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Qualità della Vita 2024, il trionfo di Bergamo e il tracollo delle grandi città

Bergamo

A cinque anni dalle drammatiche immagini delle colonne militari che trasportavano i feretri delle vittime di Covid-19 da Bergamo, la città lombarda ha fatto registrare una crescita sorprendente nelle classifiche sulla qualità della vita.

Quest’anno, per la prima volta, Bergamo è stata incoronata come la provincia con la miglior qualità di vita in Italia da Il Sole 24 Ore, scalzando concorrenti storiche come Trento e Bolzano, che rimangono comunque sul podio rispettivamente in seconda e terza posizione.

Un simbolo di resilienza e rinnovamento per una provincia che, nel 2020, occupava la 52ª posizione nello stesso indice.

Bergamo si è distinta per un modello che punta sulla vivibilità e sul benessere della sua popolazione registrando progressi significativi nelle categorie demografia, salute, e società, oltre a un recente primato per indice di sportività. Un altro dato significativo è il ruolo di Bergamo nel promuovere stili di vita sostenibili. Non solo ha ottenuto l’indice di sportività, ma ha migliorato la gestione dei servizi essenziali, diventando una provincia di riferimento per il resto del paese.

Ma qual è la situazione nelle altre province?

La top 10 e i divari territoriali

L’indagine sulla qualità della vita de Il Sole 24 Ore ha queste province nella top 10:

  • Bergamo;
  • Trento: sale di un gradino rispetto al 2023 grazie a eccellenze nei servizi pubblici e nel tasso di occupazione;
  • Bolzano: sale dalla 13ª posizione del 2023, trainata da parametri socioeconomici e ambientali di primo livello;
  • Monza e Brianza: una new entry che dimostra la forza economica lombarda anche nelle aree attorno a Milano;
  • Cremona: condivide il successo con altre province lombarde grazie alla crescita economica e ai servizi territoriali
  • Udine: medaglia d’oro nell’edizione 2023;
  • Verona: una delle new entry di questa top 10;
  • Vicenza: la conferma del Veneto protagonista, con importanti investimenti in cultura e accessibilità turistica;
  • Bologna: scende di sette posizioni rispetto alla medaglia d’argento del 2023;
  • Ascoli Piceno: vincitrice per la prima volta, della classifica di tappa dedicata a “Giustizia e sicurezza”.

Fuori dalla top ten Milano che perde quattro posizioni rispetto al 2023 e arriva dodicesima, mantenendo la leadership nella categoria “Affari e Lavoro” e il terzo posto in “Ambiente e servizi”.

Bolzano, in particolare, si è distinta per la qualità delle sue politiche demografiche e sociali e per una rete economica solidissima. Già ad aprile, la provincia finiva sul Ney York Times come esempio di territorio che sa investire sulle demografia e sui bambini. È interessante capire come l’approccio culturale, da una parte, e quello economico, dall’altra, abbiano dato vita a questo esempio di successo. Per raccontare ancora più fedelmente le caratteristiche di questo approccio, il quotidiano americano si è immerso nella vita di una famiglia bolzanina.

Come si può notare, la top ten della classifica è dominata da province del Nord-Est, come Monza e Cremona, che hanno registrato balzi in avanti nella classifica di quest’anno, trainate anche dal potenziamento delle economie locali.

Il divario Nord-Sud

Di contro, il Mezzogiorno resta relegato alle ultime posizioni. Reggio Calabria chiude la classifica, seguita da altre province come Palermo, Napoli e Messina. Tuttavia, dall’indagine emergono anche dei segnali positivi: alcune aree del Sud hanno migliorato il proprio Pil pro capite, o attratto flussi turistici significativi, segno di un potenziale di sviluppo ancora non del tutto sfruttato. La migliore area del Meridione è Bari che, pur fermandosi al 65° posto, poco sotto Roma, aumenta di quattro posizioni tornando sopra i livelli del 2022.

“Il Sud, seppure in termini relativi, sta registrando tassi di crescita del Pil più elevati – commenta Gaetano Fausto Esposito, direttore del Centro Studi Guglielmo Tagliacarne – e ha cambiato marcia. Quanto questa crescita riuscirà a smuovere gli ampi divari lo dobbiamo ancora vedere”.

