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Giovane Donna Sorridente Telefono Smartphone Social

Negli ultimi anni, i social media hanno trasformato il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con il mondo. Il fenomeno dell’oversharing, cioè l’abitudine di condividere ogni dettaglio della propria vita, è una delle espressioni più emblematiche di questa trasformazione. Ma cosa ci spinge a raccontare così tanto di noi stessi online? Perché sentiamo il bisogno di essere protagonisti della nostra esistenza anche davanti a un pubblico virtuale? Il professor Marco Cacioppo, ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università Lumsa di Roma, ha approfondito queste tematiche, spiegando come l’oversharing rifletta non solo una tendenza culturale, ma anche bisogni psicologici profondi.

Secondo Cacioppo, è fondamentale distinguere tra un uso problematico dei social media e una vera e propria dipendenza psicopatologica. “L’oversharing”, spiega, “è parte di una dinamica complessa ed estremamente rapida nel suo sviluppo con la quale non è sempre comodo stare al passo”. L’impulso a condividere è radicato nel desiderio di essere visti e accettati. La necessità di approvazione è diventata parte integrante delle esperienze quotidiane, rendendo i social una piattaforma per validare la propria identità. Questo bisogno di visibilità è strettamente legato al funzionamento delle dinamiche relazionali moderne: sentirsi “riconosciuti” attraverso un like o un commento trasforma il modo in cui percepiamo noi stessi e le nostre esperienze.

Cacioppo sottolinea inoltre come la tecnologia abbia ampliato il contesto relazionale, modificando radicalmente le nostre abitudini. “Dieci anni fa parlavamo di prossimità a distanza; oggi questo è un dato di fatto, soprattutto per i giovani. Con uno smartphone possiamo raccontare la nostra vita a una platea infinita, ma ciò comporta anche il rischio che un momento della nostra esistenza valga di più solo se condiviso”. In questa dinamica si intrecciano opportunità e criticità: la rivoluzione tecnologica offre connessione e visibilità, ma ridefinisce anche il valore delle esperienze personali.

I giovani e l’oversharing: una questione generazionale?

Se l’oversharing è un fenomeno trasversale, è nei giovani che assume caratteristiche peculiari. “I nativi digitali”, osserva Cacioppo, “sono abituati sin dall’infanzia ad essere esposti alla possibilità che la loro vita sia vissuta nel momento presente e, contemporaneamente, raccontata anche a chi non è presente in una relazione vis-à-vis attraverso la condivisione sui social da parte dei caregivers”. Questa esposizione precoce alla visibilità digitale ha normalizzato l’idea che la vita privata sia anche pubblica. Tuttavia, ciò non implica necessariamente una patologia: “Non parlerei di epidemia, ma di una diffusione culturale che riflette il contesto in cui gli adolescenti e i giovani adulti sono nati e cresciuti”.

Il bisogno di condividere è particolarmente marcato nelle fasi di sviluppo della propria identità. Gli adolescenti, in cerca di conferme, si affidano ai social media per misurare il proprio valore. “Un tempo”, sottolinea Cacioppo, “questa validazione arrivava dallo sguardo dell’altro o da una parola di approvazione. Oggi, invece, è rappresentata da un like o da una visualizzazione“. Questa dipendenza da conferme digitali può portare a conseguenze emotive significative, come insicurezze e sentimenti di inadeguatezza.

Le reazioni mancanti, ad esempio, possono essere percepite come un rifiuto. “Negli adolescenti, la mancata risposta a un contenuto postato viene letto come un’assenza di valore”, aggiunge Cacioppo. Questo genera un circolo vizioso di insicurezza e frustrazione, che può amplificare il bisogno di condividere sempre di più per ottenere conferme che non arrivano mai in modo definitivo.

I social come rifugio o trappola emotiva?

Negli ultimi anni, i social media sono stati definiti da alcuni come il “grande divano psicologico”, un luogo dove esprimere le proprie emozioni e fragilità. Tuttavia, Cacioppo invita a un’analisi più attenta di questa metafora. “Il crescente interesse per la psicologia e la salute mentale è sicuramente positivo”, afferma, “ma l’idea che l’oversharing possa essere una forma di autoterapia è discutibile”. Spesso, la condivisione eccessiva è un tentativo di regolare emozioni difficili o di compensare fragilità nell’autostima, ma raramente risulta essere una strategia efficace.

