Donald Trump torna Presidente: cosa significa per l’America e il mondo
Ieri, 20 gennaio 2025, è successo qualcosa che, piaccia o no, ha fatto parlare il mondo intero: Donald Trump ha giurato di nuovo come Presidente degli Stati Uniti, diventando il 47º nella storia del Paese. È un ritorno in scena dopo quattro anni fuori dai giochi, un colpo di scena che ha ribaltato pronostici e aspettative. Ha battuto Joe Biden, sì, ma anche quel terzo candidato indipendente che per un po’ sembrava potesse sparigliare le carte in qualche stato cruciale. E così eccoci qui. Curiosità, tensioni, applausi, proteste… un mix esplosivo che ha reso questa giornata indimenticabile.
Ma sai cosa? C’è stato pure un imprevisto. Quel freddo gelido che ti entra nelle ossa e non ti lascia scampo: -10 °C. Un freddo che ha costretto tutti a ripiegare all’interno, nella Rotonda del Campidoglio. Una decisione presa in extremis, roba che non si vedeva dai tempi di Reagan, nel lontano 1985. È lì, in quell’atmosfera raccolta, quasi soffocante, che Trump ha iniziato ufficialmente il suo secondo mandato. Non il solito spettacolo grandioso del National Mall, niente folla oceanica, ma qualcosa di più intimo, ecco. Strano, forse un po’ malinconico ma comunque potente. Come a dire: “Sono tornato e ora si fa sul serio.”
Proviamo a capirci, no? Trump è tornato alla Casa Bianca e, diciamolo, non è successo per magia. Per capire come abbia fatto, dobbiamo tornare indietro e dare un’occhiata a quello che è successo negli ultimi anni. Quando ha lasciato la presidenza nel 2021, il clima era a dir poco esplosivo: c’era stata quella storia del Campidoglio, il 6 gennaio, un caos totale, con i suoi sostenitori coinvolti e accuse che lo hanno seguito ovunque. Insomma, non proprio il modo migliore per salutare la scena politica. Eppure, eccolo di nuovo qua.
Con Biden le cose non sono andate lisce, per niente. Pandemia? Ancora lì, con varianti meno letali ma che continuavano a fare danni. Economia? Un disastro, con una mini-recessione nel 2023 che ha colpito duro. Prezzi alle stelle, benzina, cibo, energia… la gente era esasperata, specialmente chi viveva già con l’acqua alla gola. E sai com’è, quando la vita si fa dura, la gente vuole risposte, soluzioni e Biden, secondo molti, non le ha date.
Trump, astuto com’è, ha preso al volo l’occasione. Ha parlato di “rimettere tutto a posto”, di fare di nuovo grande l’America, di proteggere i confini e ridurre le tasse. Ha girato in lungo e in largo stati chiave come Michigan e Pennsylvania, promettendo muri, sicurezza e lavoro. E poi c’era quella parte di elettori repubblicani che non hanno mai digerito la sconfitta del 2020, convinti che fosse stata una fregatura. Trump ha giocato su questo, lo ha usato per tenere viva la sua base.
Alla fine, nel 2024, Biden ha perso. Non solo per l’insoddisfazione generale, ma anche perché quel terzo candidato, moderato ma piuttosto inutile, ha tolto voti proprio a lui. E così, con margini risicati negli stati più in bilico, Trump si è ripreso la Casa Bianca. Un ritorno che, nel bene o nel male, ha lasciato tutti a bocca aperta.
Gli ospiti internazionali e i grandi assenti
Dentro la Rotonda si respirava un’atmosfera carica di tensioni e curiosità. Tra le personalità di spicco, tutti gli occhi erano puntati su Javier Milei, il presidente argentino. Sì, proprio lui, quello che in passato ha più volte elogiato Trump senza mezzi termini. Le telecamere lo pizzicavano ovunque: chiacchierava con i membri del Congresso repubblicano, gesticolava, sembrava a suo agio. Sembrava, in poche parole, che ci fosse una certa sintonia tra due leader visti come “outsider” nei loro rispettivi mondi.
E poi, un altro nome che ha fatto scalpore: Giorgia Meloni. Premier italiana, unica rappresentante ufficiale dell’UE all’evento. I giornali internazionali – dal New York Times a Le Monde – ne hanno parlato tanto. La vedono vicina a Trump, ideologicamente parlando. Ma dall’Italia? Fonti del Ministero degli Esteri smorzano subito i toni: “Un atto di rispetto istituzionale, niente di più.” Certo, facile a dirlo.
