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Cinque film che riscrivono la guerra: la forza delle Donne in prima linea

Succede di ritrovarsi con il fiato sospeso mentre scorrono immagini di soldati impolverati e paesaggi ridotti in macerie. Inquadrare la guerra, nella sua brutalità, scatena un misto di sgomento e ineluttabilità. Poi, ecco affiorare uno spiraglio inaspettato: una prospettiva femminile, capace di cogliere dettagli e ferite che sfuggono ai toni più “ufficiali” delle cronache militari. Spesso, storie del genere provocano un sussulto. È come se qualcuno bussasse alla coscienza collettiva con un’energia nuova, decisa a sollevare il sipario sulle conseguenze più intime di un conflitto.

Noi abbiamo notato un filo conduttore che unisce diverse pellicole recenti (e non solo), tutte concentrate su donne che non si limitano a fare da comparse. Donne che, con coraggio, attraversano il fronte e ne raccontano la realtà, ci lavorano, lo fotografano o ci muoiono dentro. Il bello – o forse l’agghiacciante – è che questa prospettiva riesce a colpire più a fondo. Sembra metterci di fronte a un interrogativo impellente: quanto ci siamo abituati a vedere la guerra soltanto come scontro tra eserciti e potere?

In questo articolo, vogliamo presentarvi cinque film che, ognuno a modo suo, svelano una dimensione molto più intima di cosa significhi stare nell’occhio del ciclone. Ma attenzione, non vogliamo seguire un binario rettilineo. Anzi, preferiamo cambiare marcia qua e là, soffermandoci prima su una pellicola, poi saltando a un’altra, come in un piccolo viaggio interiore. Alla fine, speriamo di trasmettervi qualcosa che resti: un sentimento di vicinanza a chi vive la guerra da un’angolazione meno celebrata e proprio per questo, più sorprendente.

Profeti: la prigionia come scontro di visioni

Uno dei film che ci ha colpiti con grande impatto è “Profeti” di Alessio Cremonini. Se qualcuno ha già visto “Sulla mia pelle” e “Border”, avrà presente lo stile asciutto di questo regista, che sembra spingerci a guardare il dolore senza sconti. Qui siamo nel bel mezzo del conflitto con l’Isis, un fronte dove la ferocia si mescola a dottrine religiose estreme e dove Sara Canova (interpretata da Jasmine Trinca) si ritrova prigioniera.

Tutto inizia con una missione giornalistica: Sara vuole raccontare da vicino ciò che sta accadendo in quei territori devastati. Ma la passione per la verità si scontra con un destino durissimo: la sua cattura. Ed ecco che entra in scena Nur, donna siriana cresciuta in Occidente e poi sposatasi con un miliziano. Il contrasto tra queste due figure femminili diventa l’anima del film: da un lato la giornalista in cerca di una cronaca imparziale, dall’altro una donna che sostiene una causa fondamentalista. Eppure, in entrambi i casi, c’è una consapevolezza drammatica di trovarsi in una trappola.

In “Profeti”, la prigionia viene descritta senza retorica. Non sono scene di eroismo trionfale, ma momenti di tensione, tormento, preghiera, rabbia. Se dovessimo trovare un punto focale, diremmo che è l’inesorabilità di una violenza che si abbatte anche su chi non la desidera. Questo film mostra una guerra spogliata delle sue maschere, attraverso due donne che rappresentano universi lontanissimi eppure accomunati da una sofferenza palpabile. È un racconto capace di farci sentire il rimbombo della paura e al tempo stesso, un piccolo, ostinato bisogno di speranza.

A Private War: la fame di verità di Marie Colvin

Torniamo un attimo indietro. Non è facile, perché questa storia ti prende allo stomato, ti tira dentro come una vertigine. Parlo di A Private War, sì, il film su Marie Colvin, quella che scriveva per il Sunday Times e che la guerra l’ha guardata negli occhi – anzi, con un occhio solo, perché l’altro l’ha perso in Sri Lanka. Marie non era una di quelle reporter che faceva cronaca seduta dietro a una scrivania sicura; lei andava lì, dove nessuno voleva mettere piede. Nei posti che ci fanno paura, che preferiamo ignorare. E Matthew Heineman (se hai visto Cartel Land, beh, capisci subito che lui scherza poco) si butta dentro questa vita senza freni, con Rosamund Pike che ti toglie il respiro. Non è un’eroina da copertina, è incasinata, è coraggiosa, disperata, persa e coraggiosa, tutto insieme, tutto nello stesso momento. E ti chiedi, alla fine: quanta forza ci vuole per andare a raccontare qualcosa che nessuno vuole vedere? Quanta follia, quanta passione? Non lo sappiamo, ma questa donna aveva tutto questo. E non puoi non sentire che qualcosa dentro di te si è mosso.