Il problema non è internet in sé, ma l’uso che ne facciamo. “Condividere troppo”, osserva Cacioppo, “può esporre le nostre vulnerabilità senza aiutarci realmente a elaborarle”. La ricerca di approvazione attraverso i social media può portare a dipendere sempre più da un sistema di validazione esterno, rendendo difficile un’autoregolazione emotiva autentica e autonoma. Questo meccanismo crea una sorta di cortocircuito tra il bisogno di essere visti e l’incapacità di costruire un’immagine stabile di sé.

Nonostante ciò, il lato positivo della crescente attenzione verso la salute mentale è il progressivo superamento di alcuni stigmi sociali. Parlare di emozioni sui social ha reso più accettabile il confronto con il disagio psicologico, anche se, secondo Cacioppo, non bisogna confondere questo con una reale comprensione o gestione del proprio benessere emotivo.

Confini e rischi dell’oversharing

Il limite tra condivisione sana e patologica è labile, e l’oversharing può diventare un problema quando compromette le relazioni interpersonali. “Se condividere online diventa più importante delle interazioni fatte in presenza”, spiega Cacioppo, “c’è un problema da affrontare”. Un esempio emblematico è il fenomeno del phubbing, ovvero ignorare chi ci sta vicino per concentrarsi sullo smartphone. “È paradossale”, riflette Cacioppo, “ma ignoriamo chi c’è per rivolgerci a chi non c’è”.

Secondo studi condotti dall’Università Lumsa, il phubbing si collega a retaggi familiari e relazionali poco coinvolgenti, che spingono gli individui a cercare connessioni emotive altrove. Questo comportamento si intreccia con l’oversharing, evidenziando come la ricerca di popolarità online spesso si sostituisca al bisogno di relazioni autentiche. “Condividere di più non significa avere una maggiore capacità di connessione emotiva, empatica, reciproca e profonda con gli altri”, avverte Cacioppo. Al contrario, può indicare una difficoltà nel costruire legami profondi e reciproci.

Il futuro digitale e l’intimità perduta

Cosa ci riserva il futuro? Secondo Cacioppo, è difficile fare previsioni, ma la speranza è che l’oversharing rimanga solo una delle tante modalità di utilizzo dei social media. In un’epoca in cui tutto sembra ruotare attorno ai like, il desiderio è che le interazioni “live” continuino a prevalere su quelle virtuali. “Un sorriso o una battuta di un amico”, conclude Cacioppo, “devono restare più desiderabili di un like per una foto postata sull’ultimo locale frequentato”. La vera sfida, quindi, è mantenere un equilibrio tra il mondo digitale e quello reale, senza perdere di vista ciò che rende unica la nostra umanità.

E per chi si rende conto di esagerare con la condivisione? Cacioppo suggerisce un esercizio di introspezione: “È importante prendere atto che non c’è più piacere nel condividere, ma forse più una pressione a farlo. Poi, se la persona non riesce a regolare in modo ottimale la propria compulsività è bene accendere una riflessione su quale bisogno esistenziale colma l’oversharing. Si sente sola? Si sente inesistente?”. Rispondere con sincerità a queste domande può essere il primo passo verso un uso più consapevole dei social. E se la difficoltà persiste, il professore non esita a consigliare di rivolgersi a uno specialista.

L’oversharing, conclude Cacioppo, è uno specchio della nostra società e delle sue contraddizioni. Saperlo gestire, senza demonizzarlo, può essere una chiave per una convivenza serena con le tecnologie che ci circondano. E, forse, per riconquistare un po’ della nostra intimità perduta.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Matrimoni gay in Thailandia, almeno duecento nozze nel...

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Matrimoni Gay Thailandia

Da ieri, 23 gennaio, in Thailandia sono legali i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Con l’entrata in vigore della legge il Paese è diventato il primo nel Sud-Est asiatico e il terzo in Asia, dopo Nepal e Taiwan, a riconoscere legalmente l’unione delle coppie omosessuali. Nella regione, Taiwan ha legalizzato i matrimoni gay nel 2019 mentre in Nepal il primo matrimonio Lgbtq+ è stato riconosciuto nel novembre 2023.