L’aumento dell’attrattività sul piano economico è il frutto di un costo della vita nettamente inferiore, che si traduce in una maggiore accessibilità sul fronte dell’affitto o acquisto di immobili e in una minore inflazione. Questo scenario potrebbe creare condizioni potenzialmente favorevoli per il futuro. Secondo alcuni, il “contro esodo” è già iniziato.

Il divario città-provincia

Il divario Nord-Sud non è l’unico che caratterizza il Belpaese. E forse non è neanche il più grave perché spesso viene ammortizzato dal costo della vita, mentre c’è meno margine per le aree periferiche (province), sempre più lontane dal tenore di vita delle città.

“Le aree metropolitane – spiega ancora Esposito – rimangono il baricentro della produzione di ricchezza: il 41% del Pil nazionale si concentra in questi 14 territori e Roma e Milano, da sole, fanno circa il 20%. Quasi l’80% del valore aggiunto delle grandi città deriva dal terziario di mercato e pubblico, trainato dal turismo in crescita”.

Città in crisi?

Allo stesso tempo, le città perdono attrattività rispetto alla scorsa rilevazione, anche a causa dei salari italiani troppo bassi rispetto al caro vita. Quasi tutte le grandi città hanno perso residenti rispetto al 2023, in modo più marcato rispetto al -0,37% della media nazionale: -1% Venezia, -0,8% Palermo e Firenze, -0,7% Genova. In parallelo “le province minori – secondo Esposito – stanno accrescendo i propri livelli di vivibilità, anche grazie alla maggiore accessibilità di affitti e compravendite, con livelli di ricchezza in crescita nella popolazione. La differenza tra il reddito disponibile, invece, nelle aree metropolitane si sta assottigliando”.

La variazione Pil pro capite tra il 2023 e il 2024 premia invece aree come Palermo, Reggio Calabria e Messina. Milano resta prima per Pil in rapporto alla popolazione, ma se si analizza il trend – pari al 2% contro il 3,9% di Palermo – arriva 54ª tra le 107 province considerate.

La criminalità e il caro affitti, spinto anche dall’overtourism, affossano le città italiane: come riporta Il Sole 24 Ore, a Roma il canone d’affitto di un appartamento da 100 metri quadrati in zona semi-centrale pesa per l’81% sul reddito medio dichiarato, contro il 13% di Trapani e Chieti. Elevato anche il numero di stipendi medi necessari ad acquistare un bilocale tipo: 164,8 a Roma, contro i 33,4 di Avellino.

Un futuro più equo tra centro e periferie

Questa edizione della classifica evidenzia anche un fenomeno di riequilibrio: le province più piccole stanno crescendo in termini di vivibilità, dimostrando che politiche di accessibilità, servizi diffusi e economie sostenibili possono ridurre i divari con le grandi città. Le opportunità di crescita risiedono in un miglioramento dell’infrastruttura locale e nel potenziamento delle economie di scala a livello regionale.

Con una fotografia aggiornata della qualità della vita in Italia, la classifica del Sole 24 Ore diventa uno strumento essenziale per comprendere dove investire e migliorare, sia per le istituzioni che per i cittadini. Nell’Italia post-pandemia, la sfida resta quella di ridurre i divari territoriali e assicurare un benessere condiviso a livello nazionale.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Demografica

Da oggi aumentano i prezzi delle sigarette, ecco i nuovi...

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Pacchetto Sigarette Canva

Da oggi, 23 gennaio 2025, aumentano i prezzi delle sigarette, dei tabacchi trinciati e dei sigari. Prosegue la politica di contrasto al fumo che sta portando a una lieve ma costante riduzione dei fumatori in Italia.

Gli incrementi variano in base alla tipologia di prodotto e non riguardano tutte le marche di sigarette e affini.

Nuovi prezzi sigarette

Il rincaro era già stato stabilito dalla legge di Bilancio 2023 prima di essere ritoccato dalla Manovra 2024 che ha previsto un incremento dell’accisa.

In particolare, la legge di Bilancio 2024 è intervenuta sulla componente fissa, salita da 28,20 euro ogni mille sigarette a 29,50 dal 2025. La Manovra 2023 prevedeva per lo scorso anno un aumento di “28,20 euro per 1.000 sigarette e, a decorrere dall’anno 2025, in 28,70 euro per 1.000 sigarette”. La successiva Legge di Bilancio ha portato l’incremento fino a 29,30 euro per 1.000 sigarette per l’anno 2024 e di 29,50 euro per 1.000 sigarette da quest’anno.