E chi mancava? Gli Obama. Né Michelle né Barack. Nessuna sorpresa, davvero. Michelle, in una nota riportata da Politico, ha detto chiaro e tondo che “non avrebbe senso partecipare a un evento che rappresenta valori e visioni così lontani dai nostri”. E poi c’è stato Viktor Orbán, il premier ungherese, uno che con Trump si è sempre trovato in sintonia. Stavolta però, niente da fare: da Budapest dicono che aveva “altri impegni.” Impegni, eh? Suona quasi ironico.
Il discorso di insediamento
E il discorso? Ah, il discorso… Trump, dopo aver giurato sulla Bibbia come quattro anni fa, è salito sul palco e ha iniziato a parlare. Era atteso, tutti lo sapevano. Fox News, CNN, MSNBC… tutte le emittenti collegate, milioni di persone a guardare, chi con entusiasmo, chi con rabbia, chi solo per curiosità. Un discorso di venti minuti che per alcuni saranno sembrati un’eternità, per altri un soffio.
E cosa ha detto? Beh, ha promesso una “nuova età dell’oro” per l’America. Parole grosse, no? Ha parlato di proteggere il paese da ogni minaccia, interna o esterna. Ma non erano solo parole, erano come un grido di battaglia, qualcosa che o ti infuoca o ti fa alzare il sopracciglio. Per lui, tutto gira intorno a un’idea: rimettere l’America al centro, sempre al centro. Un po’ esagerato? Forse. Ma è Trump e lui sa come far parlare di sé.
Trump ha rimarcato che la sua priorità sarà “proteggere i confini” e “riportare l’ordine nelle città afflitte da criminalità e immigrazione fuori controllo.” Ha poi lanciato un monito ai Paesi alleati, soprattutto in ambito NATO, affermando che “l’America non intende più sostenere da sola il peso della difesa dell’Occidente.” Ha infine aggiunto: “Chi pretende l’aiuto degli Stati Uniti, deve essere pronto a condividere costi e responsabilità.” Un passo ulteriormente polemico ha riguardato le questioni climatiche, con l’annuncio che gli Stati Uniti usciranno definitivamente dal rinnovato Accordo di Parigi e che sarà cancellata ogni forma di adesione a progetti green ritenuti dannosi per la competitività industriale americana.
Nel passaggio finale, Trump ha ripetuto lo slogan che ha caratterizzato la sua nuova campagna elettorale, “America First, Always!” e ha concluso con un riferimento al suo passato: “Nel 2016 vi ho promesso di rendere di nuovo grande l’America. Abbiamo trovato ostacoli, tradimenti e bugie. Ma adesso, da qui, rifacciamo tutto e lo rifacciamo più in grande, meglio di prima”. Un discorso che per molti versi ricalca il registro nazional-populista di cui è stato maestro durante la sua prima avventura presidenziale.
Le prime misure: ordini esecutivi, politica estera e grazia ai coinvolti nell’assalto del Campidoglio
La sera del 20 gennaio, quando tutto sembrava essersi finalmente calmato dopo una giornata intensa, Trump ha fatto subito il botto. Senza perdere tempo, ha firmato una serie di ordini esecutivi che hanno lasciato tutti – chi esterrefatto, chi furioso, chi entusiasta – con qualcosa da dire. Il primo? L’uscita lampo degli Stati Uniti dall’OMS. Sì, hai capito bene. Boom! Una mossa che ha mandato la comunità scientifica su tutte le furie: “E adesso, chi coordina le prossime pandemie?” si chiedono in molti. Ma lui, niente, avanti come un treno.
E non è finita qui. Poco dopo, ha detto addio al Green Deal. Quell’accordo ecologista dei Democratici? Stracciato, via. Perché, secondo lui, le energie rinnovabili sono solo un freno all’America produttiva. E qui già c’era chi urlava al tradimento. Poi, ciliegina sulla torta, ha tagliato le tasse federali alle imprese. “Dobbiamo rimettere in moto il nostro motore interno,” ha detto. E, come se non bastasse, ha riaperto i rubinetti per completare quel famigerato muro col Messico. Il muro, sì, proprio quello. Nuovi fondi, più controlli e via di restrizioni sull’immigrazione. Da una parte applausi scroscianti tra i Repubblicani, dall’altra grida di “politiche divisive!” dai Democratici.
