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Medicina: anestesisti-rianimatori Siaarti, Elena Bignami nuovo presidente

Succede ad Antonino Giarratano che ha guidato la Siaarti nel precedente mandato

Medicina: anestesisti-rianimatori Siaarti, Elena Bignami nuovo presidente

La Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) annuncia l'insediamento di Elena Bignami come nuova presidente della società scientifica per il triennio 2025-2027. Professore ordinario di Anestesiologia e Terapia intensiva e del dolore presso l'Università di Parma, Bignami succede ad Antonino Giarratano che ha guidato la Siaarti nel precedente mandato.

"Assumo questo incarico con grande senso di responsabilità e gratitudine - dichiara Bignami - Desidero ringraziare Giarratano e tutto il Consiglio direttivo uscente per l'eccellente lavoro svolto, che ha portato Siaarti a raggiungere traguardi significativi nel rafforzamento della nostra professione. La loro dedizione e visione hanno posto solide basi per un futuro radioso della nostra società scientifica". La nuova presidente ha delineato una visione inclusiva e collaborativa per il futuro della Siaarti: "Il nostro obiettivo è rafforzare ulteriormente la presenza internazionale della società, intensificando la collaborazione con le società europee Esicm ed Esaic. Puntiamo a sviluppare nuovi programmi di formazione continua attraverso piattaforme e-learning e corsi residenziali che valorizzino il percorso professionale dei nostri soci e delle nostre socie. Il Congresso nazionale Icare sarà ripensato come un evento sempre più inclusivo, che rappresenti tutte le anime della nostra disciplina".

Il nuovo Consiglio direttivo che affiancherà la presidente Bignami comprende Giacomo Grasselli che sarà vicepresidente, in quanto già eletto come presidente 2028-2030; Massimo Girardis guiderà il Comitato scientifico, mentre Stefano Romagnoli sarà responsabile del Comitato formazione. Franco Marinangeli dirigerà il Comitato congressi. Le aree culturali della società saranno coordinate da Edoardo De Robertis (Anestesia e Medicina perioperatoria), Carlo Alberto Volta (Rianimazione e Terapia intensiva), Silvia Natoli (Medicina del dolore e Cure palliative), Davide Colombo (Medicina critica dell'emergenza), Luca Martani (Medicina iperbarica) e Alessandro Simonini (Cure Materno-infantili).

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Emergenze sanitarie

Emergenza sanitaria in Congo: una misteriosa malattia...

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Kwango, una provincia dimenticata da molti. Qui non è solo il sole a pesare ma qualcosa di molto più oscuro. Una malattia, misteriosa e spietata, sta rubando vite. Non è una minaccia lontana ma un incubo concreto: 71 persone sono già morte e altre 380 stanno lottando: bambini piccoli, fragili, che non dovrebbero combattere guerre così. La malattia arriva veloce, senza avvertire. E il pensiero è uno solo: perché proprio qui? Perché sempre loro?

Una crisi che non concede tregua

La situazione è di quelle che ti lasciano senza parole, con un groppo in gola. Questa popolazione, già colpita duramente dall’epidemia di mpox, si trova ora a combattere con una malattia che non dà scampo. Gli ospedali? Stracolmi. I medici? Esausti, con le mani legate davanti a un nemico che avanza troppo in fretta. I sintomi – febbre alta, tosse incessante, vomito, mal di testa – non lasciano spazio alla speranza. Arrivano, si prendono tutto, e lo fanno in pochi giorni.

I bambini sono quelli che soffrono di più”, dice un medico, quasi con un sussurro, come se le parole pesassero troppo. La malnutrizione li ha resi deboli, fragili. Non hanno le forze per affrontare un mostro così aggressivo.

Questa crisi sta scavando dentro le famiglie, seminando paura, impotenza. Ogni giorno è un’agonia, ogni sintomo un allarme che spezza il fiato. E la gente? Lotta, ma la battaglia sembra persa in partenza.

Un popolo contro il tempo e le tradizioni

Provate a immaginare. Una comunità che da sempre vive seguendo le sue tradizioni, le sue credenze, il suo modo di dire addio ai propri cari. E ora? Ora quelle stesse tradizioni vengono viste come un pericolo, un rischio mortale. Le autorità, insieme all’OMS, stanno facendo il possibile per fermare il contagio. Ma non è semplice. Non si tratta solo di medicina ma di toccare corde profonde, intime. I rituali funebri, quei gesti che danno conforto in mezzo al dolore, potrebbero essere la causa della diffusione.

Bisogna evitarli, almeno per un po’”, dicono. E lo dicono con pesantezza, sapendo quanto sia difficile cambiare ciò che è radicato nel cuore di un popolo. Ma come fai a chiedere questo? Come fai a dire a una madre, a un fratello, di non toccare il corpo di chi hanno amato, di chi hanno appena perso? Cambiare queste abitudini è come scalare una montagna. Una montagna di dolore, paura, diffidenza. E mentre la malattia avanza, questa sfida sembra quasi impossibile.

