Il 2024 segna una tappa piuttosto amara per l’Italia nella classifica mondiale di conoscenza dell’inglese. Nell’indice stilato da EF Education First, l’Italia si colloca al 46° posto su 116 paesi non anglofoni, un calo evidente rispetto alle posizioni degli anni precedenti. Questo piazzamento sottolinea una preoccupante tendenza negativa: nel 2023 il paese era al 35° posto, nel 2022 occupava il 32° posto, mentre nel 2011, primo anno dell’indagine EF, si trovava in una ben più promettente 23ª posizione. Un decennio di declino che riflette le difficoltà strutturali nel migliorare le competenze linguistiche a livello nazionale. Mentre i Paesi europei migliorano o mantengono buone posizioni – basti pensare alla Spagna, all’Ucraina o all’Albania – l’Italia sembra percorrere un sentiero discendente, lasciandosi superare non solo da vicini europei, ma anche da economie emergenti che investono maggiormente nell’apprendimento linguistico.
La geografia interna ci rivela un quadro diversificato ma disomogeneo. Al vertice della classifica italiana, troviamo ancora una volta il Friuli-Venezia Giulia, la regione che si distingue per la competenza media più elevata. La città di Verona, inoltre, si è distinta come la migliore d’Italia in termini di padronanza dell’inglese. Tuttavia, persiste una notevole disparità tra il Nord e il Sud del paese. Sebbene il divario tra le regioni migliori e peggiori in termini di competenze sia diminuito nel corso degli anni (passando da oltre 100 punti nel 2012 a circa 70 punti oggi), le differenze restano significative, segnalando un’Italia ancora spaccata sul fronte linguistico.
Giovani in calo, professionisti in crescita
Uno degli aspetti più interessanti dell’indagine riguarda l’evoluzione delle competenze in inglese per fasce d’età. L’analisi per età mostra che i giovani adulti, coloro che dovrebbero rappresentare il futuro del paese, stanno attraversando un periodo di stagnazione o addirittura di regressione nelle competenze linguistiche. Gli italiani tra i 18 e i 20 anni, ad esempio, mostrano un calo costante nel livello medio di inglese, con i punteggi che scendono sotto i livelli del 2019. Anche la fascia di età tra i 21 e i 25 anni non presenta miglioramenti significativi, rimanendo pressoché stabile negli ultimi anni. Dati che destano preoccupazione, poiché segnalano che i recenti diplomati non stanno raggiungendo competenze linguistiche sufficienti per competere a livello internazionale.
Diversa è la situazione per le fasce d’età superiori. I giovani professionisti tra i 26 e i 30 anni, così come quelli tra i 31 e i 40 anni, mostrano invece una tendenza al miglioramento. Questo gruppo demografico ha visto una crescita costante nel livello di padronanza dell’inglese, presumibilmente grazie all’esperienza professionale e alla maggiore esposizione a contesti internazionali. I dati sembrano suggerire che l’inglese viene acquisito e consolidato più efficacemente attraverso l’uso pratico sul lavoro piuttosto che attraverso il sistema educativo tradizionale. Anche gli adulti oltre i 40 anni hanno registrato un leggero miglioramento, anche se rimangono lontani dai livelli di competenza delle fasce più giovani.
Un altro dato rilevante emerso dall’indagine riguarda la differenza di competenze tra uomini e donne. In generale, gli uomini continuano a registrare un livello di conoscenza dell’inglese leggermente superiore rispetto alle donne. Questo divario, sebbene non sia estremamente marcato, suggerisce che potrebbe essere necessario un maggiore supporto per le donne nel campo dell’apprendimento delle lingue, specialmente nei contesti professionali.
L’impatto della pandemia e la necessità di investimenti
È importante anche considerare come la pandemia abbia influenzato le competenze linguistiche dei giovani. La fascia dei neodiplomati sembra aver subito un rallentamento nell’apprendimento, che molti esperti attribuiscono all’interruzione dei normali cicli educativi durante il periodo del Covid-19. L’apprendimento a distanza, seppur efficace in alcuni contesti, sembra aver avuto un impatto negativo sullo sviluppo delle competenze linguistiche, soprattutto per una lingua come l’inglese, che richiede pratica e interazione. Le università, al contrario, hanno mantenuto un livello stabile, e i giovani professionisti hanno continuato a migliorare, probabilmente grazie alla ripresa delle attività economiche e dei viaggi all’estero.
Natalia Anguas, amministratrice delegata di EF Italia, ha sottolineato l’importanza di investire nel sistema educativo per colmare questo divario. “Benché l’EF EPI di quest’anno mostri che il livello dell’inglese in Italia non riesca a crescere, resta fondamentale il ruolo di questa lingua nella comunicazione e nella cooperazione internazionale”, ha dichiarato Anguas.
