Il futuro del Prosciutto San Daniele di fronte ai dazi americani
Il Prosciutto San Daniele, negli Stati Uniti, si posiziona in una fascia di prezzo medio-alta. Un’imposizione di un dazio del 20% rappresenterebbe sicuramente un onere, ma non tale da compromettere significativamente il mercato. Tuttavia, l’ipotesi di un dazio del 200% potrebbe paralizzare completamente l’export, non solo per il San Daniele, ma per molti altri prodotti italiani. Al contrario, un incremento più contenuto sarebbe gestibile, considerando il posizionamento già consolidato del prodotto sul mercato statunitense.
Mario Emilio Cichetti, direttore generale del Consorzio del Prosciutto di San Daniele, ha espresso preoccupazioni durante un’intervista, sottolineando l’impatto potenziale dei dazi annunciati dagli Stati Uniti sui prodotti italiani ed europei.
Rischi e implicazioni dei dazi statunitensi
Cichetti ha evidenziato che un dazio del 200% porterebbe al blocco totale degli scambi commerciali. L’Italia, terzo esportatore europeo verso gli USA dopo Germania e Irlanda, risulterebbe particolarmente colpita, considerando che i prodotti italiani, dal food al design, rappresentano una parte significativa del fatturato generato negli Stati Uniti.
Per il Prosciutto di San Daniele, gli Stati Uniti rappresentano una fetta importante dell’export, con il 5% del totale del prodotto venduto destinato a quel mercato, equivalente al 20% delle esportazioni complessive. Francia, Stati Uniti, Australia e Germania rimangono i principali mercati di destinazione, con gli USA posizionati al secondo posto dopo la Francia.
Il Consorzio ha pianificato importanti investimenti e strategie di comunicazione per i prossimi due anni negli Stati Uniti. Tuttavia, l’annuncio dei dazi ha creato incertezze, mettendo in discussione l’attuazione di tali progetti.
Il posizionamento del Prosciutto San Daniele negli USA
Secondo Cichetti, il Prosciutto San Daniele, come molti altri crudi italiani, occupa una posizione di rilievo negli Stati Uniti, dove viene considerato un prodotto esclusivo. Sebbene vi siano competitor internazionali, soprattutto europei come gli spagnoli, il prosciutto crudo italiano è predominante sul mercato statunitense.
Il Consorzio non può delocalizzare la produzione, essendo un prodotto DOP legato al territorio. Tuttavia, si sta lavorando per ottimizzare i servizi commerciali e facilitare il flusso del prodotto dall’Italia agli Stati Uniti. Molti soci del Consorzio già operano negli USA con attività commerciali o produttive, sebbene non legate al Prosciutto San Daniele, mantenendo comunque un’attenzione elevata alla situazione attuale.
Strategie e contromisure
In risposta ai dazi, Cichetti suggerisce il negoziato come prima opzione. Tuttavia, in caso di resistenza da parte degli Stati Uniti, propone misure di contropartita, come l’imposizione di dazi sui servizi informatici europei acquistati dagli USA, che potrebbero generare un impatto più significativo rispetto ai dazi americani sui prodotti italiani.
Se i dazi dovessero diventare insostenibili, il Consorzio ha margini di crescita in altri mercati. L’Australia, ad esempio, sta registrando una crescita costante, mentre il consumo interno europeo rimane interessante, con particolare attenzione al Centro e Nord Europa. L’obiettivo è rafforzare la presenza in questi mercati, limitando i danni derivanti da eventuali restrizioni statunitensi.
Oscillazioni di costi e vendite nel 2024
Il 2024 è stato un anno complesso per il Prosciutto San Daniele. L’aumento del costo delle materie prime, in particolare delle cosce per i prosciutti DOP, ha influenzato negativamente la produzione, che ha registrato un calo del 6%. Tuttavia, le vendite hanno segnato un incremento del 6,7%, grazie a una buona penetrazione nei principali canali di distribuzione, come la grande distribuzione e l’Horeca.
Nel 2025, i costi si mantengono elevati, con quotazioni delle materie prime stabili. Nonostante ciò, il Consorzio continua a lavorare per mantenere un bilancio positivo attraverso strategie mirate nei canali di vendita.
La filiera e il valore del Made in Italy
Il Prosciutto San Daniele si distingue per la sua filiera completamente italiana. I suini provengono da 10 regioni del Centro-Nord Italia, con 3.000 allevamenti iscritti al sistema di controllo e una quarantina di macelli. La trasformazione avviene esclusivamente nel comune di San Daniele del Friuli, dove operano 31 prosciuttifici che generano un fatturato di circa 340 milioni di euro. Questa filiera rappresenta un simbolo del Made in Italy.
