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Addio a Skype: fine di un’era nella comunicazione digitale

Era il 2003, e di colpo – così, quasi dal nulla – appare questo strano programma: Skype. Non avevamo mica capito bene cos’era, eh. Io ricordo che all’inizio lo provai e pensai: «Ma davvero posso chiamare gratis? Vedere pure la faccia di qualcuno dall’altra parte del mondo?» Sembrava una roba tipo Star Trek, una roba da film di fantascienza anni ’90, tipo quelli con i telefoni del futuro.

Dietro c’erano due ragazzi con un nome difficile (Niklas e Janus, li ho cercati apposta, mica me li ricordavo davvero), con un gruppetto di estoni che probabilmente nemmeno loro immaginavano che stavano per cambiare la vita di un sacco di gente. Ed è successo: Skype è diventato il nostro filo invisibile. E lo sai perché? Perché ci emozionava. Ci faceva sentire meno soli.

Pensa a tutte quelle persone che sono partite, andate via da casa: figli emigrati che provavano a spiegare ai genitori dove diavolo fossero finiti («Mamma, ecco la mia stanza, la vedi? Qui fa un freddo cane!»). Coppie che apparecchiavano la tavola con una webcam accesa, sperando di sentire meno i chilometri. Nonni che, alla fine, per amore di quei nipoti lontani, imparavano a usare quel “coso col mouse” che avevano sempre detestato. Era tutto questo Skype, sì. Emozioni, soprattutto emozioni.

E poi quel suono, wow. Il tuu-tuu-tuu, ma sì, proprio quello. Quella suoneria che appena la sentivi ti scattava qualcosa dentro, un misto di ansia, gioia, batticuore («chi mi sta chiamando?»). E quella nuvoletta azzurra che ormai conoscevamo meglio di tanti volti. Poi arrivò eBay e poi Microsoft, robe di soldi, robe di affari. Ma noi Skype lo chiamavamo già Skype. Anzi, lo usavamo come verbo, «Ti skypeo stasera?». Skype era entrato in noi, nelle nostre vite, senza che ce ne accorgessimo davvero. Ed è questo che conta davvero.

Le funzioni storiche che hanno fatto epoca

Durante la sua epoca d’oro, Skype non era solo chiamate e video, ma un intero ecosistema di funzionalità che oggi suonano come ricordi lontani. C’erano ad esempio i giochi integrati: piccoli passatempi da fare insieme durante le chiamate, come battaglie navali o giochi di carte, che rendevano le conversazioni ancora più divertenti. Attraverso gli Skype Extras, gli utenti potevano aggiungere moduli al programma – dai giochi agli strumenti di collaborazione – trasformando una semplice chiamata in un momento di svago condiviso.

Un’altra caratteristica leggendaria erano le chat pubbliche: stanze di conversazione aperte a chiunque, dove persone da ogni parte del mondo si incontravano per discutere di interessi comuni. Introdotte a metà anni 2000, queste chat erano un po’ come i forum, ma in tempo reale: bastava cercare un argomento e ci si poteva unire alla conversazione, senza nemmeno dover aggiungere i partecipanti come contatti. Furono poi rimosse intorno al 2009, con il rinnovamento della piattaforma, ma chi c’è passato ricorda ancora il fascino di quelle discussioni globali a portata di clic.

E come dimenticare la modalità SkypeMe!? Impostando lo stato su “SkypeMe”, ci si rendeva disponibili a essere contattati da sconosciuti in tutto il mondo, un invito virtuale a nuove amicizie senza frontiere. Era un salto nel buio emozionante: potevi trovarti a parlare con uno studente in Asia o un pensionato in Sudamerica, scambiando due parole solo per il gusto di connettersi.

Non mancavano esperimenti pionieristici, come gli Skypecasts: vere e proprie conferenze audio pubbliche, introdotte attorno al 2006, in cui fino a 100 persone potevano ascoltare e intervenire in una chiamata di gruppo globale. Moderati dagli organizzatori, gli Skypecasts spaziavano da dibattiti su temi caldi a lezioni improvvisate, anticipando in qualche modo i moderni webinar e spazi audio comunitari. Sebbene Skypecasts sia rimasto un esperimento di breve durata – venne chiuso nel 2008, lasciando dietro di sé solo nostalgia tra gli utenti più affezionati – dimostrò il potenziale di Skype come piattaforma sociale, oltre che comunicativa.