Ma la vera bomba? Quella che ha fatto alzare tutti dalle sedie, è stata la grazia. Ha concesso una sorta di amnistia a chi è stato condannato o attende giudizio per le violenze del 6 gennaio 2021. Sì, proprio quella giornata buia al Campidoglio. Ha detto che vuole “ricucire le ferite, lasciarci il passato alle spalle.” Ma la reazione è stata feroce. “Sta riscrivendo la storia!” hanno urlato in tanti, stampa liberal in testa. E chi lo ferma ora?
Il caso Elon Musk alla Capital One Arena
Una parentesi controversa ha riguardato Elon Musk, presente a Washington in occasione delle celebrazioni ma non invitato ufficialmente alla cerimonia. Il visionario imprenditore, CEO di Tesla, SpaceX e proprietario di alcune piattaforme social, era stato ospite di un evento parallelo organizzato alla Capital One Arena per discutere di nuove tecnologie legate alla difesa. Durante il suo intervento sul palco, Musk avrebbe alzato un braccio in un gesto equivocabile, che alcune testate, tra cui Sky TG24, hanno associato a un saluto di impronta neofascista. Nel giro di poche ore, sui social è esplosa una polemica internazionale. Musk ha respinto ogni accusa, descrivendo quel gesto come un semplice “cenno di saluto mal interpretato”, ma sul web c’è chi chiede che il miliardario venga messo sotto osservazione per l’influenza che esercita su milioni di utenti.
Secondo The Guardian, l’episodio testimonia la delicatezza del contesto politico statunitense attuale: un ambiente in cui i simboli e i gesti hanno un impatto mediatico enorme e possono infiammare il dibattito in pochissimo tempo. L’entourage di Trump ha commentato sbrigativamente la questione, dichiarando che Musk “non rappresenta in alcun modo il pensiero del Presidente e che eventuali malintesi sono solo frutto di superficialità nel giudicare una situazione privata.”
Le proteste dentro e fuori Washington
Fuori dalla Rotonda, mentre i “pezzi grossi” si scambiavano sorrisi e strette di mano, la tensione si tagliava con il coltello. Giorni prima dell’Inauguration Day, già si sentiva l’aria pesante: cortei annunciati, cartelli pronti, gente stufa di sentire sempre le stesse promesse. E così è stato.
Un freddo cane, ma questo non ha fermato le duemila anime che si sono radunate al National Mall. “Not My President,” “Stop Dividing America” – slogan gridati, mani alzate, occhi che bruciavano più del gelo. E poi? Poi ci sono stati sguardi storti, urla da una parte e dall’altra. Sostenitori di Trump e manifestanti a pochi metri, come benzina e fiammiferi. Ma per fortuna la polizia, la Guardia Nazionale e pure agenti in borghese hanno fatto il loro, evitando che le cose degenerassero davvero.
E non era solo Washington. No, no. New York, Los Angeles, Chicago, Seattle… ovunque il malcontento si sentiva forte. In California, per esempio, femministe, ambientalisti e tante altre associazioni si sono messe in marcia, protestando contro politiche che sembrano voler fare un salto indietro nel tempo. E la stampa? Quella progressista è andata giù pesante. Editoriali duri, come quelli di The Nation e Mother Jones, hanno parlato di un’America sull’orlo di nuove fratture, pronte a diventare ancora più profonde. Insomma, mentre dentro si celebrava, fuori si lottava. Due mondi che si sfiorano ma che sembrano sempre più lontani.
La reazione della comunità internazionale
Sul fronte internazionale, le reazioni all’insediamento di Trump sono apparse discordanti. Da un lato, i leader di Cina e Russia hanno manifestato un cauto ottimismo per possibili distensioni: Pechino, in particolare, auspica di riaprire alcuni tavoli commerciali saltati con Biden, pur restando in allerta rispetto alla posizione di Trump sulla questione di Taiwan e sulla guerra tecnologica. Dall’altro lato, i partner storici degli Stati Uniti in Europa, eccezion fatta per l’Italia rappresentata da Giorgia Meloni, hanno adottato un profilo basso, inviando le classiche note di congratulazioni ma evitando discorsi ufficiali o delegazioni di alto livello a Washington.