Concretamente, gli aumenti sono nell’ordine di 20-30 centesimi a pacchetto, meno del 5% rispetto ai prezzi di vendita attuali. Numeri ben lontani dall’aumento di 5 euro a pacchetto che era stato proposto dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), dalla Fondazione Aiom e da Panorama della Sanità per bilanciare i costi della sanità pubblica.

Qui la tabella pubblicata dal sito dell’Agenzia delle Dogane con i nuovi prezzi delle sigarette.

Qui i nuovi prezzi per il tabacco trinciato, utilizzato per le sigarette rollate (“drum” per i più giovani).

Qui i nuovi prezzi dei sigari.

Il divieto a Milano e la battaglia dell’Ue

Ancora prima dei nuovi prezzi delle sigarette in vigore da oggi, 23 gennaio 2025, il nuovo anno si era aperto con un’altra cattiva notizia per i fumatori. O almeno per quelli che si trovano a Milano, dove dal 1°gennaio è scattato il divieto di fumo all’aperto se non a una distanza di almeno dieci metri dalle altre persone. Una norma che riguarda la salute delle persone e dell’ambiente, dato che il 7% della CO2 presente nel capoluogo lombardo deriva dalle sigarette.

La stretta anti-fumo di Milano è in linea con il piano europeo di lotta contro il cancro che punta a creare, entro il 2040, una “generazione libera dal tabacco, nella quale meno del 5% della popolazione consumerà tabacco. Già nel 2009, il Consiglio Ue adottava la raccomandazione sugli ambienti senza fumo invitando i Paesi ad attuare leggi che proteggessero pienamente i cittadini dall’esposizione al fumo nei luoghi pubblici chiusi, al lavoro e nei trasporti pubblici.

Se l’esperimento milanese avrà successo, potrebbe ispirare analoghe politiche in altre città, ma il cambiamento è già iniziato in Ue dove ogni anno 700.000 persone perdono la vita a causa del consumo di tabacco. Di questi decessi, decine di migliaia sono provocati dal fumo passivo, come scrive la Commissione Europea sul proprio sito.
Lo scorso settembre Bruxelles ha avanzato la proposta di revisione della raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo e ha incoraggiato gli Stati membri a rafforzare la cooperazione internazionale per massimizzare l’impatto delle misure adottate nel territorio.

Un divieto che non piace agli italiani

Nonostante questi numeri, i divieti di fumo non piacciono agli italiani. Una fotografia chiara sul tema arriva dalla ricerca realizzata in esclusiva per Adnkronos tramite la piattaforma Socialdata.
Dopo aver analizzato circa 40 mila post e oltre 3 milioni di reazioni, il team di analisi di Socialcom ha evidenziato che il rapporto tra post negativi (44%) e positivi (4%) è di 10 a 1. In pratica, meno di un cittadino su 20 mostra online un atteggiamento favorevole al provvedimento meneghino, mentre quasi la metà degli utenti esprime posizioni critiche a riguardo.

Per approfondire i risultati della ricerca: Divieti di fumo, il web li boccia: cosa dicono i social, i dati

Quanti fumatori in Italia?

I dati dell’Istituto Superiore di Sanità tracciano un quadro articolato dell’andamento del tabagismo in Italia. Tra il 2015 e il 2022, i fumatori sono diminuiti da 11,5 milioni (22% della popolazione) a 10,5 milioni (20,5%). Un calo contenuto ma costante. Le ragioni di questa contrazione sono molte: campagne di sensibilizzazione, aumenti progressivi dei prezzi, restrizioni normative sempre più stringenti.

Il costo sociale del fumo

Il fumo provoca oltre 93.000 decessi annuali in Italia, più delle morti combinate di alcol, droga, incidenti stradali, AIDS, omicidi e suicidi. Un dato che colloca il contrasto al tabagismo come priorità di sanità pubblica. Il dato del 2022 corrisponde al 20,6% del totale delle morti tra gli uomini e al 7,9% tra le donne.

In Italia, il fumo costa ogni anno 26 miliardi di euro sul sistema sanitario, mentre il guadagno da monopolio è di circa 15 miliardi di euro. Anche per questo è necessario intervenire sul costo delle sigarette.