Dall’acquisizione Microsoft alla fusione con Messenger

Con l’acquisizione da parte di Microsoft nel 2011, Skype entrò in una nuova fase. Il colosso di Redmond vedeva in Skype non solo un servizio di successo, ma anche il naturale erede di Windows Live Messenger, la storica chat (ex MSN) che aveva dominato la prima metà degli anni 2000. Nel 2013 arrivò la fusione tanto attesa: Messenger chiuse i battenti e milioni di account furono migrati su Skype. Fu un passaggio storico e agrodolce. Da un lato, due grandi comunità di utenti si univano; dall’altro, significava dire addio alle “faccine” e ai trilli di MSN Messenger, integrandoli in un Skype sempre più centrale nell’ecosistema Microsoft. Per molti fu come traslocare da una vecchia casa piena di ricordi a una nuova: eccitante ma con un velo di malinconia.

In quegli anni Skype continuava a evolversi. Venne integrato in smartphone, tablet, console di gioco e perfino televisori: l’idea era di poter skypeare ovunque, in qualsiasi momento. Le videochiamate di gruppo, inizialmente riservate agli utenti Premium, divennero gratuite per tutti, rendendo Skype un punto di riferimento anche per team di lavoro e piccole imprese a distanza. Intanto comparivano nuovi concorrenti: FaceTime per chi usava prodotti Apple, Google Hangouts (poi Meet) nel mondo Google, e più avanti WhatsApp con le sue chiamate mobili. Skype restava però nel cuore di tanti utenti affezionati, che lo preferivano per le conversazioni più importanti e personali. Il nome Skype evocava affidabilità e un pizzico di nostalgia già allora – era il programma con cui avevi fatto la tua prima videochiamata, quello su cui contavi quando volevi davvero sentirti vicino a qualcuno lontano.

Declino e trasformazione: l’avvento di Teams

Poi però, verso la fine degli anni 2010 qualcosa è cambiato, anzi, qualcosa si è rotto. Skype cominciava a sembrare vecchio, lento, una roba che c’era sempre stata, come quella poltrona in casa della nonna che ti piaceva tanto, ma che poi hai iniziato a vedere come roba vecchia, fuori moda, quasi scomoda.

E le persone hanno iniziato a cercare altro, qualcosa di più veloce, immediato, leggero, fatto apposta per smartphone. Caspita, tutti avevano WhatsApp, Instagram, Messenger… Skype, invece, era rimasto lì fermo sul desktop, come un soprammobile dimenticato. Nel frattempo, Microsoft si inventa Teams, roba nuova, pensata per il lavoro, con chat, riunioni, file, tutto ordinato, preciso. Per un po’ coesistono, sì, ma dai, lo sapevamo tutti che Skype stava andando verso l’uscita, verso il tramonto. Sembrava chiaro già allora, no?

Poi arriva il 2020, il mondo si ferma. Tutti a casa, tutti bloccati dietro uno schermo. Poteva essere il momento di gloria per Skype, davvero poteva esserlo. E invece… no. Tutti usavano Zoom, roba nuova, semplice, bastava un link e c’eri. Teams esplode in azienda, anche per le riunioni a casa. E Skype? Skype rimane indietro, si perde, diventa marginale. La stessa Microsoft smette quasi di parlarne, lo lascia lì, in un angolo, come una vecchia fotografia dimenticata. E così, piano piano, Skype si avvia verso la fine. Sembrava quasi naturale. Un po’ triste, ma naturale.

5 maggio 2025: l’addio ufficiale

L’annuncio è arrivato come un colpo al cuore per i nostalgici: a febbraio 2025 Microsoft ha comunicato ufficialmente che Skype verrà definitivamente ritirato il 5 maggio 2025. Dopo 21 anni di servizio, calerà il sipario su quello che fu il pioniere delle videochiamate online. Le motivazioni fornite dall’azienda parlano di evoluzione tecnologica e scelte strategiche: le forme di comunicazione sono cambiate radicalmente rispetto al 2003 e Microsoft intende semplificare la propria offerta puntando su una piattaforma unica e più moderna. In altre parole, Skype ha fatto il suo tempo. Nella visione di Microsoft, oggi esiste già un successore all’altezza: Teams.