L’Unione Europea, dalla quale non era presente alcun leader di spicco, rimane guardinga di fronte ai proclami protezionisti di Trump. Dalla Commissione Europea sono trapelate fonti che parlano di “grande preoccupazione” per i potenziali sviluppi sulle politiche commerciali e sulle sanzioni verso aziende europee ritenute troppo invadenti del mercato statunitense. In Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è detta aperta a collaborare con la nuova amministrazione, mentre l’Iran ha condannato duramente l’atteggiamento di Trump sulla questione nucleare, rigettando la possibilità di sedersi a nuovi negoziati in queste condizioni.
Nel frattempo, sul piano diplomatico, è probabile che i primi viaggi internazionali della presidenza Trump siano in destinazioni considerate più amichevoli. Secondo alcuni analisti citati da Axios, i paesi del Golfo Persico e Israele potrebbero essere le prime tappe, ricalcando la logica del suo precedente mandato.
Prospettive economiche e di politica interna
Diciamolo chiaro e tondo: la prima vera sfida del nuovo Trump sarà l’economia. La recessione del 2023? Sì, finita, ma l’inflazione è ancora lì che morde… e la crescita? Lenta. Lui ha subito tirato fuori la carta del taglio delle tasse alle imprese. “Stimolare le aziende locali, riportare i soldi dall’estero.” Facile a dirsi, eh? Ma Paul Krugman e altri economisti dicono: “Occhio!” Perché? Perché il debito pubblico potrebbe esplodere e i ricchi potrebbero diventare ancora più ricchi. E i poveri? Peggio.
E poi, c’è la società. Spaccata come non mai. Obamacare, diritti civili, aborto… roba che potrebbe scoppiare da un momento all’altro, soprattutto se la Corte Suprema, che è tutta conservatrice, dovesse mettere mano a certi casi. Trump, nel suo discorso? Zitto su queste cose. Ma gli analisti sono pronti a scommettere che saranno la prossima polveriera. Immagina: California e New York, con governatori democratici, pronti allo scontro con Washington. Uno spettacolo.
E sai cosa c’è ancora? Il pallino di Trump. La riforma del sistema elettorale. Durante i comizi del 2024, ha urlato ai quattro venti: “Il sistema è truccato! Brogli ovunque!” Prove? Zero. Ma ci scommetti che proverà a convincere il Congresso repubblicano a mettere mano a tutto? Limitare il voto anticipato, il voto per posta… insomma, più che una riforma sembra un’ossessione. Vedremo se riuscirà a farla passare.
Il ruolo del Congresso e la sfida dei media
Con un Senato e una Camera dei Rappresentanti leggermente a vantaggio dei repubblicani, Trump parte da una posizione di discreta solidità politica, almeno per i primi tempi. La leadership del Partito Repubblicano sembra al momento intenzionata a sostenere le misure presidenziali, in quanto punta a consolidare il potere nelle istituzioni chiave e a disegnare nuovi equilibri a lungo termine. Tuttavia, esiste anche un’ala più moderata del GOP, che teme possibili derive estreme e ripercussioni su quell’elettorato indipendente che ha garantito ai repubblicani la vittoria in stati un tempo considerati in bilico.
Per quanto riguarda i media, lo scontro con Trump è già accesissimo. L’ex presidente ha più volte definito i grandi network di informazione “fake news,” con particolare acrimonia nei confronti di CNN e MSNBC. È noto che il tycoon ami comunicare direttamente con i suoi elettori attraverso piattaforme social, alcune delle quali, durante la sua assenza dalla Casa Bianca, gli avevano perfino limitato l’uso. Adesso, con un potere istituzionale rinnovato, potrebbe tentare pressioni per limitare la libertà di azione di tali piattaforme, accusate da lui di parzialità e di censura nei confronti di opinioni conservatrici.
Nelle prime conferenze stampa dei portavoce della nuova amministrazione, si è percepito un deciso cambio di tono rispetto all’era Biden. I rapporti con i giornalisti sono apparsi subito tesi, specie quando si è toccato il tema dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e della conseguente grazia concessa da Trump. Potremmo assistere a un conflitto istituzionale e mediatico che, se non gestito, rischia di compromettere ulteriormente la fiducia nell’informazione e nelle istituzioni.