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Demografica

La Shoah è esistita? Per il 14% degli italiani no

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Auschwitz9 Fg Ipa

Quando si parla di memoria storica e dei crimini contro l’umanità, la Shoah è il termine che rievoca la memoria di milioni di persone sterminate nei campi di concentramento nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, in un’Italia che si trova di fronte alla Giornata della Memoria, il 27 gennaio, e a un’inquietante recrudescenza di episodi di antisemitismo, emerge un dato preoccupante: il 14% degli italiani, secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, non crede che la Shoah sia mai avvenuta.

L’indagine dell’Eurispes ha messo in luce, tra le altre cose, una crescente diffusione di pregiudizi antisemiti e una pericolosa tendenza al revisionismo storico. Non solo negazione dell’Olocausto, ma anche distorsioni sul numero delle vittime e credenze pericolose riguardo al controllo ebraico sugli aspetti economici, mediatici e politici della società globale. Queste affermazioni si intrecciano con la contemporaneità dei conflitti, come quello israelo-palestinese, alimentando una visione distorta e carica di odio che sembra trovare sempre più terreno fertile.

La Shoah negata

Quello che molti considerano un “vecchio tema”, relativo alla memoria della Shoah, sembra essere riemerso prepotentemente nella coscienza collettiva italiana, e non solo. Secondo il Rapporto Italia, il 15,9% degli italiani minimizza la portata della Shoah, affermando che non avrebbe prodotto così tante vittime, mentre il 14,1% nega totalmente che lo sterminio sia mai avvenuto. Dati inquietanti, che si collegano a una crescente diffusione di teorie complottiste e di discorsi revisionisti, veicolati non solo dai soliti ambienti estremisti, ma anche da frange della politica e dei social media.

Non si tratta di una crisi improvvisa, ma di un processo strisciante che si è acuito negli ultimi decenni. Nel 2004, sempre secondo Eurispes, solo il 2,7% degli italiani metteva in dubbio l’Olocausto. Oggi quella percentuale è quintuplicata, dimostrando come il tempo, anziché consolidare la consapevolezza storica, abbia aperto la strada a narrazioni distorte.

Questo deterioramento del senso storico non è privo di conseguenze. Il negazionismo non è solo una negazione del passato, ma una ferita aperta per le comunità ebraiche e un pericoloso sintomo di una società che fatica a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità. Il rischio è evidente: la Shoah, da tragedia universale, rischia di essere relegata al ruolo di semplice oggetto di dibattito, perdendo il suo valore di monito e insegnamento per le generazioni future.

Purtroppo, quanto emerso dall’indagine dell’Eurispes non è un caso isolato. Le credenze distorte sugli ebrei, come il presunto controllo del potere economico o la capacità di determinare le politiche occidentali, continuano a radicarsi tra la popolazione. Se nel 2004 il 2,8% degli italiani negava il diritto all’esistenza di Israele, oggi quella percentuale è salita al 18,8%. La banalizzazione della Shoah, il crescere di opinioni che minimizzano o addirittura negano l’orrore subito dal popolo ebraico, è un fenomeno che può avere effetti devastanti sulla coesione sociale e sul rispetto dei diritti umani.

I numeri dell’Eurispes non sono solo statistiche: sono un campanello d’allarme per una società che rischia di dimenticare o, peggio, di revisionare la storia in un momento in cui il razzismo e l’antisemitismo stanno vivendo una riscoperta inquietante. Questa negazione, in parte legata a una diffusione del complottismo che non riguarda solo il passato, ma si estende anche a questioni contemporanee, si inserisce in un contesto più ampio di crescente antisemitismo. In Italia, infatti, è emerso che un terzo degli italiani (33,4%) crede ancora che gli ebrei controllino il potere economico e finanziario, mentre il 30% è convinto che abbiano un’influenza predominante sui media. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche occidentali è sostenuta dal 27,5% degli intervistati. Queste convinzioni sono intrinsecamente legate all’odio verso lo Stato di Israele e alla percezione che gli ebrei, in quanto tali, siano colpevoli degli sviluppi geopolitici in corso.

Il conflitto israelo-palestinese: un catalizzatore per l’odio?

Il Rapporto Italia ha anche esplorato la connessione tra il pregiudizio antisemita e il conflitto israelo-palestinese evidenziando come la guerra tra Israele e Hamas, purtroppo, stia influenzando negativamente la percezione degli italiani riguardo al popolo ebraico. Se da un lato il 60,7% degli italiani non mette in discussione il diritto di Israele di esistere, vi è una parte consistente della popolazione (18,8%) che nega fermamente questo diritto. A sorprendere è anche l’elevata percentuale di coloro che non si esprimono su questo tema, un 20,5% che resta ambiguo riguardo a una questione tanto centrale nella geopolitica mondiale.

