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La sociologa: “La denatalità non è più un’emergenza, è un problema strutturale”
La denatalità non è più un’emergenza, è un problema strutturale. E non è (solo) un problema di tipo economico. Lo ha chiarito Emiliana Mangone, professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’università di Salerno, intervenuta al convegno ‘Essere genitori oggi, tra scienza e welfare’, il nuovo appuntamento di Adnkronos Q&A organizzato in collaborazione con Demografica e Merck, con il sostegno di Medical service consulting, Ivi, Nuova collaborazione e WindTre.
La denatalità è un problema strutturale e non solo economico
La sociologa ha utilizzato i risultati della ricerca svolta dall’Ateneo e commissionata da Fondazione Magna Grecia sulla propensione alla genitorialità per sottolineare come innanzitutto i trend della natalità siano in discesa “già quasi dagli anni ‘70, e continuano a scendere di anno in anno, quindi parlare di emergenza oggi è un errore assolutamente: dovevamo parlare di emergenza almeno 30 anni fa”.
Stabilito questo primo punto, la professoressa è andata al nocciolo: perché i giovani non fanno figli? “Le risposte che in questo momento si stanno dando sono tutte legate ad aspetti di carattere economico ma quello che invece è emerso dalla nostra ricerca è un tantino diverso o meglio si aggiunge un pezzetto”.
Mangone ha chiarito che i giovani in età fertile – dai 18 ai 35 anni – coinvolti dalla ricerca pur essendo autonomi economicamente vivono quasi tutti ancora con la famiglia “e decidono di fare un figlio solo se avvertono questo grosso senso di diventare genitori. Questo è il primo aspetto, poi c’è un aspetto estremamente paradossale e cioè questi giovani si fidano solo delle relazioni di prossimità e cioè alla domanda ‘a chi ti rivolgeresti in caso di difficoltà nel momento in cui avrai un figlio’ la risposta è la famiglia, gli amici e il partner. Non si rivolgono alle amministrazioni pubbliche, né alle istituzioni private e neanche alla chiesa”.
Inoltre, “l’altro aspetto che è emerso in maniera molto forte al di là dell’individualismo – che c’è – è la loro necessità di poter continuare a fare quello che fanno senza figli, cioè lavorare, avere il tempo libero per le proprie passioni e avere una responsabilità condivisa, ma la responsabilità condivisa la vogliono condividere solo ed esclusivamente con le relazioni di prossimità”.
Quindi, per Mangone, vanno bene tutti gli incentivi, ma occorre creare reti prossimali che non possono essere più solo la famiglia, occorre rendere il sistema di welfare un sistema di welfare comunitario. Soprattutto, “bisogna tornare alle relazioni umane: questo significa creare un’educazione nei giovani che li faccia sentire anche parte di una comunità con cui condividere le responsabilità”.
Serve l’educazione alla fertilità
Ma a monte c’è innanzitutto un problema di salute riproduttiva, fino ad oggi molto sottovalutato. Eppure, è emerso dalla mattinata di lavori, la prevenzione è fondamentale e deve cominciare presto, in un’età in cui non ci si pensa e non si è pronti ad affrontare questo argomento. Lo ha spiegato chiaramente Francesco Gebbia, coordinatore medico Medical affairs Ivirma Italia nel suo intervento: “Le coppie non sono assolutamente preparate a avere informazioni sulla loro fertilità e spesso siamo noi in epoca anche tardiva a dare delle prime informazioni. Quello che notiamo è che non c’è purtroppo aderenza rispetto alle aspettative che si hanno riguardo alla propria fertilità e alla potenzialità di avere un figlio”.
“Oggi in Italia si fanno i figli sempre più tardi. L’età media in cui si fa il primo figlio è quasi 33 anni che è tardissimo da un punto di vista biologico, ci sembra strano dire che a 33 anni sia tardi, ma da un punto di vista riproduttivo effettivamente lo è. Siamo il paese in Europa in cui si fanno figli più tardi e quello che dovremmo appunto insegnare è anche l’educazione alla fertilità, dare gli strumenti alle donne e agli uomini per decidere della propria vita, ma in maniera consapevole e informata”, ha continuato l’esperto.