Nel film, si sente il peso della responsabilità che Marie si era caricata sulle spalle: raccontare la sofferenza dei civili. Lei non voleva semplicemente trasmettere la notizia di bombardamenti o accordi diplomatici; andava a cercare chi restava sepolto dai palazzi crollati, chi viveva nel terrore costante. A un certo punto, lo stress post-traumatico la travolge, ma la voglia di mostrare al mondo ciò che avviene lontano dagli occhi di tutti supera la paura. Ecco, in “A Private War” c’è la celebrazione di un giornalismo estremo, che paga con il sangue il bisogno di verità. E la protagonista, nel suo essere donna, non si presenta mai come un’icona stereotipata: è fragile, forte, tormentata, vittoriosa e sconfitta allo stesso tempo.

Lee Miller: dall’obiettivo di moda a quello della Seconda Guerra Mondiale

Spesso le persone riescono a reinventarsi quando il mondo attorno cambia radicalmente. E la fotografa Lee Miller ne è una prova lampante. Chi la conosce sa bene che fu musa di Man Ray, modella per Vogue e icona di un’epoca ruggente, fatta di sperimentazioni artistiche e vita bohémien. Eppure, con l’esplosione della Seconda Guerra Mondiale, Lee Miller compì un salto che nessuno si aspettava: passò dalle luci patinate della moda al fronte come corrispondente di guerra.

Nel film dedicato a lei, spesso intitolato semplicemente “Lee”, vediamo Kate Winslet vestire i panni di una donna che impugna la macchina fotografica dentro le rovine europee, documentando la liberazione dei campi di concentramento. Uno scenario agghiacciante, distante anni luce dal mondo chic di Parigi. Eppure, in quella tragedia collettiva, Miller trova un nuovo scopo: mostrare al mondo la cruda verità. Alcune sue fotografie rimangono impresse nella memoria storica come un pugno nello stomaco: ritraggono soldati, civili, vittime dell’Olocausto. Immagini che ancora oggi ci ricordano quanto sia necessario guardare in faccia gli orrori per non dimenticarli.

Ci colpisce la metamorfosi: da modella a reporter di guerra. È un simbolo potente: sottolinea come la guerra possa toccare tutti, anche chi sembrava distante dal fango delle trincee. E c’è un ulteriore aspetto da notare: la determinazione di Lee Miller non si lascia sopraffare dall’orrore. Al contrario, la sua passione fotografica diventa uno strumento per combattere la propaganda, per “stanare” le conseguenze più devastanti del conflitto. Viene da chiedersi se, in fondo, fosse proprio questa capacità di spingersi dove gli altri non osavano a renderla così straordinaria agli occhi dei posteri.

Sicario: il conflitto senza bandiera ai confini col narcotraffico

Cambiamo completamente scenario, e… niente, siamo al confine. Stati Uniti e Messico. Un posto che sembra uscito da un incubo, dove tutto è confuso, dove tutto si mescola, dove niente è chiaro. Questo posto lo racconta Denis Villeneuve in Sicario e lì dentro ci mette Kate Macer (Emily Blunt, che Dio solo sa quanto è brava). Kate non è Wonder Woman, non è fatta d’acciaio, non è nemmeno troppo sicura di quello che fa. Ha paura, è forte, si spezza, si rialza, poi cade ancora. Vive in un mondo che ti butta addosso domande complicate, di quelle che ti fanno stare sveglio la notte.

Ed è questa fragilità che la rende vera, ti sembra quasi di conoscerla davvero, questa donna che sta lì, in mezzo, stretta fra gli orrori di cartelli e le regole spietate dei suoi colleghi. Ed è impossibile non sentire quanto dolore porti addosso, quanto peso abbia sulle spalle. Perché alla fine la guerra che combatte non è soltanto quella fuori, ma anche quella che si porta dentro, quella che ci fa chiedere: fino a dove ci si può spingere per fare giustizia? Quanto costa scegliere da che parte stare? Ecco, Kate ti lascia lì, così, con un vuoto che ti stringe lo stomaco. Ed è maledettamente vero.