La notizia ha lasciato molti utenti con un nodo alla gola. Sapere che entro il 5 maggio il programma azzurro smetterà di funzionare ha il sapore di un addio personale. “Comunicazioni significativamente evolute, offerta da razionalizzare” dicono da Microsoft, ma chi ha vissuto l’era Skype non può fare a meno di ripensare a tutte le volte che quell’icona ha illuminato lo schermo nei momenti importanti. E come in tutti gli addii, c’è spazio sia per la tristezza sia per la consapevolezza che forse è una scelta inevitabile.

Da Skype a Microsoft Teams: un passaggio di consegne

Microsoft ha assicurato che il passaggio da Skype a Teams sarà il più indolore possibile per gli utenti affezionati. Chi ha un account Skype potrà accedere a Microsoft Teams (nella sua versione Free per l’uso personale) con le stesse credenziali, trovando già importati tutti i propri contatti e la cronologia delle chat. In pratica, si potrà continuare a conversare con gli amici di sempre, solo su un’app diversa. Teams, dal canto suo, offre molte delle funzionalità a cui gli utenti Skype sono abituati – chiamate individuali e di gruppo, messaggistica, condivisione di file – arricchendole con strumenti più moderni come la possibilità di organizzare riunioni pianificate, calendari integrati e comunità tematiche. Non a caso, negli ultimi due anni l’utilizzo di Teams è cresciuto di quattro volte, segno che sempre più persone (complice anche il lavoro da remoto) lo hanno adottato nelle proprie routine.

Per chi usava Skype principalmente in ambito personale, vedere il proprio servizio di fiducia “traslocare” dentro Teams può fare uno strano effetto. Teams è nato in ambito lavorativo e il suo look più professionale potrebbe sembrare meno accogliente a chi associa Skype alle chiacchierate spensierate con gli amici. Microsoft sta cercando di mitigare questo impatto mantenendo una versione gratuita di Teams adatta alle esigenze quotidiane, ma l’impressione diffusa è che si stia chiudendo un capitolo importante della comunicazione digitale per aprirne un altro, ancora da scrivere.

Tra nostalgia e accettazione: le reazioni della community online

Sul web, la notizia dell’addio a Skype ha scatenato un’ondata di ricordi e reazioni contrastanti. In tanti hanno parlato di “fine di un’era”, rendendosi conto che un pezzo di storia di Internet stava per concludersi. Sui social network sono comparsi messaggi nostalgici e tributi sentiti. Emblematico il saluto postato dall’account ufficiale di Discord – popolare piattaforma di chat tra gamer – che ha ringraziato Skype “per aver camminato così che noi potessimo correre. RIP al primo, leggendario servizio di chat per gamer”. Un omaggio sincero da parte di un “erede” ideale, che riconosce il debito verso chi ha aperto la strada.

Molti utenti hanno condiviso aneddoti personali su come Skype abbia influenzato le loro vite. “La fine di un’era. Skype fu la prima tecnologia a lasciarmi davvero a bocca aperta”, scrive un utente, ricordando la meraviglia provata a 17 anni nel videochiamare un amico in Kirghizistan. Un altro racconta: “Mia moglie ed io siamo stati lontani per 5 anni prima di sposarci. Skype era il nostro fedele compagno di relazione a distanza in quei giorni!”, testimoniando come il software abbia fatto da cupido digitale per molti amori geograficamente complicati. C’è anche chi ammette di non aver “mai pensato di potersi sentire sentimentale per la chiusura di un’app… e invece eccoci qui”. Segno che Skype, al di là della tecnologia, era entrato nel quotidiano e nel cuore della gente.

Naturalmente, non mancano voci più pragmatiche o critiche. Alcuni commenti sulle community tech sottolineano che la parabola discendente di Skype era iniziata già da tempo, specialmente dopo l’acquisizione da parte di Microsoft. “Era ora”, scrivono alcuni, sostenendo che l’evoluzione verso Teams è solo l’ultimo passo di un cambiamento inevitabile. Altri fanno notare come la tecnologia di Skype in fondo non sparirà del tutto: gran parte dell’infrastruttura di chiamata di Teams ha radici proprio nel motore di Skype, quindi in un certo senso Skype continuerà a vivere dentro il suo successore. Ma al di là delle opinioni, si respira un generale senso di rispetto verso quello che Skype ha rappresentato.