Dall’entrata in vigore della legge, almeno duecento coppie omosessuali si sono giurate amore eterno nel centro commerciale Siam Paragon a Bangkok. Tappeti rainbow, bolle di sapone, mazzi di fiori e coriandoli hanno accompagnato la festa delle coppie, di varie nazionalità, che sventolavano con orgoglio i loro certificati di nozze.

Matrimoni gay legali in Thailandia, l’emozione di Shinawatra

La prima ministra thailandese Paetongtarn Shinawatra, intervenendo al World Economic Forum di Davos, ha definito la legge “un successo collettivo” specificando che il provvedimento sul matrimonio ugualitario “segna l’inizio di una maggiore consapevolezza della società thailandese nei confronti della diversità di genere e della nostra accoglienza di tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dalla razza o dalla religione: tutti hanno diritto a uguali diritti e dignità”.

Dopo l’approvazione del Re Maha Vajiralongkorn, arrivata il 25 settembre scorso, gli attivisti per i diritti LGBTQ+ in Thailandia, avevano descritto questo traguardo come il coronamento di una lunga battaglia per l’uguaglianza. “Il diritto all’uguaglianza in Thailandia è iniziato,” dichiarò allora Danuphorn Punnakanta, portavoce del partito di maggioranza Pheu Thai e presidente del comitato che ha supervisionato la legge aggiungendo: “È solo l’inizio e seguiranno ulteriori leggi per i diritti e le libertà delle persone”.

Tra i primi a ufficializzare il proprio legame, gli attori Apiwat “Porsch” Apiwatsayree e Sappanyoo “Arm” Panatkool, che si sono uniti in matrimonio presso l’ufficio distrettuale di Phra Nakorn, nel cuore di Bangkok. “Possiamo amare, amare in modo equo e legale”, ha dichiarato Sappanyoo. “Ogni tipo di famiglia è bella così com’è”.

Cosa prevede la legge

La nuova legge rappresenta un passo avanti epocale per i diritti umani in Thailandia. Le coppie dello stesso sesso godono ora degli stessi diritti legali, finanziari e medici delle coppie eterosessuali. Sono garantiti diritti fondamentali come l’adozione, l’eredità, i benefici fiscali e la possibilità di prendere decisioni mediche per il partner. Cambiamenti significativi hanno interessato anche il Codice civile e commerciale: i termini tradizionali “uomini e donne” e “marito e moglie” sono stati sostituiti dai più inclusivi “individui” e “partner matrimoniali”.

Secondo Kittinun Daramadhaj, avvocato e presidente della Rainbow Sky Association of Thailand, “la Thailandia potrebbe diventare un modello per il mondo”, grazie alla sua legislazione inclusiva che promuove l’uguaglianza. Daramadhaj ha aggiunto che “in Thailandia esiste una vera uguaglianza nei matrimoni”, evidenziando l’importanza di questo risultato storico.

Impatti regionali e globali

La decisione della Thailandia ha un forte impatto non solo a livello nazionale, ma anche regionale e globale. Rappresenta un esempio per altri Paesi del Sud-Est asiatico, molti dei quali hanno legislazioni ancora restrittive nei confronti della comunità LGBTQ+. Inoltre, rafforza la reputazione della Thailandia come Paese progressista e leader nella tutela dei diritti umani.

“La bandiera arcobaleno sventola alta sulla Thailandia”, ha concluso la premier Shinawatra, invitando la comunità internazionale a seguire l’esempio thailandese per costruire società più inclusive. L’amore, ha dichiarato Sappanyoo Panatkool, è “equo e legale”, e ora può davvero riflettersi in tutti gli aspetti della vita, dalla creazione di una famiglia al pieno riconoscimento della dignità personale.

Il tentativo della Spagna

Sul tema è intervenuta recentemente anche la Spagna, dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale dal 2005 e rappresenta uno dei traguardi più significativi per i diritti Lgbtq+. Dopo essere stato confermato alla guida del partito socialista (Psoe) con oltre il 90% delle preferenze, il premier spagnolo Pedro Sánchez, ha annunciato l’intenzione di introdurre il matrimonio ugualitario in Costituzione, insieme al diritto all’aborto e al salario minimo.