Sebbene il 60,7% degli italiani non metta in discussione il diritto di Israele a esistere, vi è una percentuale significativa che associa l’identità ebraica ai problemi geopolitici del Medio Oriente. Non è un caso che la tensione tra Israele e Palestina coincida con un aumento del risentimento verso gli ebrei nel mondo occidentale. Il conflitto, purtroppo, diventa il terreno fertile per la diffusione di teorie cospirative, in cui gli ebrei sono visti come una minaccia globale da combattere. L’odio non riguarda più solo Israele o la politica di Netanyahu, ma si estende al popolo ebraico in generale, creando una polarizzazione che non lascia spazio al dialogo e alla comprensione reciproca.

Questo scenario ha alimentato una visione distorta della comunità ebraica, spesso confusa con le scelte politiche dello Stato d’Israele. Gli italiani, divisi e polarizzati su come trattare il conflitto, finiscono con l’associare la Shoah a una serie di questioni contemporanee che non ne preservano la memoria storica. Il bombardamento mediatico su Gaza, le polemiche sull’appoggio o meno a Israele, hanno messo sotto pressione la comunità ebraica in Italia, spesso vista come un tutt’uno con le politiche israeliane, anche quando si tratta di distinguere tra il popolo ebraico e le scelte del suo governo.

Un recente episodio significativo è stato l’atto di vandalismo contro la Sinagoga di Bologna, durante gli scontri dello scorso 12 gennaio. A seguito di un corteo che chiedeva giustizia per Ramy Elgaml, un giovane arabo palestinese ucciso da un agente di polizia, la comunità ebraica è stata presa di mira da atti di violenza e minacce. La Sinagoga, in particolare, è stata vandalizzata con scritte in solidarietà con Gaza. Per il presidente della Comunità Ebraica di Bologna, Daniele De Paz, non si è trattato di un semplice atto vandalico, ma di un vero e proprio “attacco mirato e programmato”. La Comunità Ebraica Progressiva di Bologna, proprio alla luce di questo episodio e di un contesto cittadino percepito come ostile, ha deciso di non partecipare agli eventi legati alla Giornata della Memoria. In una nota ufficiale, la comunità denuncia “il peggior clima di antisemitismo dal dopoguerra”. “”È ora di comprendere che il 27 gennaio non è una concessione verso di noi – si sottolinea in una nota – Noi portiamo già nel cuore e nella memoria familiare e nazionale i segni indelebili del genocidio. Oggi portiamo anche lo sdegno per l’utilizzo strumentale, la banalizzazione e la trivializzazione del nostro dolore storico”.

La memoria in crisi

La Giornata della Memoria, celebrata il 27 gennaio, è stata istituita con la legge 20 luglio 2000, n. 211, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Nell’articolo 1 si legge che “la Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. “In occasione del ‘Giorno della Memoria’ di cui all’articolo 1 – è scritto nell’articolo 2 – sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione”.

Il 21 novembre 2005 l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che indica “il 27 gennaio come una Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto”. La risoluzione, come si legge sul sito del Senato, istituisce il “Programma di sensibilizzazione sull’Olocausto” con l’obiettivo di “mobilitare la società civile per la memoria e l’educazione all’Olocausto, al fine di contribuire a prevenire futuri atti di genocidio”.

In un’epoca in cui la disinformazione viaggia veloce e il passato sembra sempre più lontano, ricordare non basta più. È necessario agire, educare, denunciare. Perché la storia non si ripeta, e perché nessuno possa mai più permettersi di chiedere: “La Shoah è davvero esistita?”.

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Demografica

Trump ha reintrodotto la pena di morte a livello federale,...

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Trump beffardo

Donald Trump ha reintrodotto la pena di morte a livello federale negli Stati Uniti. Lo ha fatto con uno dei cento ordini esecutivi firmati il 20 gennaio 2025 subito dopo il suo secondo insediamento da presidente degli Usa. Una decisione storica che cancella con un colpo di spugna la moratoria decretata dall’amministrazione Biden nel 2021 e riaccende il dibattito su un tema altamente divisivo dal punto di vista legale, sociale ed etico.