Europa e mondo: dove si posiziona l’Italia?
La classifica globale, che si basa su test effettuati su oltre 2,1 milioni di adulti dai 18 anni in su, rivela che la competenza in inglese sta crescendo a livello mondiale, anche in regioni che storicamente non hanno mai considerato l’inglese una lingua prioritaria. Al vertice della classifica, con punteggi eccellenti, si trovano paesi come i Paesi Bassi (636 punti), la Norvegia (610 punti) e Singapore (609 punti), che si confermano leader grazie a un’accurata integrazione della lingua nel sistema educativo e a un’esposizione culturale costante. A questi si aggiungono altre nazioni europee, come la Svezia (608 punti) e la Danimarca (603 punti), che continuano a migliorare, dimostrando come un forte impegno educativo e culturale possa garantire un continuo progresso nella padronanza dell’inglese.
In un contesto globale, la posizione dell’Italia appare preoccupante. Sebbene il Paese continui a registrare incrementi nel numero di parlanti, la sua posizione nella classifica mondiale è tutt’altro che brillante. Con 528 punti, l’Italia si colloca al 46° posto, tra il Paraguay e la Bolivia, due Paesi dell’America Latina con contesti socio-economici molto diversi, il che rende ancora più evidente il gap che separa l’Italia dai principali Paesi europei. Questo dato solleva interrogativi sull’efficacia delle politiche linguistiche adottate e sull’adattamento del sistema educativo alle esigenze globali di oggi. Nonostante gli sforzi per migliorare la conoscenza dell’inglese, come i programmi di bilinguismo e le iniziative di scambio, l’Italia fatica ancora a colmare il divario con altre economie avanzate.
Scorrendo la classifica europea, il divario diventa ancora più marcato. La Croazia (5° con 607 punti) e il Portogallo (6° con 605 punti) si distinguono come Paesi con una padronanza dell’inglese eccellente, non solo per le politiche educative efficienti ma anche per una cultura che incoraggia la pratica della lingua. Anche nazioni meridionali come la Spagna (36° con 538 punti) e la Grecia (8° con 602 punti) superano l’Italia, nonostante abbiano sfide simili in termini di esposizione culturale e di utilizzo dell’inglese nel quotidiano. Questi risultati mettono in evidenza un dato cruciale: l’Italia non solo non migliora, ma sembra anche essere superata da Paesi che, storicamente, non avevano lo stesso livello di competenza linguistica.
L’Italia si trova quindi in una posizione intermedia, distante dai Paesi di testa, ma ancora lontana da quelli che potrebbero sembrare comparabili. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle comparazioni tra le economie maggiori. Mentre nazioni come la Germania (10° con 598 punti) e l’Austria (9° con 600 punti) continuano a primeggiare in Europa con punteggi elevati, l’Italia non riesce ad avvicinarsi a questi standard. Al contrario, Paesi come la Romania (12° con 593 punti) e la Bulgaria (16° con 586 punti) hanno raggiunto risultati notevoli, mettendo in discussione la capacità dell’Italia di rispondere adeguatamente alle sfide globali.
In un contesto internazionale, l’Italia si ritrova a competere con Paesi dall’economia in crescita, ma con condizioni socio-culturali assai differenti. Paesi come il Kenya (19° con 581 punti) e l’Ucraina (40° con 535 punti) stanno migliorando la loro competenza linguistica, pur partendo da un contesto economico e culturale meno favorevole. Questo rende ancora più evidente il ritardo dell’Italia, non solo rispetto ai Paesi scandinavi e dell’Europa occidentale, ma anche rispetto a nazioni che storicamente non hanno investito altrettanto nell’insegnamento dell’inglese.
La domanda, quindi, è legittima: come mai l’Italia, pur essendo una delle maggiori economie dell’Unione Europea, non riesce a colmare il gap con i suoi vicini? Nonostante le politiche educative, gli investimenti in programmi linguistici e la crescente importanza dell’inglese nel mondo del lavoro, il Paese sembra non riuscire a rimanere al passo con le altre nazioni europee, un fattore che potrebbe avere conseguenze significative in termini di competitività globale e attrattività economica.
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Come il tempo per sé può rendere migliori i genitori (e i...
Negli ultimi anni, il concetto di co-genitorialità ha suscitato un acceso dibattito, non solo tra gli esperti, ma anche tra i genitori stessi. Si tratta di un modello che prevede una suddivisione paritaria della custodia dei figli tra i genitori separati o divorziati, un’alternativa alla tradizionale figura della madre o del padre “principale”. Questo approccio mira a garantire che entrambi i genitori abbiano un ruolo attivo nella vita dei bambini, ma offre anche opportunità inaspettate per il benessere dei genitori stessi, come dimostra la storia di Lucy Parker, una donna che ha scelto di non vedere i suoi figli ogni giorno, per il bene della sua famiglia e della sua salute mentale.