L’eredità di Skype

Mentre la data fatidica del 5 maggio 2025 si avvicina, è tempo di bilanci e ricordi. Skype lascia un’eredità enorme nel mondo delle comunicazioni digitali. Prima di Skype, l’idea di poter vedere in volto un amico lontano in tempo reale apparteneva alla fantascienza o ai costosissimi sistemi da sala conferenze aziendale. Dopo Skype, la videochiamata è diventata un gesto semplice, quasi banale, alla portata di chiunque avesse un PC o uno smartphone. Ha aperto la strada a tutti i servizi di videochat e meeting online che oggi diamo per scontati – da FaceTime a Zoom – e lo ha fatto unendo le persone, cambiando il linguaggio (basti pensare al verbo “skypeare” usato per indicare una videochiamata) e creando ricordi indelebili.

L’era d’oro di Skype ci ha insegnato che la tecnologia può avvicinare i cuori oltre le distanze geografiche. Ogni chiamata su Skype era un piccolo miracolo della modernità: c’erano risate condivise da continenti diversi, feste di compleanno celebrate attraverso uno schermo, progetti di lavoro nati in chat all’alba o a tarda notte a seconda dei fusi orari. Per questa ragione, anche se Skype si appresta a spegnersi, il suo spirito vivrà in ogni videochiamata che faremo d’ora in poi. È un po’ come un vecchio amico che ci ha accompagnato per un tratto di vita: lo salutiamo con gratitudine, sapendo che la sua impronta resta nel mondo.

E così ci siamo, alla fine è davvero finita. Non lo so, è strano dirlo: Skype che chiude, quella S si spegne per sempre… e un po’ ci fa male. Non posso negarlo, ci fa male eccome. Perché Skype non era un’app, dai, non scherziamo. Era un pezzetto di noi, delle nostre vite, quelle vere, quelle fatte di risate fino a piangere, di lacrime asciugate davanti a uno schermo, di abbracci mancati e sostituiti da pixel.

Oggi il mondo sembra più vicino, lo so, sembra tutto più facile. Ma dentro, almeno un po’, ci mancherà quella nuvoletta azzurra, quell’icona piccola che nascondeva dentro un universo intero di storie, di voci, di vita. Skype ci ha fatto compagnia, ci ha tenuto insieme quando tutto il resto era lontano, troppo lontano per toccarlo con mano. E ora che se ne va, possiamo solo dire, con un po’ di voce rotta: Ciao Skype. E grazie davvero per tutto.

«Perché alla fine è così che vanno le cose: ogni rivoluzione porta con sé il germe della nostalgia, ricordandoci che nulla dura per sempre, tranne l’emozione dei ricordi che ci ha lasciato.» (Junior Cristarella)

Animato da un’indomabile passione per il giornalismo, Junior ha trasceso il semplice ruolo di giornalista per intraprendere l’avventura di fondare la sua propria testata, Sbircia la Notizia Magazine, nel 2020. Oltre ad essere l’editore, riveste anche il ruolo cruciale di direttore responsabile, incarnando una visione editoriale innovativa e guidando una squadra di talenti verso il vertice del giornalismo. La sua capacità di indirizzare il dibattito pubblico e di influenzare l’opinione è un testamento alla sua leadership e al suo acume nel campo dei media.

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Tecnologia

HP e la questione “Dynamic Security”: la class action americana segna un punto di svolta

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Ci siamo chiesti un sacco di volte come sia possibile. Cioè, davvero una roba così assurda. Aggiorni la stampante e bum: non funziona più niente. E sì, lo sappiamo che anche voi avete pensato “ma dai, sul serio?” Perché qui non parliamo di chissà quale mega innovazione, parliamo di cartucce, stampanti, roba da ufficio, roba che abbiamo tutti in casa. E invece, ecco che parte la guerra in tribunale. Così, dal niente, un giorno qualcuno si sveglia, accende la stampante e quella ti dice “no, cartuccia non originale, ciao”. Assurdo. E così inizia il caos, quello vero.