Gebbia ha anche ricordato come “il momento migliore da un punto di vista biologico per concepire sarebbe tra i 20 e 30 anni con una probabilità di concepimento ogni mese, quando tutto va bene nella coppia, di circa un 25%. La stessa coppia di individui sani a 40 anni ogni mese ha un 5% di probabilità di concepire e a 45 anni siamo sotto l’uno per cento. E questo senza che ci siano altre fattori e altre patologie ginecologiche o non”, ma “tutto questo è ignorato dalla maggior parte delle coppie”, un problema che prosegue anche quando si approccia un trattamento medico, perché spesso le coppie credono che si possa risolvere tutto sottoponendosi a un trattamento e invece non è sempre così.
La fecondazione assistita insomma è un aiuto ma non può essere data per scontata nei suoi esiti. Nonostante questo, il ricorso alla Pma è in continua crescita e negli ultimi 10 anni, ha ricordato Gebbia, ha fatto nascere più di 200 mila bambini, 17mila nel 2022. A tal proposito il medico ha sottolineato come il trattamento vada comunque adeguato alla coppia e come dai 43-44 anni “la strada che viene consigliata prevede l’utilizzo di ovociti donati da parte di donatrici in maniera anonima, cosa che si può fare in Italia dal 2014, non sempre le coppie ne sono informate”.
L’importanza del welfare aziendale
Altro aspetto fondamentale per la genitorialità è il welfare, statale come aziendale. Al convegno ha portato la sua esperienza e le sue best practices Fater, azienda che in questo ambito ha messo in campo una seria di innovazioni, a partire dal programma ‘People First’. Antonio Fazzari, general manager Fater, ha raccontato le diverse iniziative e sottolineato soprattutto come esse nascano dall’ascolto attraverso survey o focus group e veri e propri incontri di persona con i dipendenti. Questa è la chiave del successo di quanto poi Fater ha introdotto o sta introducendo: non si tratta di iniziative calate dall’alto ma provenienti dalle reali esigenze delle persone. E l’esigenza principale dei genitori emersa dall’ascolto, ha spiegato Fazzari, è una maggiore flessibilità nel coniugare le necessità professionali con la vita privata.
Da qui è nata l’offerta di lavoro ibrido 5 su 5 ma anche un programma di welfare specifico per i genitori con l’estensione del congedo parentale a tre mesi, al quale il 100% dei papà ha aderito pur non essendo obbligatorio, il bonus asilo da 250 euro al mese, il coaching alle neomamme o l’ultima novità: Kids ad Campus.
Quest’ultima iniziativa prevede che tutte le persone che lavorano nel campus possano portare i loro figli di almeno sei anni nel campus stesso, prenotando lo spazio; quindi, i figli potranno spendere delle ore in posti sicuri, ma anche divertenti e quindi rilassarsi o fare i compiti o tutto quello di cui c’è bisogno e i genitori potranno continuare la loro attività lavorativa. Il progetto “nasce proprio oggi e quindi ve lo diamo in anteprima e possiamo solo immaginarci che può essere un campus aperto con la energia dei nostri figli”.
Un altro importante esempio di come si possa declinare il welfare l’ha portato Franca Guglielmetti, che per Welfare come te coordina le attività del comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sui bisogni di welfare di lavoratrici e lavoratori con responsabilità di cura. “Welfare come te è un provider di welfare aziendale specializzato soprattutto su quei servizi che possono aiutare il lavoratore che ha responsabilità di cura verso i figli a continuare a lavorare a mantenere il proprio profilo professionale”, ha spiegato Guglielmetti.
Anche per Welfare come te tutto parte dall’ascolto dei bisogni reali delle persone, e proprio da qui nasce l’osservatorio, “un’indagine che noi facciamo ogni due anni, quest’anno abbiamo fatto la prima, e che ci ha portato un disegno abbastanza interessante e cioè che il 70% delle persone che lavorano ha anche responsabilità di cura”, ha evidenziato Guglielmetti sottolineando come queste persone siano nella continua fatica di bilanciare lavoro e famiglia, ambito in cui può validamente intervenire il welfare aziendale.
