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La rinascita del kung fu in Italia: Gabriele Mainetti riscrive le regole dell’azione

Non è spuntato all’improvviso un gigantesco cartellone con luci al neon per annunciare il grande evento, e non c’è stato un colpo di gong a scuotere il quartiere. Eppure, qualcosina si è mosso tra le vie del nostro cinema. Avete presente quella sensazione che si prova quando, nel bel mezzo di una cena con amici, qualcuno tira fuori un progetto che sembra assurdo e vi trovate a pensare: “Però… magari funziona davvero”? Ecco, l’arrivo de “La città proibita” di Gabriele Mainetti sembra proprio incarnare quell’entusiasmo. Uno slancio che unisce il fascino del kung fu, l’immaginario orientale, i grandi richiami di Hollywood e un’irriducibile impronta italiana.

È una scommessa che non ti aspetti. L’Italia, dopotutto, non è famosa per le arti marziali in sala. Siamo tradizionalmente associati ad altri generi: la commedia, il dramma autoriale, forse un pizzico di horror d’antan. E adesso? Sembra che Mainetti abbia deciso di confondere le carte, di lanciarsi su un terreno complicato e di provare a cucire insieme mondi apparentemente lontanissimi.

Quando il kung fu parla in italiano

Molti di noi, sentendo parlare di calci volanti, pensano subito a Hong Kong, Bruce Lee, Jackie Chan, magari a qualche scena girata con uno stile frenetico e coreografie impeccabili. Nessuno si sarebbe immaginato che, un giorno, si sarebbe tentato di innestare tutto ciò in una storia che profuma di vicoli italiani, di personaggi veraci, di quell’ironia un po’ pungente che ci fa sentire a casa. Invece, “La città proibita” lo fa sul serio.

Se vi state domandando come sia stata possibile un’impresa simile, sappiate che dietro c’è un lavoro maniacale. Mainetti, forte di esperienze precedenti che già mostravano un gusto per i progetti fuori dai sentieri più battuti, ha contattato esperti del settore per allenare gli attori e strutturare le scene d’azione. Ha coinvolto lo stunt coordinator Lian Yang (noto per aver collaborato a progetti come Deadpool & Wolverine), portando in Italia quella competenza necessaria a realizzare combattimenti spettacolari, a trasformare le scene di lotta in veri e propri momenti drammaturgici.

Il bello è che questa volta, oltre alle mosse di arti marziali, c’è la volontà di inserire dettagli tipicamente nostri: quel sapore di realismo mediterraneo, i dialoghi impregnati di battute fulminanti, la passione che trasuda anche dal più piccolo personaggio di contorno. Il mix di oriente e occidente non è un semplice abbellimento, ma una vera fusione di codici: da un lato la tensione e la precisione tecnica del cinema di arti marziali, dall’altro il calore e l’improvvisazione dell’italianità.

Ricordando i pionieri

Non è la prima volta che il kung fu atterra sul nostro territorio. Chi è cresciuto a pane e film di arti marziali forse ricorda L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, in cui Bruce Lee scambiava calci proprio nei pressi del Colosseo. Già allora si percepiva un senso di straniamento, come se il maestoso anfiteatro non appartenesse più solo alla tradizione occidentale. In “La città proibita”, però, non si tratta di un cameo o di un semplice momento suggestivo. È il cuore stesso del racconto a battere con un ritmo diverso, collegando il DNA italiano all’estetica del combattimento.

Forse è un omaggio, magari un’eredità ripresa da Bruce Lee e poi rielaborata nel tempo. Oggi, registi come John Woo, Jackie Chan, ma anche figure più recenti come Chad Stahelski o Gareth Evans, hanno sdoganato l’idea che l’action possa essere raccontato in mille sfumature diverse, sovrapponendo culture distanti. Se siamo onesti, questa contaminazione ci affascina da sempre. E Mainetti è riuscito a declinarla in modo singolare, quasi fosse un assolo jazz su un tema classico: parte dalle regole del gongfupian ma poi le piega a una narrazione molto più vicina al nostro vissuto.

La sfida economica e la posta in gioco

Per tirare su un film che unisca arti marziali e scenari italiani, ci vogliono quattrini e coraggio. Non è un segreto: i combattimenti ben coreografati richiedono professionisti altamente specializzati, e una produzione che voglia sembrare competitiva con le grandi case americane deve investire non poco in effetti speciali, scenografie e sicurezza sul set.

In Italia, non tutti sono disposti a rischiare: c’è sempre la solita voce di corridoio che dice “da noi, un film di genere non funziona”. Eppure, siamo sempre stati abili nel reinventare i canoni internazionali. Pensiamo allo spaghetti western: partiva da una tradizione statunitense e ha finito per imporsi come fenomeno assoluto, con Sergio Leone a fare da pioniere. Anche qui, l’idea potrebbe sembrare ardita: cucire il western nel nostro tessuto cinematografico. E invece ha funzionato, diventando un marchio di fabbrica.

Con “La città proibita”, ci si chiede se accadrà qualcosa di simile. C’è chi dice che sarà un exploit fugace, chi invece lo vede come un apripista per nuove produzioni. In entrambi i casi, è innegabile che il progetto smuova un bel po’ di curiosità, perché spinge l’immaginario collettivo a immaginare un’altra strada, una commistione che nessuno si aspettava e che potrebbe far scattare una scintilla nei produttori più avventurosi.