Impatto delle epidemie suinicole
La peste suina africana (PSA) ha avuto un impatto limitato rispetto a quanto riportato mediaticamente, colpendo solo alcune aree circoscritte. Più significative sono state le conseguenze della PRRS, una malattia che ha ridotto drasticamente i numeri della filiera suinicola in Europa tra il 2021 e il 2023. Fortunatamente, la PSA è stata gestita efficacemente dallo Stato italiano, limitando i danni.
La PSA incide soprattutto sull’export verso paesi terzi, come Cina, Corea e Giappone, che impongono restrizioni sanitarie. Tuttavia, mercati come Stati Uniti, Australia e Sudafrica rimangono aperti, contenendo parzialmente le perdite.
Cichetti conclude sottolineando che, grazie a un’efficace gestione istituzionale, il settore sta affrontando queste sfide con resilienza, mantenendo aperti importanti canali di esportazione e salvaguardando il valore del Prosciutto San Daniele sul mercato globale.

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Lavoro
Il fenomeno del no-show: un problema per il settore della ristorazione

Il recente episodio della fattoria didattica “Il Ciliegio” di Genova, dove la metà dei tavoli prenotati è rimasta inutilizzata a causa dell’assenza dei clienti, ha riportato alla luce il dibattito sul fenomeno del no-show, ossia l’abitudine di effettuare prenotazioni senza poi presentarsi. Tale comportamento, sempre più diffuso, richiede soluzioni efficaci per contrastarne gli effetti negativi sul comparto della ristorazione.
TheFork, leader nel settore delle prenotazioni online e nei gestionali per ristoranti attraverso la piattaforma TheFork Manager, si dedica da tempo alla lotta contro il no-show. L’azienda mette a disposizione strumenti innovativi per supportare i ristoratori nel ridurre al minimo le perdite economiche derivanti da tale fenomeno.
Una misura significativa introdotta da TheFork è la nuova policy, attiva da ottobre 2024, che prevede la sospensione dell’account per gli utenti che accumulano quattro no-show entro un anno. I risultati di questa iniziativa sono già evidenti: nei primi due mesi del 2025, il tasso di no-show sulle piattaforme TheFork è calato al 3%, rispetto al 3,6% dello stesso periodo dell’anno precedente, generando un recupero di entrate potenziali pari a circa 360.000 euro mensili per i ristoranti partner in Italia, equivalenti a 4,3 milioni di euro annuali.
La policy si è dimostrata particolarmente efficace nel colpire comportamenti scorretti: il 90% degli account sospesi appartiene a utenti con un tasso di no-show superiore al 10%, account fraudolenti o persone che frequentemente annullano all’ultimo minuto. Questi dati sottolineano l’importanza di misure mirate per salvaguardare l’intero settore.
Secondo Andrea Arizzi, Sales Director di TheFork Italy & Dach, il fenomeno del no-show rappresenta una sfida significativa per i professionisti della ristorazione. “Il caso di Genova evidenzia quanto sia fondamentale sensibilizzare i consumatori sulle conseguenze di questo comportamento. Prenotare dovrebbe essere percepito come un impegno reale, rispettoso del lavoro di chi ogni giorno si dedica a creare esperienze gastronomiche di qualità”, afferma Arizzi. Egli ricorda anche l’episodio di PizzAut, il ristorante sociale gestito da ragazzi autistici, che nel marzo 2023 si è trovato a fronteggiare una cancellazione di 150 coperti all’ultimo minuto. Grazie all’utilizzo di strumenti digitali, come TheFork Manager, il locale è riuscito a riempire i tavoli vuoti in poche ore.
TheFork Manager si distingue per le soluzioni digitali avanzate che consentono ai ristoratori di prevenire il no-show senza influire negativamente sull’esperienza del cliente. Ecco dieci strumenti essenziali offerti dalla piattaforma per combattere il fenomeno:
1. Tecnologia predittiva: un sistema che analizza i comportamenti degli utenti per identificare le prenotazioni a rischio e permettere interventi tempestivi.
2. Indice di affidabilità: un indicatore visibile sul gestionale che segnala gli utenti con precedenti no-show.
3. Blocco delle doppie prenotazioni: limitazioni che impediscono prenotazioni simultanee in ristoranti diversi o ravvicinate nello stesso ristorante.
4. Doppia conferma: una verifica tramite email e notifica push che riduce il rischio di dimenticanze.
5. Cancellazione semplificata: un sistema che permette agli utenti di annullare facilmente le prenotazioni, incentivando le disdette tempestive.
6. Analisi avanzata: strumenti per monitorare le statistiche sui no-show e le cancellazioni tardive, aiutando i ristoratori a definire strategie mirate.