La costituzionalizzazione di questo diritto confermerebbe l’impegno del Paese verso l’uguaglianza e la lotta contro ogni forma di discriminazione secondo un percorso già intrapreso dall’amministrazione Sanchez.

Differenze tra i matrimoni gay in Thailandia e l’unito civile italiano

A differenza del matrimonio tra persone dello stesso sesso in Thailandia, che garantisce pari diritti rispetto alle coppie eterosessuali, in Italia le unioni civili regolamentate dalla legge Cirinnà (Legge n. 76/2016) prevedono alcune limitazioni significative.

Le coppie unite civilmente non possono adottare bambini, se non in casi molto particolari attraverso la cosiddetta stepchild adoption, limitata ai figli biologici di uno dei due partner e soggetta alla valutazione dei tribunali. Inoltre, nonostante il riconoscimento giuridico, le unioni civili non includono il concetto di “fedeltà coniugale” tra gli obblighi reciproci.

In Thailandia, invece, le coppie dello stesso sesso possono adottare senza restrizioni, godono degli stessi diritti successori, fiscali e legali delle coppie eterosessuali e hanno pieno accesso alla tutela sanitaria e alle decisioni mediche. Un’altra differenza risiede nella terminologia: mentre in Italia la parola “matrimonio” è riservata esclusivamente alle coppie eterosessuali, in Thailandia il termine viene esteso universalmente a tutti i cittadini.

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Generazione AI, ecco il nuovo volto della scuola

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Intelligenza Artificiale Canva

Avete mai pensato che il futuro della scuola potrebbe passare attraverso algoritmi e robot? Non è un’idea futuristica, ma il cuore pulsante del dibattito globale che si celebra oggi, 24 gennaio, in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione. Quest’anno, il tema scelto dall’Unesco è tanto ambizioso quanto cruciale: “Intelligenza artificiale ed educazione: preservare l’agire umano in un mondo di automazione”. Se da un lato l’AI promette di rivoluzionare l’apprendimento rendendolo più inclusivo e personalizzato, dall’altro ci interroga profondamente: quanto spazio resta per l’umanità quando il maestro è un algoritmo?

Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito italiano, ha dichiarato su X che l’AI, se usata in sinergia con gli insegnanti, potrebbe abbattere barriere, creare opportunità e valorizzare i talenti di ciascuno.

Ma attenzione: l’obiettivo non è rimpiazzare i docenti, bensì amplificarne le potenzialità, come sottolinea anche Audrey Azoulay, Direttrice Generale dell’Unesco. Ecco allora che l’intelligenza artificiale si trova al crocevia tra speranze e sfide, in un panorama mondiale dove oltre due terzi degli studenti di scuole superiori nei Paesi ad alto reddito già utilizzano strumenti generativi di AI per studiare, ma solo il 10% delle scuole dispone di linee guida chiare per il loro uso.

Educazione e intelligenza artificiale

L’intelligenza artificiale ha il potenziale di trasformare il modo in cui apprendiamo. Pensate a piattaforme che personalizzano i percorsi educativi in base alle competenze individuali, tutor virtuali che aiutano gli studenti a colmare le lacune in tempo reale, o simulazioni che permettono di esplorare la storia, la scienza e l’arte in maniera interattiva e coinvolgente. Questo scenario non è fantascienza, ma una realtà già in sviluppo in molte scuole del mondo.

In Italia, tuttavia, il cammino è appena iniziato. Come rilevato dall’Unesco, solo una manciata di Paesi ha adottato linee guida nazionali sull’uso dell’AI in ambito educativo. Questo ritardo si scontra con una crescente pressione da parte degli studenti, che usano strumenti come ChatGPT per scrivere saggi, risolvere problemi matematici o migliorare le proprie competenze linguistiche. Ma l’assenza di un quadro regolamentare rischia di trasformare una straordinaria opportunità in un campo minato di rischi etici ed educativi.