L’origine di tutto

Se proviamo a tornare indietro con la memoria, ci ritroviamo al novembre 2020. HP spinge un aggiornamento denominato “Dynamic Security” e, all’improvviso, molte stampanti smettono di accettare cartucce e toner di terze parti privi di un chip HP. Pareva una roba da manuale: difendere i propri interessi, sì, ma magari con un approccio un po’ aggressivo. Alcuni di voi, forse, si son sentiti ingannati e hanno deciso di unirsi a una class action contro l’azienda, convinti che la sicurezza non fosse il vero scopo.

L’accusa: ingiusto obbligo di cartucce ufficiali

Alla base della denuncia, presentata a dicembre 2020, c’è un’affermazione netta: HP “obbliga” i propri clienti a utilizzare solo cartucce originali e limita la concorrenza. Come? Installando di nascosto un firmware che mette in quarantena o rende inutilizzabili i prodotti non ufficiali. L’idea di proteggere i dispositivi da possibili falle di sicurezza aveva il suo fascino, ma alcuni esperti sostengono che non ci fosse nessuna reale minaccia. Insomma, si sarebbe trattato soltanto di un blocco a vantaggio del produttore.

Il meccanismo ruota intorno al chip incluso nelle cartucce HP. In assenza di quello giusto, la stampante si rifiuta di funzionare. Proprio questa politica ha scatenato la class action. Un lungo testa a testa in tribunale, con l’obiettivo di ottenere una condanna ufficiale e un risarcimento.

Accordo finale senza ammenda

Dopo un bel po’ di udienze e discussioni, a un certo punto la tensione si scioglie con un accordo transattivo: HP non ammette alcun illecito e non sgancia un indennizzo a favore di tutti i clienti. Però, per mettere la parola fine a questo capitolo complicato, l’azienda accetta di pagare le parcelle legali (si parla di 725mila dollari) e versa 5mila dollari a ciascuna delle due società che avevano avviato tutto. Fine? Più o meno.

Una libertà parziale sugli aggiornamenti

Le persone come noi si chiedono: abbiamo guadagnato qualcosa? Forse sì. Ora certe stampanti HP potranno rifiutare l’installazione di “Dynamic Security”, evitando quell’odioso blocco automatico. Però l’elenco non è infinito. Qualche modello rimane vincolato, mentre alcuni LaserJet e Color LaserJet Pro – ad esempio M183FW, M255DW, M404DN, M428FDW e altri ancora – rientrano nella cerchia fortunata. In pratica, se il vostro dispositivo fa parte di questa lista, potrete sottrarvi all’aggiornamento indesiderato.

Eppure, non andiamo troppo in là con l’entusiasmo: HP continua a specificare che le sue stampanti sono fatte per “funzionare solo con cartucce dotate di un chip HP nuovo o riutilizzato”. Questo significa che, se qualcuno vuole davvero utilizzare consumabili rigenerati, deve recuperare il chip originale HP e montarlo dentro la cartuccia non ufficiale. In quel modo, Dynamic Security non scatterà, e la stampante non si bloccherà.

Prospettive future

All’interno delle pagine prodotto, HP oggi dichiara in modo esplicito che il suo sistema di sicurezza bloccherà sempre cartucce con chip non HP. Si apre quindi uno scenario misto: da un lato, la class action ha introdotto un barlume di trasparenza (o forse di libertà?) per chi possiede uno dei modelli autorizzati a rifiutare l’aggiornamento; dall’altro, continua la strategia aziendale di protezione dei propri ricavi.

Noi speriamo che questa vicenda, almeno, serva a rendere più chiare le regole del gioco. Se compriamo una stampante, vogliamo sapere in anticipo se potremo fare un salto al negozietto sotto casa e comprare cartucce alternative, senza ritrovarci con la scritta “errore” sul display. Voi, magari, vorrete risparmiare su toner e inchiostro. Ma questa storia insegna che, dietro un semplice aggiornamento software, si nasconde un business enorme.

Ora la palla passa a voi: controllate il vostro modello, verificate se è incluso tra quelli compatibili con la disattivazione del firmware e poi decidete che strada prendere. Non è la libertà assoluta, ma è pur sempre un risultato. E chissà che, in futuro, non si possa parlare di un diverso equilibrio fra tecnologia e concorrenza.