I modi possono essere disparati: dal piano sanitario personale alle attività di supporto nel percorso di crescita dei figli, come lo sportello genitori e lo sportello per l’adolescenza fino ad interventi di formazione e sensibilizzazione sui disturbi del comportamento alimentare, sul tema dello svezzamento e della nutrizione nei bambini, oppure ancora sui problemi legati a disturbi specifici dell’apprendimento che, ha sottolineato Guglielmetti, “purtroppo sono in grandissimo aumento pare in conseguenza dell’uso eccessivo del web e che molto spesso preoccupano i genitori che non sanno come fare”.
“Il fatto che l’azienda offre loro degli strumenti di orientamento nella complessità che incontrano nell’essere genitori, secondo noi può essere un elemento che favorisce e supporta la genitorialità”, ha concluso.
Sul tema è intervenuto anche Tommaso Vitali, direttore B2C marketing e new business di Windtre, che si è concentrato sull’importanza dell’educazione digitale, tema fondamentale perché “chiaramente siamo tutti immersi in questo mondo che è sempre più digitalizzato, non c’è soluzione di continuità fra reale e digitale e questo ha chiaramente un impatto non trascurabile anche sulle famiglie, sui bambini, sui genitori”.
“WindTre è la prima porta di accesso a Internet in Italia e in un’ottica di un’azienda che vuole avere una responsabilità in termini sociali vogliamo che internet sia un luogo di benessere. L’obiettivo del progetto ‘Neo connessi’ è quello di generare consapevolezza sullo strumento internet, delle opportunità e dei rischi. Abbiamo deciso di partire con una focalizzazione specifica sui più piccoli: sappiamo che fra gli 8 e 10 anni i bambini entrano per la prima volta in possesso di uno smartphone, che è in realtà una porta piccolina ma che apre a un mondo infinito. Abbiamo strutturato nel tempo degli strumenti formativi che si rivolgono primariamente alle famiglie, quindi agli educatori e genitori passando anche dalle scuole, attraverso dei kit didattici che abbiamo costruito in collaborazione con la Polizia di Stato, l’ordine nazionale degli psicologi e anche dei pediatri per poter mettere a disposizione degli strumenti che facilitino appunto l’educazione digitale”.
Il lavoro domestico costa troppo
Un altro problema affrontato nella mattinata è stato poi quello legato al lavoro domestico, spesso fondamentale per affrontare il carico di cura familiare. Ne ha parlato Filippo Breccia Fratadocchi, vice presidente di Nuova Collaborazione, Associazione Nazionale Datori di Lavoro Domestico nata nel 1969: “I rapporti di lavoro domestico regolari ogni anno si stanno riducendo, quindi aumenta il numero e l’entità del lavoro nero. Sono stime, però grosso modo sappiamo che abbiamo 830 mila circa rapporti di lavoro dichiarati all’Inps e ce n’è più di un milione che non è dichiarato. Quando ci concentriamo sulle baby-sitter la situazione peggiora”.
Da un’indagine commissionata recentemente dall’associazione su un campione di 700 famiglie con figli under 12 è emerso che solo il 36% aveva un rapporto regolarizzato. Il motivo principale è sempre il costo del lavoro, gravoso per l’anziano ma anche per la giovane coppia all’inizio della vita lavorativa: si parla di circa 1500 euro al mese, quindi, ha affermato Fratadocchi, “quello che noi insieme alle altre associazioni datoriali chiediamo da ormai da vent’anni ai governi che si sono succeduti è un maggiore riconoscimento fiscale di questo rapporto di lavoro”.
“Questo è sicuramente un sistema che non favorisce l’assunzione di una baby-sitter e noi sappiamo che è un problema quasi sempre femminile e che poi le scelte che si fanno sono quella di rinunciare al lavoro per poter far fronte agli impegni domestici”, una decisione ingiusta, ha rimarcato Fratadocchi, sia a livello etico sia strettamente economico: “Se rimango a casa abbiamo zero rapporti di lavoro. Se io invece assumo una baby-sitter e Conserve un mio posto di lavoro abbiamo due posti di lavoro con tutto ciò comporta sotto il profilo contributivo fiscale produttivo consumi e via dicendo”.