Il futuro dell’America sotto il secondo mandato Trump
La giornata del 20 gennaio 2025, con la sua cerimonia a porte semi-chiuse e i tanti provvedimenti annunciati, apre a scenari che potrebbero ridefinire gli assetti geopolitici e interni degli Stati Uniti. Se da un lato molti americani sostengono con entusiasmo questa nuova fase, sperando che la politica economica di Trump rilanci la produzione nazionale e riduca disoccupazione e criminalità, dall’altro lato numerosi cittadini e oppositori temono un ritorno a politiche divisive, isolazioniste e potenzialmente lesive dei diritti civili.
Immagina la scena: piazze che si riempiono, gente che non riesce più a stare zitta. Le proteste partono piano, ma potrebbero trasformarsi in un fiume in piena, soprattutto se le politiche di Trump dovessero colpire duro le fasce più fragili o le comunità etniche. E sì, il Congresso è repubblicano, quindi potrebbe far passare un sacco di leggi. Ma attenzione: governatori democratici, attivisti e cittadini arrabbiati potrebbero trasformare questa legislatura in un campo di battaglia politico come non si è mai visto.
E fuori dagli USA? Altro che calma piatta. Trump, con il suo stile diretto, potrebbe ribaltare tutto: accordi commerciali saltati, alleanze globali traballanti, e un bel “me ne frego” sugli impegni climatici e sull’OMS. L’America prima di tutto, dicono. Ma a che prezzo? La stabilità di regioni già fragili potrebbe andare a farsi benedire e la politica estera americana diventare una partita giocata da solista, senza più preoccuparsi di essere il “leader del mondo libero”.
Ora che la cerimonia è conclusa e Donald Trump si è ufficialmente insediato, le prossime settimane saranno cruciali per comprendere se i toni utilizzati in campagna elettorale si tradurranno immediatamente in azioni concrete o se, come spesso accaduto nella storia americana, si assisterà a un leggero ammorbidimento dovuto ai meccanismi istituzionali di checks and balances.
Un giorno che cambia tutto
Il 20 gennaio 2025, dunque, sarà ricordato come una giornata che ha detto tutto e il contrario di tutto. Un freddo che gelava il respiro, una cerimonia spostata in extremis, un discorso che ha tirato fuori vecchie promesse con una voce che molti avevano quasi dimenticato. E poi quegli ordini esecutivi: una scure calata su anni di politiche opposte, una rottura netta che non lascia spazio a compromessi.
Alla Casa Bianca? Si respira aria di déjà vu. Facce conosciute, uomini d’affari che ritornano in scena, vecchi fedelissimi pronti a ricominciare da dove si erano fermati. Fuori, però, il clima è tutt’altro che disteso: c’è chi esulta, vedendo in Trump un salvatore, un baluardo di libertà e chi teme il peggio – passi indietro su diritti, ambiente, conquiste sociali. E il mondo? Il mondo guarda, incerto, sospettoso, chiedendosi quale ruolo vogliano giocare ora gli Stati Uniti.
Le prossime settimane saranno una prova del fuoco. Ogni scelta, ogni mossa, ogni silenzio saranno analizzati al microscopio. Grandezza promessa o disgregazione temuta: tutto è in gioco, tutto è incerto. Ma una cosa è sicura: con Trump non ci sono mezze misure. O lo ami, o lo detesti. E questa è, nel bene o nel male, la forza di una democrazia viva, caotica, appassionata.
Noi continueremo a raccontarvi tutto. Gli sviluppi, le sfide, i passi avanti o i passi falsi. Perché in momenti così, il nostro compito non è guardare altrove, ma osservare, capire, raccontare. La storia si sta scrivendo ora e spetta a noi leggerla con attenzione, col cuore e con la mente.

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Attualità
Blake Lively e Justin Baldoni, scontro giudiziario a Hollywood: l’attrice ottiene un...

Una vicenda che intreccia accuse gravi, contrattacchi e il timore che dettagli intimi finiscano in pasto alla stampa. Sembra un romanzo drammatico, invece è un fatto reale: Blake Lively, in lotta legale contro il regista e attore Justin Baldoni, ha ottenuto un parziale successo per tenere al sicuro alcune informazioni delicate. Non un trionfo definitivo, ma un primo passo per impedire che conversazioni private e dati strettamente personali possano raggiungere un pubblico affamato di scandali.
