a generare interrogativi, anche per le criticità riscontrate nelle operazioni di sopralluogo dei Ris e nella conservazione dei reperti, oggi rilette con occhi nuovi dalle autorità inquirenti.
Fin dalle prime ore emergono incongruenze: guanti e calzari non sempre utilizzati dagli investigatori, campioni prelevati in ritardo e un computer sequestrato solo dopo ripetuti accessi non forensi. Elementi che, secondo gli esperti nominati dalla Procura, avrebbero potuto alterare la “scena primaria” e confondere la successiva catena di custodia. L’impressione di un’indagine “a senso unico” si insinua nel dibattito pubblico, alimentando un interesse mediatico mai sopito.
Dal processo alla condanna di Alberto Stasi
Il fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, è l’unico imputato: nel 2009 viene assolto in primo grado, assoluzione confermata in appello nel 2011. La Cassazione annulla però la sentenza e dispone un nuovo giudizio; il 17 dicembre 2014 la Corte d’Assise d’Appello di Milano condanna Stasi a 16 anni, condanna resa definitiva dalla Suprema Corte nel 2015. Dopo il carcere a Bollate e poi a Pavia, Stasi continua a proclamarsi innocente, sostenuto dalla famiglia e da nuovi consulenti tecnici.
La difesa ha depositato a Brescia un’istanza di revisione basata su elementi emersi dopo il giudicato: analisi digitali ritenute incomplete nel 2007, incongruenze sugli orari di morte e impronte mai attribuite con certezza. Se la revisione fosse accolta e portasse all’assoluzione, Stasi potrebbe chiedere un risarcimento per errore giudiziario stimato tra tre e quattro milioni di euro.
L’impronta 33 e il nuovo indagato Andrea Sempio
Dal novembre 2023 il fascicolo è tornato sul tavolo della Procura di Pavia grazie alle potenzialità di software dattiloscopici di ultima generazione. Il perito Gianpaolo Iuliano e il dattiloscopista Nicola Caprioli attribuiscono l’impronta 33, un palmo impresso sul muro accanto al cadavere, ad Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara. Quindici “minuzie” coincidono, soglia ritenuta sufficiente per un’identificazione in ambito forense.
Non solo: sotto le unghie di Chiara riemerge un profilo genetico compatibile con lo stesso Sempio, mentre appunti recuperati tra i suoi rifiuti contengono la frase “ho fatto cose brutte e inimmaginabili”. Sempio, oggi 37 anni, nega ogni addebito e sottolinea di essere entrato in casa Poggi più volte negli anni, spiegazione che a suo dire giustificherebbe impronte e residui biologici. La Procura lo iscrive nel registro degli indagati, ma al momento non sono state formulate imputazioni; vale la presunzione di innocenza.
Le falle investigative che riemergono
Le verifiche del 2025 non si limitano all’impronta 33. L’attenzione si concentra anche sul “contatto papillare 10”, impressa a pochi centimetri dalla porta d’ingresso: la traccia venne rimossa nel 2007 senza alcun test sul possibile sangue presente. Se dovesse risultare ematica e non appartenere a Stasi né a Sempio, potrebbe indicare la presenza di un altro soggetto sulla scena.
Gli inquirenti rivalutano poi reperti archiviati per anni: capelli lunghi trovati nel lavandino, buste della spazzatura di casa Poggi, tabulati telefonici acquisiti con un raggio d’antenna troppo ristretto. L’uso delle tecniche odierne – metagenomica, rianalisi delle celle, intelligenza artificiale applicata ai pattern di impronte – promette di estrarre informazioni che nel 2007 erano semplicemente invisibili.
Verso una possibile revisione del processo: scenari e rischi
Se le nuove analisi fossero ritenute idonee a incriminare Sempio, il quadro giuridico potrebbe mutare su due fronti. Da un lato, la Procura dovrebbe decidere se chiedere il rinvio a giudizio di un indagato mai processato; dall’altro, la Corte d’Appello di Brescia valuterebbe se riaprire formalmente il procedimento contro Stasi. In caso di revisione, l’eventuale annullamento della condanna aprirebbe spazi per richieste di risarcimento milionarie a carico dello Stato.
Gli esperti di diritto penale ricordano però che il nostro ordinamento tutela la stabilità del giudicato: servono prove nuove, non semplici riconsiderazioni di quelle già esaminate. La linea d’ombra è sottile: basterà la “coincidenza a 15 punti” dell’impronta o serviranno elementi ulteriori a supporto, come un alibi smentito o la prova dell’arma – forse il martello recentemente recuperato in un fosso indicato da un supertestimone?
Il dolore delle famiglie e l’eco mediatica
La madre di Stasi definisce “uno schifo” l’ipotesi che il figlio abbia trascorso dieci anni in carcere da innocente, mentre i genitori di Chiara chiedono che “si rispetti il dolore ma soprattutto la verità, qualunque essa sia”. Entrambe le famiglie, dopo quasi due decenni di udienze, consulenze e talk-show, vivono oggi l’ennesima ondata di attenzioni con stanchezza e apprensione.
Intanto, a Garlasco, la villetta di via Pascoli resta chiusa, sigillata dal ricordo. I vicini evitano telecamere e taccuini, ma non nascondono la speranza che la tecnologia chiarisca finalmente come e perché Chiara sia stata uccisa. Solo una verità processuale completa potrà forse spegnere le polemiche e restituire alla comunità la serenità perduta.