7. Ri-conferma automatica: una funzionalità che richiede ai clienti di confermare nuovamente la prenotazione, riducendo le disdette dell’ultimo minuto.
8. Lista d’attesa dinamica: notifiche automatiche agli utenti in lista d’attesa per occupare tavoli appena liberati.
9. Garanzia con carta di credito: per i ristoranti di fascia alta, è possibile richiedere una carta di credito a garanzia o optare per il prepagamento, riducendo i rischi.
10. Policy educativa: la sospensione degli account per gli utenti con quattro no-show annuali, attiva da ottobre 2024.
Grazie a queste strategie, TheFork si conferma un partner affidabile per i ristoratori, offrendo strumenti concreti per minimizzare il no-show e promuovere una cultura di prenotazione più consapevole e rispettosa.
Lavoro
Le prelibatezze dolciarie italiane per celebrare la Pasqua

I dolci tipici della Pasqua in Italia non si limitano alle tradizionali uova di cioccolato e alle celebri colombe: ogni regione offre una varietà di specialità che meritano di essere scoperte e apprezzate. Se le uova di cioccolato, tanto amate dai bambini, sono un elemento immancabile, e la colomba pasquale, disponibile in molteplici versioni e decorazioni, rappresenta un classico senza tempo, la festività pasquale diventa anche un’occasione per esplorare i sapori della tradizione regionale. Un esempio è l’agnello pasquale, preparato con marmellata e decorato con pasta di mandorle, che per molti piccoli rappresenta un’alternativa golosa alle uova di cioccolato.
Tra le prelibatezze regionali spicca il casatiello, dolce caratterizzato dall’intenso profumo di limone e dalla croccante glassa che lo ricopre, mentre in Trentino Alto Adige si possono gustare la corona pasquale, una treccia dolce lievitata, e il fochaz-osterbrot, un pane dolce di farina di grano, spesso modellato a forma di coniglietto.
In Valle d’Aosta troviamo la flantse, un pane di segale arricchito con uvetta, mandorle, zucchero, burro e canditi. Spostandosi in Sardegna, si scoprono le pardulas, piccoli cestini di pasta ripieni di ricotta, uvetta e scorza di limone, cotti al forno e serviti con miele. Dal Friuli Venezia Giulia arriva la gubana, un dolce a base di sfoglia farcita con noci, uvetta, pinoli, mandorle, scorze di agrumi e cioccolato. Sempre dal Friuli provengono i panini di Pasqua, realizzati con farina gialla, zucchero e uvetta.
Il Veneto propone la fugassa, una focaccia dolce dalla lunga lievitazione, nata come versione arricchita del pane pasquale tradizionale, grazie all’aggiunta di burro, uova e zucchero. In Liguria, invece, i canestrelli pasquali incantano con le loro forme intrecciate di pasta frolla, spesso decorate con uova colorate al centro o sui bordi. E che dire della ciaramicola, tipico dolce umbro? Si tratta di una ciambella ricoperta da una glassa croccante bianca, con un interno rosso grazie all’uso del liquore alchermes. A Mantova si prepara il bussolano, una ciambella aromatizzata al Marsala, mentre l’Emilia Romagna offre i piadot di Pasqua, piccole focacce dolci con farina bianca e gialla, uvetta e pinoli.
La Toscana celebra la Pasqua con la pasimata, un dolce soffice dal profumo di arancia e anice. In Abruzzo, invece, si preparano i cavalli e pupe, biscotti di pasta frolla arricchiti con un uovo sodo. In Basilicata troviamo le pannarelle, dolci intrecciati o a forma di cuore, decorati con un uovo al centro, evocando l’immagine di un cestino colmo di dolci per i più piccoli.
Nel Lazio, durante la settimana successiva alla Pasqua, si realizzano i cavallucci e pigne, biscotti guarniti con confettini colorati, preparati con uova, zucchero, farina, lievito, liquore e scorza di limone. La pastiera napoletana, originaria della Campania, è ormai un dolce iconico apprezzato in tutta Italia. Infine, la Sicilia delizia con cassate e pasta di mandorle, dolci amati tutto l’anno ma particolarmente simbolici nel periodo pasquale. Tra Puglia e Calabria, la tradizione include numerosi dolci decorati con uova.