L’azione come linguaggio narrativo

Non è solo questione di pugni e calci, intendiamoci. Nel cinema di arti marziali più raffinato, un combattimento diventa un momento di svelamento emotivo. Guardate i classici di Hong Kong, e noterete che ogni colpo, ogni parata, rispecchia un conflitto interiore. Bruce Lee non combatteva mai solo per mostrare la propria bravura, ma per difendere un principio o sbloccare un dilemma personale.

Allo stesso modo, Mainetti non vuole trasformare i suoi attori in semplici macchine da guerra. La coreografia serve a raccontare i rapporti tra i personaggi, a mostrare che dietro un colpo ben assestato c’è un groviglio di tensioni, rivalità, speranze. Poi ci sono i toni ironici, tipicamente italiani, che non mancano di alleggerire la drammaticità delle scene, aprendo spiragli di umanità in mezzo ai momenti più intensi.

Dal western al kung fu: i vecchi fantasmi del cinema di genere

Ripensiamo agli anni Settanta, quando l’Italia era maestra nel reinterpretare filoni stranieri: oltre al western all’italiana, c’erano l’horror, il poliziesco, persino la fantascienza artigianale. Registi come Mario Bava e Dario Argento hanno segnato l’immaginario di generazioni, mostrando che anche con budget non astronomici si potevano creare universi potentissimi. Poi, da un certo momento in poi, sembra che ci siamo rinchiusi in un porto sicuro, privilegiando commedie brillanti, drammi introspettivi, qualche eccezione sparsa.

“La città proibita” segna, a suo modo, un ritorno a quell’audacia. E non è tanto per fare un omaggio nostalgico, quanto per ribadire che, se si vuole, il cinema di genere può risorgere dalle sue ceneri. Magari con un taglio diverso, adatto ai gusti di oggi, più aperto al cross-over culturale. E la testimonianza che un film di arti marziali in salsa italiana possa avere senso sta proprio nella cura messa in questa produzione. Si sente il desiderio di dimostrare che sì, anche noi sappiamo girare sequenze mozzafiato, senza rinunciare all’autenticità del racconto.

Il segnale di Mainetti: osare ancora

Quando ci si trova di fronte a qualcosa che scardina le abitudini, è inevitabile che si generino opinioni contrastanti. A volte l’entusiasmo è alle stelle, a volte scatta lo scetticismo. Ma la bellezza di un progetto così consiste nel suo invito a riconsiderare i limiti che diamo per scontati. Chi l’ha detto che, in Italia, si debbano fare sempre e solo commedie o film d’autore? “La città proibita” propone un’altra via, fa intravedere la possibilità di un cinema che non teme di misurarsi con i maestri dell’azione.

Forse ci troveremo di fronte a un nuovo filone, o forse rimarrà un esperimento singolo. Tuttavia, il coraggio di Mainetti potrebbe innescare una reazione a catena: se questo film funzionerà – al di là dei giudizi di critica e pubblico – dimostrerà che l’Italia può rispolverare la sua vena creativa più spericolata, che il “genere” non è morto, che si può ancora puntare su scenari inediti.

E adesso tocca a voi

C’è un’energia tangibile nel cinema che sa osare, un’energia che può contagiare altri registi e produttori, spingendoli a esplorare nuovi sentieri. È come se “La città proibita” ci ricordasse che, in fondo, lo spaghetti western o l’horror di scuola italiana nacquero proprio da un colpo di testa di chi voleva provare strade diverse.

Certo, non è detto che questa formula – kung fu più spirito italiano – conquisti tutti. Alcuni potranno storcere il naso, altri usciranno dalla sala con l’adrenalina addosso, pronti a raccontare agli amici come sia stato sorprendente vedere certe mosse in un contesto così familiare. In ogni caso, l’effetto sorpresa è garantito, e forse è proprio di questa sorpresa che il nostro panorama cinematografico aveva bisogno.

In definitiva, ci troviamo di fronte a una storia di passione. Quella di un regista che, rifiutando di rimanere nei binari, ha deciso di girare un film così controcorrente da sembrare un azzardo purissimo, ma che in realtà parla di noi, dei nostri desideri, delle nostre voglie di raccontare storie diverse. Il kung fu in chiave tricolore – se fatto con intelligenza e rispetto per i modelli d’origine – può trasformarsi in un linguaggio universale, capace di unire platee diverse e stimolare l’immaginario collettivo.

E allora, potremmo persino scoprire che l’idea di un Bruce Lee a Roma non era un semplice aneddoto stravagante, bensì una traccia del futuro, un segnale lasciato in giro per chiunque avesse il coraggio di raccoglierlo. Mainetti l’ha raccolto: “La città proibita” è il suo modo di dirci che è ancora possibile creare qualcosa di estremamente pop e, allo stesso tempo, profondamente italiano. Sta a voi decidere se questa contaminazione funzioni o meno. Ma, a volte, la vera vittoria sta nel provarci, nel regalare a tutti noi un orizzonte nuovo che non pensavamo potesse esistere. E chissà che non sia l’inizio di un’avventura destinata a lasciare il segno.

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