“Quindi è chiaro che allora da un lato apprezziamo gli sforzi del governo che però sono concentrati più sull’assistenza alle persone anziane, sul fronte del baby-sitter invece siamo rimasti assolutamente indietro”, ha concluso.
Il governo punta sul lavoro
E per il governo è intervenuta la viceministra al lavoro e alle politiche sociali Maria Teresa Bellucci, che ha sottolineato come l’esecutivo abbia ha puntato sul lavoro, perché è “uno strumento di risposta sociale e di libertà”, e che l’obiettivo deve essere quello di “rendere le persone libere dai sussidi di Stato per raggiungere una propria realizzazione”.
Un discorso che ha riguardato “soprattutto le donne di poter partecipare alla crescita di questa nazione: l’Istat ci dice che, se le donne venissero maggiormente inserite nel mercato del lavoro, avremmo una crescita del 7% e su questo quindi abbiamo dato tante risposte di decontribuzione mettendo maggiori soldi nelle tasche delle donne occupate. Abbiamo raggiunto un record di occupazione femminile che non basta: abbiamo raggiunto il 53%, io penso ogni giorno al 47% di donne che ancora aspettano di poter scegliere di realizzare la loro vita permanendo nel lavoro o essendo inserita nel lavoro, ma questa sicuramente è una priorità di questo governo una mia priorità: la libertà delle donne di poter scegliere di lavorare e la libertà delle donne di poter insieme al proprio compagno marito di poter fare figli”.
La viceministro ha sottolineato che “l’ufficio parlamentare di bilancio ci dice che nei due anni c’è stato un beneficio per le famiglie totale anche con gli strumenti diretti che è arrivato a 16 miliardi di euro, quindi parliamo comunque di un importo assolutamente significativo. Abbiamo spinto sul welfare aziendale perché i contesti del lavoro sono uno strumento prioritario per riconoscere il benessere alle persone alle famiglie”.
Nella nuova legge di bilancio il governo sta dando attenzione anche a chi per lavoro deve trasferirsi e quindi deve sostenere spese più alte, ha ricordato Bellucci aggiungendo: “Sto seguendo con molto interesse l’iter parlamentare per quanto riguarda la partecipazione agli utili di azienda del lavoratore perché credo anche che questo sia un altro strumento fondamentale per sentirsi comunità, per superare quella contrapposizione oggi assolutamente troppo presente che fa sì che il lavoratore sia contrapposto all’imprenditore, cose che io trovo non congrue e che appartengono a un altro secolo”.
“Io credo che questo debba essere il tempo di pacificazione, non di rivolte sociali, ma di alleanza sociale, di pace sociale, di costruzione insieme perché stiamo parlando di valori importanti come il diritto al lavoro, il diritto alla vita, il diritto alla serenità”, ha concluso ricordando anche lo Stato, le aziende, il privato sociale da soli non possano fare nulla ma che “insieme con una forte alleanza quello che finora è sembrato impossibile può diventare possibile”.
La chiave della fiscalità
Proprio ‘alleanza’ è la parola ripresa da Antonio Affinita, direttore del Moige, che ha chiuso i lavori del convegno auspicando che questa sia la linea centrale del prossimo futuro. “Ci siamo in questa alleanza, ci siamo con il mondo dell’informazione, ci siamo con il mondo dell’Industria e delle comunicazioni, ci siamo con il mondo della ricerca con il mondo dell’università, però dinanzi a tutta questa dinamica abbiamo bisogno di appendere tutti questi provvedimenti che sono importanti e sicuramente tutelanti intorno al chiodo centrale di una fiscalità che sia rispettosa del fatto che non posso pagare le stesse tasse se ho zero figli, un figlio, due figli, tre figli, quattro figli”. Mediamente, ha sottolineato Affinita, “un figlio costa circa 15mila euro, dati Federconsumatori. Questa della fiscalità è la vera sfida ed è questo quello che portiamo nei dialoghi con il governo con il Ministero delle Finanze”, anche per scardinare quella connessione che si è ormai creata che se fai un figlio diventi povero.