È una disputa che si sta consumando nei corridoi di un tribunale federale, dove Lively ha denunciato Baldoni con pesanti accuse di molestie sessuali e ritorsione. Come se non bastasse, Baldoni ha scelto di contrattaccare, portando in causa lei e Ryan Reynolds per diffamazione. Un intreccio complicatissimo di accuse incrociate, punteggiato da strategie legali sofisticate e decisioni giudiziarie che potrebbero fare giurisprudenza. Il giudice Lewis Liman, pochi giorni fa, ha parzialmente accolto la richiesta di Lively di mantenere “solo per gli avvocati” alcuni materiali di divulgazione. Parliamo di messaggi, piani e appunti creativi che Baldoni vorrebbe introdurre come prove per sostenere le proprie ragioni.
Perché mai limitare l’accesso soltanto ai legali?
La motivazione, in fondo, è semplice: proteggere segreti commerciali, piani di marketing, questioni di salute e persino i sistemi di sicurezza dell’attrice, che sarebbero esposti a un rischio enorme se condivisi liberamente. Senza dimenticare l’aspetto ancora più delicato: la salvaguardia di terzi estranei alle diatribe giudiziarie, i cui dati riservati potrebbero emergere involontariamente e generare danni irreparabili.
L’incubo della fuga di notizie aleggia come un’ombra su tutta la vicenda. Il giudice Liman ha sottolineato che quando in gioco ci sono star, addetti stampa e un case ufficiale di accuse pesanti, il pericolo di rivelazioni non autorizzate si alza vertiginosamente. Ciò che in teoria resta “riservato” rischia di finire nel circolo dei pettegolezzi – soprattutto all’interno della comunità artistica, dove una semplice allusione può devastare carriere e reputazioni.
Gli avvocati di Baldoni, dal canto loro, ammettono la necessità di proteggere materiale sensibile ma contestano l’idea di una condivisione esclusiva fra legali. Ritengono che un simile muro possa rallentare il processo, generando inevitabili attriti e continui ricorsi al giudice su ciò che dev’essere tenuto segreto e ciò che può essere trasmesso ai rispettivi clienti. Il tribunale, però, ha scelto un equilibrio: ha accolto alcuni punti avanzati dalla difesa di Lively ma non tutti. Ha fissato paletti precisi: niente divulgazioni che possano causare danni “significativi”, con un margine piuttosto ridotto di interpretazione.
Per ora la bilancia pende leggermente dalla parte dell’attrice, anche se il conflitto legale resta aperto e denso di sfumature da chiarire. Noi continuiamo a seguire l’evoluzione di questo caso sui generis, convinti che la verità, qualsiasi essa sia, emergerà tra i faldoni legali e la fermezza di chi vigila sul rispetto della riservatezza. Non è una storia con un vincitore annunciato, ma un racconto che si aggiorna di ora in ora, in un palcoscenico giudiziario dove la tensione è tutt’altro che scesa. E alla fine, la domanda chiave resta: fino a che punto si spingerà questo duello, e cosa accadrà se i segreti di Hollywood dovessero varcare i confini di quell’aula di tribunale?
Attualità
Ian McKellen e la bellezza di dire: «Basta paura, siate voi stessi, e fatelo forte»

Parliamoci chiaro. Non è mica roba da poco, eh. Non è roba che capita tutti i giorni che uno come Ian McKellen – uno che ha fatto Gandalf, che è stato Magneto, che ci ha fatti sognare davanti allo schermo con quel suo sguardo che buca tutto – decida di mettersi lì, a cuore aperto, e dire ai ragazzi: oh, smettetela di nascondervi, basta con le bugie, basta con la paura di mostrare chi siete davvero.
Perché sì, lui che il palco lo conosce bene, lui che il cinema lo vive da una vita, sa che questa roba qua – dire al mondo “io sono così”, senza scuse, senza vergogna – è una cosa potente. Che ti scuote dentro. Una roba che cambia tutto. E allora Ian, che di certo non aveva bisogno di farlo (poteva starsene tranquillo, vivere sereno, senza farsi problemi), ha deciso invece di metterci la faccia e dire ai giovani attori gay che devono uscire fuori, devono respirare profondamente e gridare con forza quello che sono. Senza timori.