Alla ricerca del nemico invisibile

Gli esperti non si fermano. Non possono fermarsi. Stanno cercando, senza sosta, di capire con cosa abbiamo a che fare. I campioni prelevati dai pazienti sono stati inviati a laboratori specializzati, ma è come cercare un ago in un pagliaio. Ancora nessuna risposta chiara. Solo domande, tante domande.

Capire chi o cosa stiamo affrontando è vitale”, dice un portavoce dell’OMS con quella voce tesa che non lascia spazio a dubbi. “Solo così potremo agire, curare, prevenire”. Ma il tempo, quel maledetto tempo, non aspetta. Ogni giorno che passa è una sofferenza in più. Una ferita che si allarga. Per loro, per le famiglie, per un popolo che guarda agli esperti con una speranza che fa male.

Uno sguardo oltre i confini del Congo

Questa emergenza non si ferma ai confini del Congo. Ha già fatto alzare il livello di allerta in diversi Paesi, Italia compresa. Il Ministero della Salute, preoccupato, ha rafforzato i controlli: nei porti, negli aeroporti, ovunque possa esserci il rischio di un contagio.

Non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Il pericolo che una malattia del genere arrivi in Europa è reale”, ha ammesso un funzionario italiano, con quella sincerità che ti fa stringere lo stomaco. La prevenzione, dicono, è la chiave. Noi viviamo in un mondo così connesso che quello che succede in una provincia lontana può trasformarsi in una minaccia globale nel giro di un soffio. Non è solo una crisi del Congo. È una crisi di tutti noi.

Una richiesta di solidarietà

Dietro i numeri, dietro le frasi formali, c’è una verità che fa male. Il sistema sanitario è a pezzi. Non ci sono antibiotici, non ci sono strumenti per fare diagnosi. Mancano i medici, quelli capaci, quelli che sanno cosa fare. E manca persino la strada. La strada, capite? Le famiglie devono camminare per ore, chilometri sotto il sole, con i figli malati in braccio, sperando, pregando, di trovare aiuto. “È una situazione disperata”, dice un volontario di una ONG con un tono che ti trapassa l’anima. E questa disperazione dovrebbe scuoterci tutti, farci alzare dalla sedia, spingerci a fare qualcosa.

Non possiamo girarci dall’altra parte

La verità è che il Congo non può farcela da solo. Non ci sono abbastanza risorse, medici, medicine. E il tempo? Il tempo è il nemico peggiore. Ogni attimo perso è una vita che scivola via, è un passo in più verso un disastro che non possiamo nemmeno immaginare.

Viviamo in un mondo in cui tutto viaggia veloce. E un focolaio come questo non conosce confini, non rispetta oceani o frontiere. Parte da Kwango e in un soffio può arrivare ovunque. Europa, Asia, dappertutto. E quando succede, è già troppo tardi.

Non possiamo restare a guardare. Non possiamo aspettare che siano “gli altri” a fare qualcosa. Ogni aggiornamento, ogni notizia che arriva da là, è un richiamo, è un pugno nello stomaco. Questa battaglia non è solo loro, è nostra. Ed è una battaglia che possiamo vincere solo insieme. Ma dobbiamo farlo ora. Non domani. Ora.

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Salute e Benessere

Ombre e filamenti alterano la vista di 8 italiani su 10,...

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Si chiamano miodesopsie o corpi mobili vitreali, ma sono conosciute anche come 'mosche volanti'. Miopi più a rischio

Occhio - Adnkronos

Capita quasi a tutti di vedere ombre o filamenti che fluttuano nel campo visivo: si chiamano miodesopsie o corpi mobili vitreali. Sono conosciute anche come ‘mosche volanti’ e alterano la nostra visione, spesso accompagnate da flash luminosi. Secondo le stime riguardano fino al 76% della popolazione generale, con un rischio di circa 4 volte più alto in chi è miope. I metodi più innovativi per la corretta diagnosi e per la terapia dei corpi mobili vitreali sono stati discussi dai massimi esperti internazionali durante il congresso Floretina Icoor 2024. L’eccessivo uso dello smartphone e le lunghe ore passate di fronte agli schermi dei computer potrebbero non essere estranee all’ampia diffusione di questo fenomeno.

Cosa sono e perché succede?