E dove indirizzare la fiscalità è una questione di scelte: “Bisogna dirlo se preferite mettere i cappotti alle case anziché mettere i bambini nelle case”, ha affermato Affinita. Scelte che vanno fatte, secondo il direttore del Moige, tenendo presente che “il figlio non è mio, è della società. Quanto vale un figlio cresciuto a 25 anni laureato, pronto per entrare nel mondo del lavoro? Ha un valore infinito. Allora per chiudere questa riflessione, io dico noi vogliamo essere trattati come famiglia come aziende produttive e noi produciamo il ponte più importante d’Italia”, quello verso il futuro.
Demografica
In Italia “L’infinito” di Leopardi è di D’Annunzio e 7×8...
L’Italia, da sempre fucina di grandi pensatori e artisti, è conosciuta in tutto il mondo per il suo patrimonio culturale e storico. Le sue città sono custodi di opere che segnano la storia dell’umanità, dai capolavori del Rinascimento alle scoperte scientifiche che hanno rivoluzionato il pensiero mondiale. Eppure, oggi, questo stesso Paese sembra lacerato tra il passato, che lo ha reso celebre, e un presente dove, paradossalmente, l’ignoranza dilaga a dispetto della sua straordinaria eredità. Come è possibile che la nazione che ha dato i natali a geni come Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Dante Alighieri e Michelangelo Buonarroti non riesca a trasmettere alle nuove generazioni una conoscenza elementare dei suoi stessi fondamenti storici? Lo dimostrano i dati di vari studi, dai sondaggi internazionali sulle percezioni storiche ai report nazionali che tracciano un quadro inquietante delle competenze di base degli italiani.
Italia ‘fabbrica di ignoranti’
Il report Censis 2024 fotografa un’Italia che pare smarrita nelle sue fondamenta storiche, che rischia di diventare una “fabbrica degli ignoranti”, una definizione tanto provocatoria quanto preoccupante. L’ignoranza, seppur non più quella “pura” dell’analfabetismo, è diventata un pericolo diffuso. Mentre il numero di laureati cresce, la formazione di base – quella che serve per comprendere il mondo e prendere decisioni consapevoli – continua a essere un obiettivo lontano per troppi. Nonostante gli 8,4 milioni di laureati, che rappresentano il 18,4% della popolazione adulta, il 24,5% degli alunni non raggiunge i traguardi di apprendimento in italiano alla fine della scuola primaria, e questa percentuale sale addirittura al 43,5% all’ultimo anno delle scuole superiori. La matematica non va meglio: il 31,8% degli alunni delle scuole primarie non arriva ai livelli minimi, e questo numero aumenta fino all’81% negli istituti professionali.
Se la deficienza nelle materie scientifiche e linguistiche è già grave, un altro aspetto ancora più preoccupante emerge dalle lacune storiche e culturali. Il 55,2% degli italiani, ad esempio, non sa che Mussolini è stato arrestato nel 1943, e il 30% non sa chi fosse Giuseppe Mazzini, uno dei protagonisti dell’Unità d’Italia. A livello mondiale, la situazione non è migliore: il 49,7% degli italiani non sa quando è scoppiata la Rivoluzione francese (1789 ndr), il 42,1% non conosce l’anno in cui l’uomo è sbarcato sulla Luna (1969), il 25,1% degli italiani non sa quando è caduto il muro di Berlino (1989), il 22,9% non riconosce Richard Nixon come presidente degli Stati Uniti (confondendolo con un grande calciatore inglese, come crede il 2,6%), il 15,3% non ha idea di chi fosse Mao Zedong e il 13,1% non sa che cosa è stata la guerra fredda.
Il gap culturale riguarda anche la letteratura e l’arte italiana, con il 41,1% degli italiani che erroneamente attribuisce a Gabriele D’Annunzio la paternità di “L’infinito” di Leopardi, per il 35,1% Eugenio Montale potrebbe essere stato un autorevole presidente del Consiglio dei ministri degli anni ’50, il 18,4% non può escludere con certezza che Giovanni Pascoli sia l’autore de I promessi sposi e il 6,1% crede che il sommo poeta Dante Alighieri non sia l’autore delle cantiche della Divina Commedia; e ancora, il 35,9% degli italiani crede erroneamente che Giuseppe Verdi abbia composto l’Inno di Mameli, e ben il 32,4% non sa che la Cappella Sistina è stata affrescata da Michelangelo, confondendo l’autore con Giotto o Leonardo da Vinci.