Non è facile, certo che non lo è. Ma è proprio questa la bellezza, no? Che lui ha avuto il coraggio di farlo per primo, anni fa e ora vuole che gli altri non sprechino tempo a vivere una vita a metà. Che bello sarebbe, se tutti avessero quel coraggio. Se smettessimo tutti quanti di nasconderci dietro maschere inutili. Ecco perché lui parla, con tutta la sua anima, con tutta la sua sincerità. Perché vuole scuotere qualcosa dentro di noi. E chissà che non ci riesca davvero.
La domanda che ci poniamo è: perché una figura così popolare dovrebbe occuparsi di un tema tanto intimo? Noi crediamo che la forza di McKellen non stia solo nel suo talento, ma nella volontà di usare il suo status per spronare chi vive momenti di incertezza. I consigli “conservativi” di certi agenti, secondo lui, non fanno altro che frenare la libertà individuale, creando una cappa di timori infondati.
Un’icona del cinema che parla di equità
Era il 1988, figurati, mica ieri. Ian aveva 48 anni. Non venti, non trenta, quarantotto. Un’età in cui, cavolo, ci pensi cento volte prima di cambiare tutto e dire: «eccomi qua, questa è la verità, che vi piaccia o no». E l’ha fatto proprio alla radio, capisci? Così, senza nascondersi, davanti a tutti quelli che ascoltavano il programma Third Ear della BBC. E non erano tempi semplici, eh. In Inghilterra giravano certe leggi, roba assurda, roba che ti faceva venir voglia di sparire invece che mostrarti per quel che eri. Ma lui niente, testa alta e cuore aperto. E oggi, pensa, dopo tutto questo tempo, quella sua scelta è ancora viva, forte, importante. Ancora ci fa emozionare.
Poi, sai, Ian parla di cose vere. Cose dure, scomode. Tipo il matrimonio gay che qualcuno, dall’altra parte dell’oceano, vorrebbe addirittura vietare. Lui dice: guardate che non siamo mica arrivati. Che non basta guardarsi intorno e dire «va tutto bene». No, ci vuole attenzione, ci vuole cura. Bisogna sempre tenere gli occhi aperti, perché altrove—fuori dal Regno Unito—certe battaglie sono ancora da vincere, certe porte restano chiuse, certi muri restano alzati. Lui però non vuole spaventare, non vuole deprimere nessuno. Anzi, vuole che arrivi il giorno in cui non importerà più chi ami, quando i pregiudizi saranno solo ricordi lontani. Che bello sarebbe quel giorno, vero?
La mancanza di rappresentanti dichiarati
Ci colpisce la riflessione di McKellen su vari ambiti della società: da un lato, ricorda come non si sia ancora visto un primo ministro apertamente gay nel Regno Unito, e dall’altro fa notare che neppure agli Oscar per il miglior attore è mai emerso un vincitore omosessuale dichiarato. E poi c’è il mondo del calcio: quanti giocatori di Premier League scelgono di nascondersi, un po’ per pressioni esterne e un po’ per paura di perdere contratti?
Secondo McKellen, il primo atleta di punta a fare coming out potrebbe diventare una celebrità di dimensioni globali, con sponsor pronti a sostenerlo. Questo, a suo dire, dimostrerebbe che il coraggio di mostrarsi per come si è non provoca rovine, bensì opportunità.
Una spinta che va oltre lo spettacolo
In tutto questo, il messaggio chiave è chiaro: “Non ho mai incontrato nessuno che si sia pentito di aver fatto coming out”. È una frase che tocca un nervo scoperto, perché il timore del giudizio – soprattutto se si è sotto i riflettori – può essere tremendo. Lui stesso ammette di avere rimpianti per non aver dichiarato prima la propria identità, anche perché, come sottolinea, “nascondersi è sciocco”.
Noi siamo convinti che le parole di McKellen non parlino solo agli attori, ma a voi che forse leggete e vi interrogate su come gestire la vostra storia personale. Gli agenti, la famiglia, i pregiudizi? Tutto questo pesa, ma un gesto di verità può aprire orizzonti inattesi. L’obiettivo non è solo la soddisfazione personale: è anche un segnale di cambiamento per un mondo che, ancora oggi, fatica ad accettare la ricchezza delle differenze. E se un attore simbolo del teatro britannico può darvi la spinta a essere voi stessi, forse è il momento di lasciare al buio ogni esitazione.
Attualità
Papa Francesco, nuova espressione di gratitudine nel testo destinato all’Angelus

Nel bollettino diffuso ieri, si segnala un leggero progresso e una buona reazione alle terapie.