Lucy, 35 anni e originaria di Maidenhead, Berkshire, ha creato un ampio dibattito sui social media quando ha dichiarato che non si sente una “cattiva madre” per non voler vedere le sue figlie di 6 e 4 anni ogni giorno. In un video diventato virale su TikTok, ha raccontato di come la sua routine di co-genitorialità, che prevede la suddivisione equa della custodia con il suo ex marito, le permetta di essere una madre più presente, ma anche di ritrovare sé stessa. L’idea di condividere il carico della genitorialità con l’ex coniuge, di fatto, ha trasformato la sua esperienza di madre, permettendole di godere di tempo per sé stessa, di dedicarsi alla sua carriera di content creator e di riprendere alcune passioni personali come i viaggi.
Un equilibrio tra vita privata e genitorialità
La co-genitorialità, nella sua forma ideale, permette a entrambi i genitori di avere la possibilità di prendersi cura di sé stessi, senza sentirsi sopraffatti dal peso di una custodia esclusiva. Lucy ha espresso con chiarezza come il suo nuovo equilibrio le abbia consentito non solo di concentrarsi sul lavoro, ma anche di recuperare le energie per essere una madre più attenta e presente quando si trova con le sue figlie. “Non penso che non voler stare con i tuoi figli h24, sette giorni, su sette, ti renda una cattiva madre”, ha dichiarato, sottolineando come il tempo separato sia una risorsa e non una carenza. Questo pensiero, che potrebbe sembrare rivoluzionario, è in realtà una necessità per molti genitori che vivono l’esperienza della separazione come un’opportunità per ricostruire un’identità individuale, oltre il ruolo di madre o padre.
Questa visione della genitorialità, che promuove una suddivisione equa degli impegni e un recupero di spazi e tempi per sé stessi, sta prendendo piede in molte realtà familiari, ma non è esente da critiche. Alcuni genitori e osservatori ritengono che ammettere pubblicamente di non voler vedere i propri figli ogni giorno sia una manifestazione di egoismo, un comportamento che “rompe il cuore” e che potrebbe minare l’idea di famiglia tradizionale. Tuttavia, come sottolineato da Lucy, la separazione e la condivisione della custodia non devono essere viste come un fallimento della maternità, ma piuttosto come un’opportunità per garantire un benessere condiviso. Anche i bambini, infatti, non sono privati dell’affetto e della presenza materna, ma imparano a vivere in un contesto di genitorialità sana e paritaria.
I benefici psicologici e sociali della co-genitorialità
Il racconto di Lucy suggerisce che la co-genitorialità non solo aiuta i genitori a ritrovare un equilibrio tra la vita privata e quella familiare, ma offre anche numerosi vantaggi per i bambini. Le figlie di Lucy, infatti, pur non vivendo con lei ogni giorno, sembrano vivere serenamente la separazione dei genitori, beneficiando della presenza equilibrata di entrambi. Secondo Lucy, le sue bambine, pur vivendo in “due case felici”, hanno sviluppato una relazione affettuosa e stabile con entrambi i genitori, senza soffrire la mancanza di uno dei due. “Le piccole non imparano solo l’importanza di prendersi cura di sé stesse, ma riescono a mantenere un saldo rapporto anche con la figura paterna”, ha affermato. Questo approccio permette ai bambini di vivere in un ambiente familiare più sereno, con una separazione che non viene vissuta come una frattura traumatica, ma come una riorganizzazione che offre loro nuove opportunità emotive.
Inoltre, la decisione di non chiamare le sue figlie durante il periodo in cui sono con il padre, per evitare un’‘intromissione’ che potrebbe destabilizzare il loro equilibrio, rappresenta un aspetto fondamentale di questa nuova dinamica familiare. La chiarezza nella separazione dei ruoli genitoriali aiuta a mantenere una stabilità emotiva nei bambini, che non sono esposti a conflitti o a sensazioni di colpa. Questo modello non significa, come alcuni potrebbero pensare, che i legami familiari vengano indeboliti, ma al contrario, che vengano rafforzati, poiché ogni genitore è in grado di offrire il proprio affetto in modo più consapevole e rilassato.
Una tendenza che si scontra con la realtà italiana
Mentre il co-parenting è sempre più riconosciuto e praticato in diverse culture, la sua applicazione in Italia presenta delle sfide significative. La tradizione culturale italiana, infatti, tende a privilegiare un modello familiare più tradizionale, in cui la madre è spesso vista come la figura primaria nella cura dei figli, mentre il padre ha un ruolo di supporto, ma non sempre è coinvolto in modo paritario nella gestione quotidiana della famiglia. Il co-parenting, dunque, potrebbe sembrare una pratica estranea, soprattutto in una società che associa ancora fortemente la maternità alla figura femminile e che tende a stigmatizzare l’idea di un genitore che sceglie di prendersi una pausa.