Sfide etiche e sociali

Il grande nodo da sciogliere è: come bilanciare l’automazione con l’agire umano? Se da un lato l’intelligenza artificiale può semplificare il lavoro dei docenti, alleggerendo carichi burocratici e offrendo strumenti di analisi avanzati, dall’altro non possiamo ignorare il rischio di disumanizzare l’apprendimento. La scuola è un luogo di relazione, dove i docenti non si limitano a trasferire conoscenze, ma formano cittadini, trasmettono valori e favoriscono la crescita emotiva e sociale degli studenti.

Audrey Azoulay, nella sua dichiarazione per l’Unesco, ha sottolineato che l’AI deve restare uno strumento al servizio delle persone, non un sostituto. Questo è particolarmente importante in un momento in cui l’automazione rischia di escludere anziché includere, accentuando il divario digitale tra chi ha accesso alle tecnologie e chi ne è escluso. Basti pensare che ancora oggi, nel mondo, il 25% delle scuole primarie non ha accesso all’elettricità e il 60% non è connesso a Internet.

La sostenibilità come chiave per il futuro

Un altro aspetto centrale dell’educazione del XXI secolo è il suo legame con la sostenibilità. Qui l’intelligenza artificiale potrebbe giocare un ruolo cruciale. La Foundation for Environmental Education (FEE), organizzazione leader nell’educazione ambientale, promuove da anni programmi come Eco-Schools, che insegnano ai giovani a prendersi cura del pianeta. Immaginate cosa potrebbe fare l’AI in questo ambito: piattaforme educative che mostrano in tempo reale l’impatto delle nostre azioni quotidiane sull’ambiente, simulazioni climatiche avanzate o sistemi di monitoraggio che coinvolgano le scuole nella gestione consapevole delle risorse.

L’educazione ambientale e tecnologica, se integrate, potrebbero creare generazioni di studenti consapevoli e attrezzati per affrontare le sfide globali. Tuttavia, per farlo, serve un impegno concreto da parte dei governi, che devono garantire investimenti adeguati e una visione chiara su come implementare queste tecnologie nelle scuole.

Il ruolo dell’Italia e il futuro della scuola

L’Italia, come molti altri Paesi, si trova a un bivio. Da un lato, deve colmare il divario digitale e garantire l’accesso universale alle tecnologie; dall’altro, deve formare insegnanti e studenti a un uso responsabile dell’intelligenza artificiale. Questo significa non solo fornire infrastrutture adeguate, ma anche creare programmi di formazione che tengano conto degli aspetti etici, sociali ed educativi dell’intelligenza artificiale.

Come dimostrano i dati Unesco, i Paesi che stanno affrontando meglio questa sfida sono quelli che hanno investito sia nell’innovazione tecnologica che nella formazione dei docenti. La scuola del futuro non può essere un luogo in cui le macchine sostituiscono le persone, ma deve diventare un ecosistema in cui tecnologia e umanità collaborano per creare un’educazione più inclusiva, sostenibile e capace di valorizzare i talenti di ciascuno.

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Da oggi aumentano i prezzi delle sigarette, ecco i nuovi...

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Pacchetto Sigarette Canva

Da oggi, 23 gennaio 2025, aumentano i prezzi delle sigarette, dei tabacchi trinciati e dei sigari. Prosegue la politica di contrasto al fumo che sta portando a una lieve ma costante riduzione dei fumatori in Italia.

Gli incrementi variano in base alla tipologia di prodotto e non riguardano tutte le marche di sigarette e affini.

Nuovi prezzi sigarette

Il rincaro era già stato stabilito dalla legge di Bilancio 2023 prima di essere ritoccato dalla Manovra 2024 che ha previsto un incremento dell’accisa.

In particolare, la legge di Bilancio 2024 è intervenuta sulla componente fissa, salita da 28,20 euro ogni mille sigarette a 29,50 dal 2025. La Manovra 2023 prevedeva per lo scorso anno un aumento di “28,20 euro per 1.000 sigarette e, a decorrere dall’anno 2025, in 28,70 euro per 1.000 sigarette”. La successiva Legge di Bilancio ha portato l’incremento fino a 29,30 euro per 1.000 sigarette per l’anno 2024 e di 29,50 euro per 1.000 sigarette da quest’anno.