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Tecnologia

L’uso delle immagini su internet e i diritti di copyright

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copyright

Le immagini sono ovunque sul web. Scorrono rapide sugli schermi, affollano siti web, social network, blog e pagine di e-commerce. Catturano l’attenzione in pochi secondi, raccontano storie, vendono prodotti, emozionano. Eppure, dietro a ogni fotografia c’è molto più di ciò che appare. C’è un autore, un’idea, un diritto.  E ignorarlo, oggi più che mai, significa camminare su un campo minato. Pertanto, per evitare di incorrere in sanzioni, è bene sapere dove trovare immagini senza copywright, cioè libere dal diritto d’autore, oppure acquistarne la licenza di utilizzo.

La protezione delle immagini attraverso il diritto d’autore

In Italia, la tutela delle immagini non è una formalità, è legge. E la legge, si sa, non ama le scappatoie. Dal momento stesso in cui uno scatto prende vita, l’autore acquisisce automaticamente una serie di diritti. Non servono bolli, registrazioni o timbri notarili: l’immagine è protetta per il semplice fatto di esistere.

Il quadro normativo è ancorato alla Legge 22 aprile 1941, n. 633, che, con qualche aggiornamento al passo con i tempi, resta il pilastro della materia. Il fotografo ha il pieno controllo sull’uso della propria opera. Questo significa che decide lui se, come, quando e da chi può essere usata.

E no, non basta che una foto sia pubblicata su internet per considerarla di pubblico dominio. Anzi, è proprio lì che scatta l’equivoco più comune: la rete non è un mercato libero, ma una vetrina sorvegliata.

Tipologie di fotografie e relative tutele

Non tutte le fotografie sono uguali davanti alla legge. Alcune valgono più di altre, perché dietro a uno scatto può esserci pura documentazione, oppure un’esplosione di creatività. La legge lo sa e le distingue così.

Le fotografie semplici sono immagini tecniche, prive di un tocco artistico vero e proprio. Ritratti, documenti, immagini di cronaca che mostrano la realtà così com’è, senza guizzi creativi. Queste sono tutelate per 20 anni dalla loro creazione. Ma attenzione: devono riportare sempre il nome dell’autore e la data di realizzazione.

Le opere fotografiche, invece, sono un’altra storia. Qui entra in gioco la creatività, l’ingegno, l’estro. Parliamo di scatti che raccontano un punto di vista, che interpretano la realtà, la trasformano. E la legge lo riconosce, concedendo una protezione molto più forte: 70 anni dopo la morte dell’autore. Un tempo lungo, lunghissimo, dove nessuno può metterci le mani senza permesso.

Utilizzo corretto delle immagini online

C’è un principio che non va mai dimenticato: il fatto che un’immagine si trovi online non la rende libera. Non si può prendere, scaricare, usare a piacimento. È un po’ come entrare in una galleria d’arte: solo perché i quadri sono lì, in bella mostra, non vuol dire che si possano staccare dalle pareti.

Chi vuole usare un’immagine deve ottenere un’autorizzazione dall’autore. E l’autorizzazione può arrivare in tanti modi: con una licenza scritta, con un contratto, oppure grazie a quei sistemi semplificati che negli ultimi anni hanno preso piede, come le licenze Creative Commons.

Ma anche in questi casi non basta scaricare l’immagine e chiuderla lì. Occorre rispettare sempre le condizioni imposte: citare l’autore, non usarla per fini commerciali se non è permesso, non modificarla se la licenza lo vieta.

Le licenze Creative Commons

Le Creative Commons sono un po’ il coltellino svizzero della condivisione digitale. Un modo per dire: “Sì, puoi usare la mia foto, ma alle mie condizioni.” Si tratta di licenze modulari che l’autore sceglie di applicare, stabilendo regole precise su chi può fare cosa.

Ci sono licenze che consentono l’uso anche a scopo commerciale, purché si attribuisca l’opera. Altre che vietano ogni forma di modifica. Alcune che permettono la condivisione, ma solo alle stesse condizioni. Insomma, un mondo di combinazioni, pensate per bilanciare libertà d’uso e diritti dell’autore.

Ma occhio: anche con le Creative Commons, la disattenzione è un rischio. Se si viola anche solo una delle condizioni, si può incorrere nelle stesse conseguenze legali di chi usa un’immagine senza alcuna autorizzazione.