Non si tratta solo di un problema di conoscenze storiche, ma anche di geografia: il 23,8% degli italiani non sa che Oslo è la capitale della Norvegia, mentre il 29,5% ignora che Potenza è il capoluogo della Basilicata. Le difficoltà con le operazioni matematiche non sono da meno, se il 12,9% degli italiani non è in grado di moltiplicare correttamente 7 per 8 (56).
Ancora più preoccupante è l’incapacità di molti di comprendere i meccanismi istituzionali: oltre il 53% della popolazione non sa che il potere esecutivo è attribuito al Governo e non al Parlamento o alla magistratura. In questo “limbo” dell’ignoranza, dove si intrecciano convinzioni irrazionali e pregiudizi, cresce la possibilità che teorie antiscientifiche e stereotipi culturali prosperino. Tra le convinzioni più diffuse, troviamo il 26,1% degli italiani che crede che in Italia ci siano 10 milioni di immigrati clandestini, o il 20,9% che pensa che gli ebrei dominino il mondo tramite la finanza. Per non parlare delle idee più inquietanti: il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia di origine genetica, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, mentre il 9,2% sostiene che la criminalità abbia una base genetica, e per l’8,3% islam e jihadismo sono la stessa cosa… ma del resto per il 5,8% degli italiani il “culturista” è una “persona di cultura”.
La distorsione della realtà e la nascita di convinzioni irrazionali
Il fenomeno dell’ignoranza non è solo una questione di lacune nella conoscenza storica, ma anche di percezione distorta della realtà. Secondo il Rapporto Ipsos sulle “Perception Gaps”, l’Italia è uno dei Paesi con il più ampio divario tra la percezione della realtà e i fatti oggettivi. Ad esempio, più della metà degli italiani ritiene che la criminalità sia aumentata rispetto agli anni 2000, quando in realtà i tassi di omicidi sono diminuibili del 39%. Allo stesso modo, la percezione dell’immigrazione è fortemente sovrastimata: gli italiani credono che circa il 21% della popolazione sia composta da immigrati, mentre la cifra reale si ferma a circa l’11%. Anche sul tema della ricchezza, la percezione è errata. Secondo il rapporto, gli italiani credono che l’1% più ricco della popolazione detenga il 51% della ricchezza totale, quando la quota effettiva è solo del 22%.
Il problema non riguarda solo l’accesso all’informazione o l’ignoranza scolastica. La distorsione della realtà ha ripercussioni dirette sulla democrazia. Secondo Ipsos, la sfiducia nelle istituzioni è crescente, e la manipolazione delle percezioni da parte di politici e media contribuisce ad alimentare una polarizzazione sociale che rende sempre più difficile il dialogo e la comprensione reciproca. L’ignoranza contribuisce a rafforzare visioni politiche semplicistiche, che non riescono a cogliere la complessità dei problemi e delle soluzioni.
In un contesto in cui le informazioni sono facilmente accessibili, ma sempre più frammentate e polarizzate, l’incapacità di decodificare correttamente ciò che accade intorno a noi mette a rischio il nostro stesso sistema democratico. È difficile prendere decisioni politiche informate o partecipare attivamente alla vita pubblica quando le percezioni individuali sono distorte da pregiudizi, miti e fake news. Il rischio è che i cittadini, invece di essere protagonisti di un processo democratico consapevole, diventino vittime di una manipolazione sociale che sfrutta la loro ignoranza percettiva
Demografica
“Di nuovo al seno, non ne ha mai abbastanza”, quando Katy...
Katy Perry ha dedicato una canzone a sua figlia.
Non stiamo parlando di What Makes a Woman né di Lifetimes, entrambe dedicate alla piccola Daisy, ma di una versione rivisitata di Roar con cui la cantante statunitense ha raccontato come cambia la vita di una donna con la maternità.