Concretamente, gli aumenti sono nell’ordine di 20-30 centesimi a pacchetto, meno del 5% rispetto ai prezzi di vendita attuali. Numeri ben lontani dall’aumento di 5 euro a pacchetto che era stato proposto dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), dalla Fondazione Aiom e da Panorama della Sanità per bilanciare i costi della sanità pubblica.

Qui la tabella pubblicata dal sito dell’Agenzia delle Dogane con i nuovi prezzi delle sigarette.

Qui i nuovi prezzi per il tabacco trinciato, utilizzato per le sigarette rollate (“drum” per i più giovani).

Qui i nuovi prezzi dei sigari.

Il divieto a Milano e la battaglia dell’Ue

Ancora prima dei nuovi prezzi delle sigarette in vigore da oggi, 23 gennaio 2025, il nuovo anno si era aperto con un’altra cattiva notizia per i fumatori. O almeno per quelli che si trovano a Milano, dove dal 1°gennaio è scattato il divieto di fumo all’aperto se non a una distanza di almeno dieci metri dalle altre persone. Una norma che riguarda la salute delle persone e dell’ambiente, dato che il 7% della CO2 presente nel capoluogo lombardo deriva dalle sigarette.

La stretta anti-fumo di Milano è in linea con il piano europeo di lotta contro il cancro che punta a creare, entro il 2040, una “generazione libera dal tabacco, nella quale meno del 5% della popolazione consumerà tabacco. Già nel 2009, il Consiglio Ue adottava la raccomandazione sugli ambienti senza fumo invitando i Paesi ad attuare leggi che proteggessero pienamente i cittadini dall’esposizione al fumo nei luoghi pubblici chiusi, al lavoro e nei trasporti pubblici.

Se l’esperimento milanese avrà successo, potrebbe ispirare analoghe politiche in altre città, ma il cambiamento è già iniziato in Ue dove ogni anno 700.000 persone perdono la vita a causa del consumo di tabacco. Di questi decessi, decine di migliaia sono provocati dal fumo passivo, come scrive la Commissione Europea sul proprio sito.
Lo scorso settembre Bruxelles ha avanzato la proposta di revisione della raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo e ha incoraggiato gli Stati membri a rafforzare la cooperazione internazionale per massimizzare l’impatto delle misure adottate nel territorio.

Un divieto che non piace agli italiani

Nonostante questi numeri, i divieti di fumo non piacciono agli italiani. Una fotografia chiara sul tema arriva dalla ricerca realizzata in esclusiva per Adnkronos tramite la piattaforma Socialdata.
Dopo aver analizzato circa 40 mila post e oltre 3 milioni di reazioni, il team di analisi di Socialcom ha evidenziato che il rapporto tra post negativi (44%) e positivi (4%) è di 10 a 1. In pratica, meno di un cittadino su 20 mostra online un atteggiamento favorevole al provvedimento meneghino, mentre quasi la metà degli utenti esprime posizioni critiche a riguardo.

Per approfondire i risultati della ricerca: Divieti di fumo, il web li boccia: cosa dicono i social, i dati

Quanti fumatori in Italia?

I dati dell’Istituto Superiore di Sanità tracciano un quadro articolato dell’andamento del tabagismo in Italia. Tra il 2015 e il 2022, i fumatori sono diminuiti da 11,5 milioni (22% della popolazione) a 10,5 milioni (20,5%). Un calo contenuto ma costante. Le ragioni di questa contrazione sono molte: campagne di sensibilizzazione, aumenti progressivi dei prezzi, restrizioni normative sempre più stringenti.

Il costo sociale del fumo

Il fumo provoca oltre 93.000 decessi annuali in Italia, più delle morti combinate di alcol, droga, incidenti stradali, AIDS, omicidi e suicidi. Un dato che colloca il contrasto al tabagismo come priorità di sanità pubblica. Il dato del 2022 corrisponde al 20,6% del totale delle morti tra gli uomini e al 7,9% tra le donne.

In Italia, il fumo costa ogni anno 26 miliardi di euro sul sistema sanitario, mentre il guadagno da monopolio è di circa 15 miliardi di euro. Anche per questo è necessario intervenire sul costo delle sigarette.

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