Conseguenze legali dell’uso improprio delle immagini

Usare un’immagine senza permesso può costare caro. Non si parla solo di richieste di rimozione o di ammonimenti. Si parla di risarcimenti, sanzioni, procedimenti civili e in alcuni casi penali.

I tribunali italiani non fanno sconti. Un uso scorretto può sfociare in richieste danni per cifre importanti. Senza contare le spese legali, che spesso fanno più male della sanzione stessa.

E c’è di più. L’autore può chiedere non solo un risarcimento per il danno economico, ma anche per il danno morale: il diritto alla paternità dell’opera e al rispetto dell’integrità artistica viene protetto con fermezza.

Per le imprese e i professionisti, poi, un errore di questo tipo può diventare un boomerang d’immagine: perdere credibilità sul rispetto della legge non è mai una buona pubblicità.

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Curiosità

Facebook e gli altri social: quanto tempo passiamo sulle piattaforme?

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Gli strumenti digitali hanno preso piede nella quotidianità di milioni di persone, offrendo occasioni per ritrovarsi, scambiare messaggi e condividere immagini in tempo reale. Basta pensare a quanto spesso si senta parlare di Facebook o di altre realtà simili, entrate a far parte delle conversazioni come se fossero strumenti che si conoscono da sempre. È un’evoluzione che ha sorpreso molti, perché ha modificato il ritmo con cui si comunica e il tipo di informazioni a cui si presta attenzione. Attualmente un numero notevole di utenti si connette regolarmente a queste reti sociali, al punto da chiedersi quante ore della giornata vengono dedicate a queste piattaforme e che peso hanno nelle vite di tutti.

La trasformazione di Facebook

Secondo un articolo di ExpressVPN, che ha lanciato un approfondimento incentrato su Facebook e sulle prospettive di questa piattaforma nel 2025, il social creato da Mark Zuckerberg conserva una posizione di rilievo. Lo studio a cui si fa riferimento ripercorre la storia di Facebook a partire dalle sue origini, per arrivare a tempi più recenti, mettendo in luce come l’interfaccia e le funzioni abbiano risposto ai continui cambiamenti del mercato.

Nei primi anni, l’entusiasmo era evidente: ci si iscriveva per cercare vecchi amici, condividere foto di vacanze o momenti di festa e scoprire gruppi tematici. Con l’arrivo di piattaforme basate su video brevi o contenuti veloci da condividere, alcuni hanno scelto di spostarsi altrove, mentre altri continuano a usare Facebook per mantenere i contatti o informarsi in modo rapido.

Diverse generazioni interpretano il social in maniera differente: giovani e adulti mostrano comportamenti e motivazioni specifiche e questo incide sulle funzioni più utilizzate all’interno della piattaforma. Alcuni preferiscono i gruppi dedicati, altri si concentrano sul marketplace o restano fedeli alle classiche condivisioni di post. La coesistenza di diversi modi di impiego fa di Facebook un luogo virtuale dalle tante sfaccettature, capace di offrire spazi sia a chi preferisce comunicazioni immediate sia a chi ama approfondire tematiche di vario genere.

La crescita costante dei social

Si sente spesso parlare di una presunta stanchezza accumulata dopo aver passato molto tempo online nei periodi di lockdown. Alcuni ritengono che le persone abbiano iniziato a ridurre l’uso dei social negli ultimi anni. Eppure, se si confrontano i dati dal 2020 al 2023, secondo quanto riporta il report di We Are Social, viene fuori un quadro decisamente diverso. Il numero di utenti globali è cresciuto con costanza, così come il tempo complessivo trascorso sui vari canali digitali.

Nel 2019, la media giornaliera si attestava intorno ai 144 minuti. L’anno seguente l’aumento non è stato notevole, ma si è comunque passati a 145 minuti. Nel 2021 c’è stato un aumento a 147, per poi raggiungere 151 nel 2022. Alcuni esperti hanno interpretato questo rialzo come effetto di una diffusione più ampia dei social nella routine delle persone, complice la pandemia che ha spinto tanti a cercare modalità virtuali per restare in contatto.

La discussione si fa interessante nel momento in cui si esaminano le singole piattaforme: TikTok, ad esempio, ha conquistato un pubblico ampio, sottraendo minuti preziosi ad altre realtà. Facebook, nello stesso periodo, ha dovuto fronteggiare rivali molto forti, ma non è sparito dai radar globali. Gli osservatori affermano che la pandemia ha accelerato la diffusione dei social, tanto che si è arrivati a superare 4,20 miliardi di utenti attivi, pari a una fetta importante della popolazione totale.