La cosa che davvero spiazza è la continua domanda morale: fino a che punto si può giocare sporco per sconfiggere il male? Kate è lì, in mezzo, a testimoniarlo: da un lato la legge, dall’altro la brutalità di forze paramilitari disposte a tutto. Il film non imbastisce retoriche rassicuranti, anzi: sembra volerci dire che chi mette piede in questo girone infernale rischia di perdersi. E in quel frangente, lo sguardo di Kate (femminile, ma non per questo debole) diventa un catalizzatore di domande. Lei non si arrende all’idea che “i fini giustificano i mezzi”, cerca di mantenere una coscienza, eppure si scontra con un sistema che la sovrasta.

Forse è proprio questa tensione fra idealismo e pragmatismo a rendere “Sicario” un capitolo significativo del nostro discorso. Non è la classica pellicola in cui la presenza femminile risulta una mera nota di colore: qui Kate incarna la battaglia interiore di chi vorrebbe agire correttamente, ma finisce risucchiata in una spirale di crudeltà. E in un certo senso, la sua voce è l’unica in grado di dire: “Guardate che a furia di inseguire i mostri, rischiamo di diventare mostri pure noi.”

Civil War: paure sistopiche e presagi sulla società americana

E se la prossima guerra nascesse da lacerazioni interne, dall’odio che si accumula tra fazioni opposte in uno stesso Paese? Alex Garland, regista visionario già noto per “Ex Machina” e “Annihilation”, immagina proprio questo scenario in “Civil War”, uscito nella primavera del 2024. In quest’opera, la tensione non è più soltanto ai confini di uno Stato, ma si annida nei confini dell’anima collettiva. Tensioni politiche, fratture sociali e una polarizzazione estrema disegnano un’America sull’orlo del baratro.

All’interno di questa cornice cupa, due figure femminili spiccano: Kirsten Dunst (nel ruolo di Lee Smith) e Cailee Spaeny (Jessie). Non si limitano a subire gli eventi, ma li documentano, li scandagliano con macchine fotografiche e microfoni. Quasi fossero reporter anomale, decise a mostrare al mondo che cosa succede quando la convivenza civile va in frantumi. C’è un taglio quasi documentaristico nelle scene, un modo crudo di mostrare sparatorie e barricate, come se stessimo assistendo alla dissoluzione di un Paese dall’interno.

A una prima occhiata, “Civil War” potrebbe sembrare pura fantascienza, ma in realtà gioca con paure molto reali: la frattura ideologica che separa milioni di persone, la sfiducia nelle istituzioni, la deriva di un sistema che smette di funzionare. Nel film, le protagoniste femminili si espongono non per guadagnare fama, ma per lasciare una testimonianza. “Siamo qui, vogliamo che resti una traccia”, sembrano dire con le loro inquadrature, i loro appunti, la loro cocciuta presenza dove quasi tutti preferirebbero scappare.

Il senso di uno sguardo diverso: perché importa?

Arrivati a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: ma in che modo la prospettiva femminile cambia il racconto della guerra? La risposta, forse, non è riducibile a una formula schematica. Tuttavia, quello che emerge da questi film è la voglia di illuminare ciò che spesso resta in secondo piano: la condizione dei civili, la dimensione intima della paura, la responsabilità etica di raccontare l’orrore senza trasformarlo in un semplice spettacolo.

Sicuro, non si tratta di voler lodare le donne come “esseri superiori” rispetto agli uomini. È piuttosto il desiderio di rompere la narrazione monolitica, dove la guerra è descritta quasi esclusivamente dal punto di vista di generali, soldati e strategie geopolitiche. Un film come “A Private War” ci mostra che, dietro ai troppi numeri di vittime, ci sono volti concreti, bambini, famiglie, anziani che soffrono. E quell’empatia è un primo passo per interrogarsi seriamente su come raccontare la guerra, su che tipo di linguaggio usare, su quanto siamo disposti a far risuonare quelle voci inascoltate.

Divagazioni che tornano al punto: raccontare per restare umani

Non è semplice guardare in faccia la guerra. Spesso si preferisce distogliere lo sguardo, andare avanti, chiudere la questione con qualche “tanto è sempre stato così”. Ma i film che abbiamo esplorato, oltre a offrirci storie emozionanti e coinvolgenti, ci porgono un invito: fermarci, sentire il dolore di chi vive quei momenti, leggere le sfumature di uno scontro che non è mai soltanto “buoni contro cattivi”.

Ripensando a “Profeti”, “A Private War”, “Lee”, “Sicario” e “Civil War”, quello che colpisce è la volontà dei registi di dare un volto umano a fatti che a volte (pardon, non vogliamo cadere in frasi fatte, ma è così) ci arrivano ovattati dai media. Parliamo di conflitti spesso raccontati con enfasi su statistiche, fazioni vincenti o perdenti, ma poco attenti al costo umano di quell’orrore. E vedere donne che non si tirano indietro di fronte a fucili, mine e muri di propaganda può diventare un toccasana per la consapevolezza collettiva.