Stando ad alcune ipotesi la luce blu dei dispositivi elettronici potrebbe favorire la degenerazione del corpo vitreo alla base del problema, che spesso non ha conseguenze ma a volte è il primo sintomo di un distacco di retina."Le opacità del vitreo, percepite in genere come ombre o filamenti fluttuanti, dipendono da alterazioni nella struttura del corpo vitreo, la ‘gelatina’ che riempie l’interno dell’occhio e che è fondamentale per mantenerne la trasparenza e la stabilità meccanica", spiega Stanislao Rizzo, presidente di Floretina Icoor, direttore del Dipartimento di oculistica del Policlinico A. Gemelli Irccs e ordinario di Oculistica presso l’Università Cattolica di Roma - "Con l’avanzare dell’età, o anche in presenza di miopia elevata, il corpo vitreo subisce una progressiva liquefazione e può distaccarsi dalla parte posteriore dell’occhio, due fattori che contribuiscono alla formazione delle ‘mosche volanti’", aggiunge.

“Si tratta di opacità spesso innocue, ma si stima che nel 33% dei casi possano compromettere la visione e per esempio diminuire fino al 67% la sensibilità al contrasto", aggiunge Francesco Faraldi, direttore della Divisione di oculistica dell’azienda ospedaliera Ordine Mauriziano-Umberto I di Torino . "Anche se l’acuità visiva non è compromessa, ciò comporta un drastico peggioramento della qualità di vita: i pazienti lamentano difficoltà visive e un impatto negativo su attività quotidiane come la lettura o la guida. Inoltre, non devono essere sottovalutate perché possono essere il primo segno di un distacco della retina".

Nuove tecnologie in soccorso per la diagnosi

Fino a oggi la gestione dei corpi mobili vitreali è stata complicata anche perché non esistevano metodi standardizzati per documentarli e c’era un netto divario fra i sintomi riferiti dal paziente e ciò che l’oculista riusciva a osservare. Nuove tecniche di imaging stanno però finalmente cambiando la possibilità di diagnosi

"Le tecnologie di imaging dinamico del vitreo e di imaging a campo ultra-largo (ultra-widefield) integrate con scansioni Oct - continua Daniela Bacherini, ricercatrice in Malattie dell'apparato visivo presso il Dipartimento di Neurofarba dell’Università degli Studi di Firenze - consentono una visualizzazione più dettagliata di una struttura finora difficile da osservare, permettendo di analizzare con precisione la densità, la posizione e il movimento delle opacità vitreali. Le nuove tecnologie consentono di catturare dettagli tridimensionali e dinamici delle anomalie vitreali, migliorando significativamente la comprensione di ciò che i pazienti percepiscono come 'mosche volanti'".

"Tutto questo consente di uniformare le valutazioni e migliorare le diagnosi, fornendo dati oggettivi che possono essere correlati ai sintomi riferiti dai pazienti, oltre che essere utili per strategie di trattamento più efficaci e personalizzate. Oggi la vitrectomia mini-invasiva rappresenta un’opzione per i casi più gravi", conclude Rizzo.

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Salute e Benessere

Malattia misteriosa Congo, Rezza: “Letalità alta ma...

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"C'è grande attenzione e pure un po' di preoccupazione"

Provette in laboratorio (Fotogramma)

"Se un focolaio del genere si fosse visto in Europa o in Asia l’allerta sarebbe molto alta, perché non è normale avere malattie con questa letalità. In Africa, invece, eventi di quel tipo sono già capitati. La popolazione è debole, c’è uno scarso accesso ai servizi sanitari. In questo momento, quindi, c’è grande attenzione e pure un po’ di preoccupazione". Lo afferma in un'intervista a 'La Repubblica' Gianni Rezza, infettivologo ed epidemiologo professore al San Raffaele e già all’Istituto superiore di sanità e al ministero alla Salute, commentando la malattia misteriosa di origine sconosciuta che ha portato a oltre 70 decessi nella Repubblica democratica del Congo.

"Nessuno se la sente di escludere nulla. Cinque anni fa si parlava del Covid come di qualcosa che poteva succedere ma non c’erano certezze. Con i distinguo del caso, la precauzione vuole che non si escluda nulla. Però mancano ancora gli elementi di base per capire effettivamente quello che sta succedendo. L’allerta globale non c’è - sottolinea Rezza - ma bisogna tenere gli occhi aperti, giusto fare i controlli su chi arriva. Per ora c’è incertezza. I sintomi sono molto generici ma fanno comunque pensare a un problema respiratorio. Certo, la letalità è molto alta, con tantissimi decessi tra i bambini sotto i 5 anni, cosa molto grave. Si potrebbe pensare a una febbre emorragica ma dal punto di vista clinico la autorità sanitarie la riconoscerebbero, anche perché in Congo hanno esperienza di questo tipo di malattie".

L'infettivologo evidenzia come si siano ''già da subito attivati anche i Cdc, centri per il controllo delle malattie, africani. Abbiamo un sistema di allerta mondiale grazie al Covid. Senza quello il focolaio in Africa probabilmente sarebbe andato avanti. E invece un problema sanitario in un’area ristretta del mondo è salito alla piena attenzione internazionale", conclude Rezza.

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