Lavoro
Donne e GenZ più felici in ufficio, welfare aziendale aiuta per il 60% dei lavoratori

Il concetto di welfare aziendale sta cambiando. Lo fotografa la nuova indagine dell’Osservatorio Benessere felicità, realizzata con la partnership tecnica di Up day, dove emerge come il 60% dei lavoratori riconosce il welfare aziendale come utile alla felicità al lavoro e il 45% lo vede come un elemento di benessere in azienda, ma non un plus per cambiare. In un’Italia meno felice del 2024 (con una media di 3.09 punti su 5 rispetto al 3.24 dell’anno scorso), la ricerca dell’Osservatorio Benessere felicità rileva che alla domanda ‘Quanto ti senti felice del tuo lavoro?’ le donne superano gli uomini (3.28 rispetto 3.23), la Generazione Z è capofila con un valore medio di 3.34 e seguono a ruota Baby Boomers (3.31), Millennials (3.27) e Generazione X (3.21).
“Quest’anno – afferma Elisabetta Dallavalle, presidente dell’associazione Ricerca felicità – abbiamo visto che rallenta lievemente la great resignation: alla domanda se ‘ti piacerebbe avere la possibilità di cambiare posto di lavoro o lavoro nei prossimi 12 mesi?’ il 59.9% dice di no (nel 2024 era il 55%). Rimane costante il 24% di chi vorrebbe cambiare azienda o posto di lavoro, ma scende la percentuale di chi vorrebbe cambiare lavoro o mestiere al 17% (l’anno scorso era il 21%). Tra gli aspetti considerati più importanti nello scegliere un nuovo posto di lavoro rimane alla prima posizione ‘avere uno stipendio maggiore’, che rispetto al 42% dell’anno scorso sale al 48%, oltre 25 punti percentuali sopra flessibilità (22%) e opportunità di crescita (21%). Scende ‘l’avere un welfare dell’azienda o del settore migliore’ dal 17% del 2024 al 13% e anche quest’anno lavorare in un ambiente/azienda con un marchio noto risulta essere l’ultima scelta per i lavoratori e le lavoratrici italiane”.
Tra dipendenti e autonomi sono più felici del proprio lavoro questi ultimi (3.40 rispetto a 3.22) e i laureati lo sono più di chi non ha avuto un percorso formativo universitario (3.33 rispetto a 3.21). Alla domanda ‘Secondo te, quanto il welfare aziendale determina la felicità dei/delle collaboratori/collaboratrici in azienda?’ emerge che uomini e donne sono pressoché allineati con rispettivamente una media di 3.59 e 3.58, tra le generazioni i più positivi sono i Millennials con 3.66, seguono Baby Boomers (3.61) Generazione Z (3.57) e Generazione X (3.53). Il Sud e le Isole, con 3.71, guidano geograficamente questa consapevolezza, seguono Nord Ovest (3.56), Nord Est (3.52) e chiude Centro con 3.50.
“Questi dati – afferma Mariacristina Bertolini, vice presidente, dg Up day e direttrice zona Euromed di Up – ci spingono a riflettere su una nuova grammatica del welfare. Questo perché emerge un disincanto forse dovuto anche alle eccessive aspettative in un welfare erogato dalle aziende, che non può competere o sostituirsi al welfare pubblico: basti pensare che quest’ultimo nel 2022 era di poco inferiore a 650 miliardi, a fronte dei 3 miliardi di quello privato. Paradossalmente, le risposte che vedono più determinante il welfare aziendale nella felicità dei lavoratori sono distribuite nei territori con un minor grado di diffusione degli stessi strumenti di welfare. Crediamo che questo sia dovuto al fatto che, chi l’ha ottenuto, ha compreso quanto il vero welfare non sia solo buoni pasto o buoni carburante, ma è qualcosa che promuove l’accompagnamento ai bisogni dei cicli di vita, la promozione dell’unicità delle persone, dello smart working, dei programmi di supporto alla genitorialità o del caregiving” .
“Non può più essere – sostiene . solo un pacchetto di benefit, ma deve evolversi verso un modello che metta al centro ciclo di vita, bisogni reali, relazioni, flessibilità e supporto alla vita personale. La ricerca dimostra che il 45% degli italiani ritiene che i servizi di welfare fanno parte del benessere in azienda e solo il 34% li vede come un benefit in più per scegliere dove andare a lavorare. Per il 18% degli intervistati la propria azienda non eroga nulla, ma quello che ci ha fatto riflettere è che solo il 13% ritiene che nella propria azienda o organizzazione vengano promossi programmi di supporto alla genitorialità e solo il 10% programmi di supporto al caregiving. Quello che servirebbe al nostro Paese”.
Il numero di interviste raccolte è stato pari a 1.000 e il campione è stato distribuito tenendo in considerazione variabili territoriali (Zona Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole), dimensione del centro abitato, genere, generazione culturale (Generazione Z, Millennials, Generazione X e Baby Boomer) e sono state monitorate anche le variabili sulla tipologia di rapporto di lavoro (dipendente/autonomo), fasce reddituali e titolo di studio (laureati/non laureati).