L’ordine esecutivo stabilisce in modo chiaro i casi in cui la pena capitale potrà essere applicata, provocando reazioni contrastanti a livello nazionale e internazionale anche perché appare evidente la discriminazione nei confronti degli immigrati illegali.

Pena di morte, cosa prevede l’ordine di Trump?

La reintroduzione della pena di morte a livello federale si concentra su specifici crimini considerati estremamente gravi. Il provvedimento prevede che la pena capitale possa essere richiesta in specifici casi, tra cui:

  • Omicidio di agenti federali o pubblici ufficiali durante l’esercizio delle loro funzioni;
  • Reati capitali commessi da immigrati irregolari presenti sul territorio degli Stati Uniti;
  • Terrorismo federale e reati legati alla sicurezza nazionale, se provocano la morte di una o più persone;
  • Omicidi seriali e altri casi di particolare efferatezza riconosciuti dalla giurisdizione federale.

L’ordine stabilisce che le esecuzioni avverranno attraverso iniezione letale, rispettando i protocolli federali, e chiede una priorità per casi che coinvolgono minoranze, donne e agenti pubblici come vittime, per rafforzare il concetto di una punizione severa ma giusta. Il presidente americano ha anche al procuratore generale di richiedere la pena capitale “indipendentemente da altri fattori” quando il caso riguarda l’uccisione di un agente o reati capitali “commessi da uno straniero illegalmente presente” nel Paese, e di “intraprendere tutte le azioni necessarie e legali” per garantire che gli Stati abbiano abbastanza farmaci per l’iniezione letale.

Dove è ammessa la pena di morte

Negli Stati Uniti, la pena di morte è una questione mista di diritto statale e federale. In base al sistema federale, i singoli Stati possono decidere autonomamente se adottare, abolire o limitare l’applicazione della pena capitale. Ad oggi:

  • 24 stati prevedono l’uso della pena di morte, incluse Florida, Texas e Arizona;
  • 23 stati l’hanno abolita completamente, come New York e Illinois;
  • Altri stati – Oregon, California e Pennsylvania – hanno introdotto moratorie che sospendono le esecuzioni pur mantenendo la legge in vigore.

L’ordine esecutivo di Trump ha effetto solo per i crimini perseguiti a livello federale, reintroducendo la pena capitale indipendentemente dalle normative dei singoli Stati.

Brevi cenni sulla pena di morte negli Usa

La pena di morte è stata presente nella giustizia statunitense fin dall’epoca coloniale, ma la sua applicazione è cambiata nel tempo. Nel 1972, la Corte Suprema sospese temporaneamente le esecuzioni con la sentenza Furman v. Georgia, dichiarando che la pena capitale veniva applicata in modo “arbitrario e capriccioso”. Tuttavia, con il caso Gregg v. Georgia nel 1976, la Corte autorizzò nuovamente l’applicazione della pena di morte, purché fosse regolata da criteri rigidi.

Negli anni 2000, un movimento crescente ha portato alla riduzione delle esecuzioni e alla sospensione in alcuni Stati americani. La moratoria federale introdotta da Joe Biden nel 2021 – durante la quale le condanne a morte furono sospese o commutate in ergastolo – segnò un punto cruciale, ora annullato dalla recente decisione di Trump.

La pena di morte nel resto del mondo

Nel 2025, il panorama globale sulla pena di morte rimane eterogeneo:

  • La maggior parte dei Paesi ha abolito completamente la pena capitale;
  • Circa 55 Paesi, tra cui Cina, Iran e Arabia Saudita, prevedono ancora la pena di morte;
  • Alcuni Paesi non hanno abolito la pena di morte, ma applicano da anni delle moratorie (come quella concessa da Biden) che sospendono l’esecuzione della pena capitale.

Secondo il Death Policy Information Center, dieci dei quindici Paesi che hanno abolito la pena di morte per tutti i crimini dal 2015 a oggi si trovano in Africa: Burkina Faso, Repubblica del Congo, Ciad, Guinea, Sierra Leone, Benin, Zambia, Madagascar, Guinea Equatoriale e Repubblica Centrafricana. A questi vanno aggiunti il Kenya e il Ghana che l’hanno abolita per alcuni crimini. Sul fronte opposto si trova la Repubblica democratica del Congo che nel 2023 ha cancellato la moratoria durata circa vent’anni.

Prima del secondo mandato di Trump, la moratoria di Biden aveva evitato la pena di morte a 37 condannati, convertendola in ergastolo.

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