“Notte serena per Papa Francesco”, che anche in questa domenica 9 marzo porta avanti le cure contro la polmonite bilaterale insieme alla fisioterapia motoria e respiratoria. Lo comunica la Sala stampa vaticana in un aggiornamento sulle condizioni di salute del Pontefice, ricoverato al Gemelli dal 14 febbraio scorso. Il Papa prosegue con la ventilazione alternata: di giorno viene sottoposto a ossigenazione ad alti flussi, mentre la notte riceve una ventilazione meccanica non invasiva attraverso una maschera che copre naso e bocca, favorendo un riposo più tranquillo.
Questa mattina il segretario di Stato, card. Pietro Parolin, e il sostituto, mons. Edgar Pena Parra, hanno nuovamente fatto visita al Pontefice, per aggiornarlo sulla situazione in Vaticano e sull’attività della Chiesa a livello mondiale. È la terza volta che Parolin e Pena Parra raggiungono il Papa al Gemelli.
Riguardo alle voci secondo cui a Santa Marta sarebbero in corso lavori di adattamento nella residenza del Pontefice per una possibile convalescenza post-dimissioni, fonti vaticane dichiarano che “allo stato attuale non ci sono modifiche in atto”.
La Sala stampa del Vaticano ribadisce che questa sera è assai improbabile un nuovo bollettino medico sullo stato di salute del Papa, ma intorno alle 18 verranno fornite informazioni aggiornate sulla giornata. Viene inoltre confermato che l’umore del Pontefice resta positivo. Un nuovo incontro con i medici che seguono il Papa al Gemelli “non è imminente”, ma “non è nemmeno da escludere”, poiché ci sono dei segnali di miglioramento clinico ma i sanitari preferiscono attendere ulteriori riscontri prima di fornire ulteriori dettagli.
Il testo scritto per l’Angelus
“Vorrei ringraziare tutti coloro che mi stanno manifestando la loro vicinanza nella preghiera: grazie di cuore a tutti! Anch’io prego per voi”, è il nuovo ringraziamento di Papa Francesco inserito nel testo per l’Angelus per la quarta domenica di seguito in forma scritta. Tre giorni fa, con grande sorpresa, Bergoglio ha voluto ringraziare chi prega per lui tramite un breve messaggio audio in piazza San Pietro prima della recita del rosario: un contributo di poco meno di venti secondi, in cui si è colto lo sforzo del Papa e la sua voce debole e affaticata.
“Nel mio prolungato ricovero qui in Ospedale – continua Bergoglio – anch’io sperimento la sollecitudine del servizio e la dolcezza delle cure, specialmente da parte dei medici e degli operatori sanitari, che ringrazio di cuore”. “E mentre mi trovo qui, penso a quante persone si prendono cura degli ammalati, divenendo per loro un segno della presenza del Signore. Abbiamo bisogno di questo, del ‘miracolo della tenerezza’, che sostiene chi si trova nella prova, portando un po’ di luce nella notte del dolore”.
Il Pontefice rinnova il suo appello per la pace: “Insieme continuiamo a pregare per ottenere il dono della pace, in particolare per la martoriata Ucraina, per la Palestina, per Israele, per il Libano, per il Myanmar, per il Sudan e per la Repubblica Democratica del Congo”. “In particolare,” scrive, “ho appreso con preoccupazione della ripresa di violenze in alcune zone della Siria: auspico che si concludano definitivamente, rispettando tutte le componenti etniche e religiose della società, in special modo i civili”. “Vi affido tutti alla materna intercessione della Vergine Maria. Buona domenica e arrivederci”, conclude.
Ultimo bollettino
Le condizioni cliniche del Pontefice, come indicato dall’ultimo bollettino medico di ieri sera, sono rimaste stabili negli ultimi giorni e confermano una buona risposta alle terapie. È stato osservato dunque un miglioramento progressivo, seppure lieve. Il Papa non ha mai presentato febbre, e si segnalano miglioramenti negli scambi gassosi; gli esami ematochimici ed emocrocitometrici risultano stabili. I medici, per consolidare nei prossimi giorni i risultati positivi registrati finora, mantengono una prognosi prudenziale. Fonti vaticane sottolineano che il pericolo di nuove criticità non è ancora del tutto scongiurato.