Daisy è nata il 26 agosto 2021 dalla relazione tra Katy Perry e Orlando Bloom, iniziata nel 2017.
Il “nuovo” testo di ‘Roar’
Era l’ottobre 2021 quando la cantante, ospite dell’Ellen Show, ha sfoderato il testo rivisitato di Roar, che in queste ore sta diventando virale sui social.
@katyperrycrave new songs are needed mom #katyperry #roar #daisy ♬ suono originale – katy crave
Katy Perry ha ricostruito le difficoltà della maternità scegliendo una forma simatica, ma con un contenuto reale.
Ecco le “nuove” parole del singolo uscito il 12 agosto 2013: “Passavo le notti a festeggiare e dormivo fino a tardi. So che la mia vita era davvero abbastanza fantastica. Potevo fare qualsiasi cosa, era incredibile. Poi è nata la mia bellissima bambina. Daisy è il regalo più grande del mondo, ma sono passata da dormire tanto a non chiudere occhio nemmeno per un secondo. La metto giù nella culla, ma lei si alza, ancora affamata, non ne ha mai abbastanza. Sento la sua voce, sento il suo suono, come un tuono farà tremare il terreno. La metto nella culla, ma lei si alza di nuovo, di nuovo al seno, non ne ha mai abbastanza. Sento la sua voce, sento le sue urla, ha il pianto della tigre, una combattente, urla per tutta la notte, non c’è modo di dormire perché sentirai il suo ruggito più forte, più forte di un leone. Lei è la mia bambina e io sentirò il suo pianto. Sentirai il suo pianto”. Poco prima della fine, il coro ha simulato il pianto di un bebè sostituendo le voci che accompagnano il pezzo originale.
Con la sua ironia, la rivisitazione di Katy Perry offre uno spaccato sulle difficoltà della maternità. Il costante riferimento all’assenza di sonno invita anche a riflettere sul complicato equilibrio vita privata-lavoro, che spesso costringe le donne a scegliere tra la carriera e la famiglia.
Le donne che faticano a fornire flessibilità temporale a causa delle esigenze della cura dei figli hanno un salario inferiore alla media, come dimostrato da uno studio dell’Institute for Fiscal Studies.
La dedica con Lifetimes
Non solo sonno perso, ma soprattutto un infinito amore. Lo scorso agosto, Katy Perry ha pubblicato il brano Lifetimes che “Racconta del trovare l’amore della propria vita, profondo e soddisfacente. Personalmente non credo che l’anima gemella debba essere sempre un partner. Può arrivare in diverse forme: un figlio, il tuo miglior amico, un animale domestico. Per me è mia figlia”, ha raccontato l’artista statunitense. Una dichiarazione di intenti chiara nelle parole del brano: “Baby, you and me. For infinity. My eternity”.
Nel 2021, la cantante si era espressa sul significato di essere donna, respingendo l’idea, ancora diffusa nella società, che il ruolo delle donne possa essere inquadrato in rigidi schemi sociali: “Descrivere cosa rende donna è sempre stato un mistero perfetto. Potresti metterci tutta la tua vita, ma non potresti descrivere cosa rende donna. E questo è ciò che rende una donna donna per me”, cantava Katy Perry nel singolo uscito il 20 agosto 2020.
Demografica
“Sporco italiano”, 18enne di Bressanone pestato da coetanei...
Di solito associamo il razzismo alle persone di colore, ma cosa succede quando la vittima è uno “sporco italiano”? Queste sono le parole rivolte da un branco di studenti altoatesini a un 18enne italiano, pestato nell’indifferenza generale durante quella che doveva essere una festa. Le macchie di sangue sono ancora evidenti fuori dal Forum di Bressanone, che sabato scorso ha ospitato un “Maturaball”, evento organizzato da studenti altoatesini per autofinanziarsi le gite scolastiche. Nella notte dell’11 gennaio, però, qualcosa è andato storto.