La flessione improvvisa e i nuovi trend

Tutto cambia nel 2023, quando la media giornaliera scende a 143 minuti, 8 in meno rispetto all’anno precedente. Il dato fa riflettere, soprattutto perché nello stesso arco di tempo l’uso di internet, in generale, risulta in leggero aumento. Da cosa dipende questa variazione? Secondo alcuni, il cambiamento potrebbe essere collegato anche a metodologie differenti di rilevazione.

Naturalmente, la questione resta delicata, perché investire meno sui social, partendo da un solo anno di calo, rischia di non essere una strategia ottimale. Gli esperti, infatti, indicano che sarebbe opportuno guardare alle singole realtà nei Paesi e alle preferenze dei segmenti demografici.

Nel 2024, la media quotidiana scende ancora di 2 minuti. TikTok continua a crescere, mentre Facebook mantiene comunque un bacino enorme di iscritti attivi. In un contesto di cambiamenti continui, le piattaforme introducono novità per trattenere gli utenti. Una notizia recente riguarda Instagram, che sperimenta il pulsante non mi piace con l’obiettivo di migliorare la qualità dei commenti e stimolare le interazioni.

L’utilizzo dei social media in Italia

È opportuno considerare che ogni nazione presenta delle peculiarità diverse. I dati sull’uso delle piattaforme social in Italia, per esempio, mostrano come il Paese continui ad amare la condivisione sui canali digitali. Durante il 2023, molti utenti della penisola non hanno affatto ridotto il tempo trascorso online: anzi, alcune statistiche indicano una crescita lieve, in controtendenza rispetto alla media globale.

Un fenomeno che non può essere ignorato è l’ingresso di nuovi utenti su piattaforme come Facebook. I giovanissimi che hanno sempre preferito video brevi e immagini istantanee a volte riscoprono il fascino di un social più tradizionale, magari per contattare parenti e amici lontani. Facebook è così uno strumento di collegamento tra generazioni, anche se rimane la concorrenza di servizi molto dinamici.

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Beautiful, anticipazioni dal 7 al 13 aprile 2025: passione segreta e confessioni inattese

Sapete quel piccolo brivido che ci attraversa quando sentiamo che sta per succedere qualcosa di grosso? Noi lo percepiamo ogni...

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Il Paradiso delle Signore, nuovi scenari: Odile e Matteo in bilico tra passione e dubbi

Abbiamo annusato un clima di grande fermento dietro le quinte de Il Paradiso delle Signore. Voi sentite già l’elettricità nell’aria?...

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La Promessa, nuove svolte: le rivelazioni di Curro e l’intrigante arrivo di Matilde

Siamo davvero curiosi, e forse un po’ increduli, di fronte ai risvolti che ci attendono nelle prossime puntate de La...

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Tradimento, tensioni sconcertanti: il matrimonio che nessuno si aspettava

Ci chiediamo tutti, in fondo, come si possa arrivare a un matrimonio tanto insolito. Eppure, eccoci qui: Behram Dicleli si...

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Tempesta d’amore, anticipazioni: tumulto e rivalità tra Greta e Alexandra

Noi ci ritroviamo a vivere un momento di grande tensione, un turbinio di emozioni che lascia il segno e vi...

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Grande Fratello: svolta clamorosa a un passo dal traguardo, Javier Martinez saluta la Casa

Qualcuno di noi ci ha sperato fino all’ultimo, mentre altri erano già pronti a dire addio. Eppure l’uscita di scena...

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Tempesta d’amore, matrimonio lampo: Eleni e Leander pronti a dirsi sì

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Grande Fratello: tensioni incontenibili e finalisti pronti al rush finale

Siamo sinceri: quando si parla di Grande Fratello, le sorprese non finiscono mai. Ieri, durante la semifinale andata in onda...

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Helena Prestes vola in finale al Grande Fratello: triple eliminazioni e un ultimo posto...

Ci siamo. Finalmente abbiamo vissuto una serata che ci ha fatto stare con il fiato sospeso, un colpo dietro l’altro....