Il cinema come memoria e specchio

Forse la vera domanda è: perché dovremmo immergerci in storie tanto dure? Perché la guerra rimane un mostro che ci riguarda tutti, anche quando avviene a migliaia di chilometri di distanza. E queste cinque pellicole mostrano un’angolazione spesso ignorata: quella delle donne che osano stare al fronte (o comunque sulla soglia del conflitto) per raccontare, fotografare, denunciare. Che si tratti di una giornalista coraggiosa come Marie Colvin, di un’agente dell’FBI disillusa come Kate Macer, di una fotoreporter che lascia le passerelle per documentare i campi di concentramento, il risultato è lo stesso: ci troviamo di fronte a individui che incarnano un altruismo feroce e commovente.

Il cinema, in questi casi, non è semplice intrattenimento. È memoria. È un modo per dire: “Hey, guardate che questa crudeltà esiste, e qualcuno la vive sulla propria pelle.” E se in gran parte dell’immaginario bellico siamo abituati a soldati maschi, ai medaglieri, alle strategie, qui incontriamo un esercito alternativo: donne che mettono in gioco la propria incolumità (fisica ed emotiva) pur di tornare a casa con uno scatto o un articolo capace di scuotere le coscienze.

In definitiva, non vogliamo lanciare proclami trionfalistici: l’intenzione è spingere a riflettere. Se la guerra e la violenza sono tra le peggiori manifestazioni dell’umanità, allora diventa essenziale ascoltare chi riesce a narrare il conflitto non solo come scontro armato, ma come devastazione di vite reali. E in questo, la prospettiva femminile – sfaccettata, coraggiosa, a tratti vulnerabile ma incredibilmente ferma – sta guadagnando (finalmente) l’attenzione che merita.

Prendere spunto da questi film significa, per tutti noi, interrogarsi sulla condizione di chi resiste con una fotocamera, un taccuino o persino con la testardaggine di esporre verità scomode. Non è cosa da poco. In un’epoca in cui si parla tanto di post-verità e di manipolazione dell’informazione, scoprire storie come quelle di Lee Miller o Marie Colvin o, in un futuro ipotetico, delle protagoniste di “Civil War”, ci aiuta a capire quanto il singolo individuo possa incidere nella Storia. E magari, la prossima volta che sentiamo parlare di conflitti lontani, potremmo chiederci chi stia raccontando quei fatti, e con quali occhi.

Ecco la vera potenza di questi film: costringerci a guardare l’orrore senza filtri e a percepire, nello stesso tempo, una scintilla di umanità. Se c’è un segreto dietro tanta forza, è proprio questo intreccio tra fragilità e resistenza. Un intreccio che, quando prende la forma di un racconto cinematografico, si trasforma in uno schiaffo salutare al nostro torpore. Che sia una frontiera polverosa, una prigione tra le dune, un sogno distopico che assomiglia al presente, un avamposto nel deserto o il cuore dell’Europa in fiamme, ciò che conta è rendersi conto che senza la volontà di “vedere”, rischiamo di annegare in un’ignoranza complice.

A noi pare che queste storie di donne sul fronte siano un appello alla responsabilità collettiva. Uno stimolo a ricordare che la verità, per quanto dura, va protetta. E francamente, non importa se si racconta con la penna, con una reflex o con un semplice taccuino malconcio: l’essenziale è che non cada nel silenzio. Siamo certi che, guardando questi film, si possa ritrovare un po’ di quell’umanità che spesso lasciamo indietro, fagocitati dalla frenesia del quotidiano. È un dono che dovremmo tenere stretto, perché la guerra può sembrare lontana, ma le sue ferite parlano anche di noi. E ogni tanto, serve ricordarlo.

Animato da un’indomabile passione per il giornalismo, Junior ha trasceso il semplice ruolo di giornalista per intraprendere l’avventura di fondare la sua propria testata, Sbircia la Notizia Magazine, nel 2020. Oltre ad essere l’editore, riveste anche il ruolo cruciale di direttore responsabile, incarnando una visione editoriale innovativa e guidando una squadra di talenti verso il vertice del giornalismo. La sua capacità di indirizzare il dibattito pubblico e di influenzare l’opinione è un testamento alla sua leadership e al suo acume nel campo dei media.

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