Bressanone, cosa è successo
A rovinare la festa è stato un gruppo di circa dieci giovanissimi di lingua tedesca, che, secondo le testimonianze, sarebbero arrivati dal vicino comune di Laion. Il branco stava aggredendo un ragazzo presente alla festa, quando Alex D’Alberto, uno studente-lavoratore brissinese di 18 anni, è intervenuto per difendere il minorenne diventando lui stesso la vittima: “Dreckwalscher!” (sporco italiano) gli urlano mentre lo picchiano. Il ragazzo ha riportato un trauma cranico, la frattura del pavimento orbitario e quella del setto nasale, per cui dovrà essere operato. La prognosi è di almeno 30 giorni. Poi lo attenderanno visite specialistiche per valutare la gravità delle conseguenze sulla vista.
Il padre della vittima, Renato D’Alberto, ha denunciato tutto e ora chiede giustizia: “Mentre lo tenevano fermo e gli sferravano calci alla testa lo chiamavano “sporco italiano”. Un’assurdità: lui è un ragazzo mistilingue che non ha mai fatto differenze di natura etnica o linguistica nelle sue amicizie”.
Otto ragazzi e una ragazza sono stati già individuati dai carabinieri di Bressanone, alcuni di loro hanno provato a contattare il padre della vittima per chiedere scusa. Per D’Alberto, però, non è il momento di fare passi indietro, sia nei confronti del branco, sia nei confronti degli altri presenti che “invece di intervenire si facevano i selfie”.
La separazione linguistica in Alto Adige
In Alto Adige/Südtirol, e in particolare nella provincia di Bolzano, la convivenza tra i gruppi linguistici italiano e tedesco è da sempre molto difficile.
Il sistema scolastico altoatesino è strutturato in tre reti separate per i gruppi linguistici italiano, tedesco e ladino. Questa separazione mira a preservare le identità linguistiche e culturali, ma ha sollevato critiche per la creazione di “gabbie etniche” che limitano l’interazione tra i gruppi e ostacolano il bilinguismo precoce. Inoltre, l’obbligo del bilinguismo per l’accesso a molti impieghi pubblici ha portato a discussioni sull’efficacia dell’insegnamento delle lingue nelle scuole e sulle opportunità offerte ai diversi gruppi linguistici. Un caso emblematico è quello della scuola primaria Goethe di Bolzano, dove nel 2024 è stata proposta la creazione di “classi speciali” per bambini di madrelingua non tedesca.
La commemorazione di Sepp Kerschbaumer
Il pestaggio di Alex D’Alberto è avvenuto a circa un mese di distanza dalla commemorazione del terrorista Sepp Kerschbaumer, fondatore del Bas, movimento separatista che negli anni ‘60 provocò decine di attentati dinamitardi in provincia di Bolzano.
A inizio dicembre scorso, in tutto l’Alto Adige sono apparsi manifesti che lo celebravano, con tanto di traliccio elettrico che esplode, uno dei “simboli” del terrorismo altoatesino: nella “notte dei fuochi” del 12 giugno 1961, in provincia di Bolzano, il Bas fece saltare a colpi di tritolo trentaquattro tralicci dell’elettricità.
L’acronimo Bas sta per Bedfreiungsausschuss Sudtirol, ovvero comitato per la liberazione del Sud Tirolo. A partire dagli anni ‘50 il movimento distribuì volantini per chiedere la separazione dall’Italia, ma nel decennio successivo passò alle azioni terroristiche.
Molti dei principali esponenti del Bas furono arrestati, mentre i militanti in libertà assunsero posizioni sempre più estreme fino ad uccidere carabinieri e militari della Guardia di Finanza.
Il movimento è convinto di portare avanti una battaglia giusta così come Sepp Kerschbaumer che in tribunale ha rivendicato tutte le accuse mosse a suo carico prima di essere condannato a 15 anni e 11 mesi. Il terrorista morì nel 1964 per un attacco cardiaco mentre stava scontando la pena nel carcere di Verona.
Nei decenni successivi, nelle valli del Sud Tirolo Kerschbaumer viene elevato a patriota altoatesino: “Grazie per la tua missione”, si legge sui manifesti. I volantini dello scorso dicembre e il pestaggio del giovane Alex dimostrano che la voglia di secessione e le discriminazioni sono ancora molto forti nel territorio altoatesino.