Tuttavia, con il crescente numero di separazioni e divorzi in Italia, l’adozione di modelli come quello di Lucy Parker potrebbe rappresentare una svolta positiva per molte famiglie. I benefici psicologici di una gestione equilibrata della genitorialità, che offre a ciascun genitore il tempo di prendersi cura di sé e di lavorare sulla propria crescita individuale, sono innegabili. Ciò potrebbe anche aiutare a ridurre il conflitto tra i genitori e, di conseguenza, l’impatto negativo sui figli. Resta però da capire quanto la società italiana sia pronta ad accogliere e ad adattarsi a questi nuovi modelli, che potrebbero sembrare in contrasto con la tradizione, ma che potrebbero anche rappresentare una risorsa fondamentale per il benessere familiare.
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La Norvegia ha esteso l’aborto fino alla 18ma settimana (e...
La Norvegia ha esteso la possibilità di abortire legalmente fino alla 18ma settimana di gravidanza. Il precedente limite era di 12 settimane, come in Italia (con eccezioni in casi particolari, dove proseguire la gestazione può essere pericoloso per la madre e/o il nascituro).
Con il voto del 3 dicembre scorso, il Parlamento norvegese ha approvato a larga maggioranza un progetto di legge presentato dal governo di centrosinistra (in minoranza tra i deputati), che sostituirà la normativa del 1978.
Aborto in Norvegia, cosa cambia
Prima della nuova legge in Norvegia era possibile abortire oltre la dodicesima settimana, ma solo con l’approvazione di un comitato di valutazione composto da due medici, di cui uno uomo e l’altra donna. Approvazione che è sempre arrivata, tranne rari casi.
Il Parlamento ha votato a favore anche per estendere alla 18ma settimana la possibilità di ridurre il numero di feti in caso di gravidanza multipla. La nuova normativa prevede, inoltre, che sia possibile abortire anche oltre la 18ma settimana di gravidanza ma comunque entro la 22esima.
Questo è il limite oltre il quale il feto è potenzialmente in grado di vivere al di fuori dell’utero materno, una condizione chiamata “viabilità del feto”. Anche in questo caso, per andare oltre il limite standard (che passa da 12 a 18 settimane) c’è bisogno del parere favorevole di due medici.
Proprio la vitalità del feto è al centro delle critiche degli oppositori secondo cui autorizzare gli aborti tardivi equivarrebbe a “eliminare il paziente” piuttosto che a “eliminare la sua malattia”.
I deputati favorevoli alla legge hanno invece sottolineato la natura conservatrice e paternalistica della legislazione precedente che non dà alle donne il “pieno controllo sul proprio corpo”.
Parole che ricordano quelle di Melania Trump, che nelle sue memorie si è schierata a favore del diritto all’aborto, e ora sarà nuovamente first lady durante il mandato Trump-Vance, forse il più conservatore della storia americana.
I numeri degli aborti in Norvegia
Per le associazioni Pro vita estendere il diritto di aborto può far schizzare i numeri di Ivg, ma i numeri della Norvegia dicono altro. Come riporta l’Istituto norvegese di sanità pubblica relativamente al 2023:
- l’83,7% delle interruzioni volontarie di gravidanza registrate in Norvegia sono avvenute prima della nona settimana di gravidanza;
- solo il 4,7% degli aborti volontari si è verificato oltre la 12a settimana con l’approvazione dei due medici.
Anche nella vicina Svezia è possibile abortire fino alla 18ma settimana di gravidanza. Nella stessa direzione vuole andare la Danimarca che ha annunciato l’intenzione di estendere il limite legale da 12 a 18 settimane in base a una nuova legge che, se approvata, entrerebbe in vigore il 1° giugno 2025. Nell’Europa occidentale, i Paesi che consentono gli aborti più tardivi sono il Regno Unito e i Paesi Bassi (24 settimane) e l’Islanda (22 settimane).
L’orientamento Ue
Tra i ventisette Paesi Ue, il termine per abortire legalmente varia dalle 10 settimane del Portogallo alle 24 settimane dei Paesi Bassi. La maggior parte dei Paesi ha fissato il limite a 12 settimane e lo stesso vale a livello globale. Spagna e Austria consentono l’aborto fino a 14 settimane, mentre in Bulgaria, tranne casi particolari, è possibile abortire entro la dodicesima settimana di gestazione.
C’è poi il caso di Malta e Polonia, con una forte tradizione cattolica, dove il quadro giuridico è altamente restrittivo per l’aborto.
A livello comunitario, l’11 aprile scorso gli eurodeputati hanno sollecitato il Consiglio affinché inserisse il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
La risoluzione, approvata con 336 voti favorevoli, 163 contrari e 39 astensioni, ha valore politico, ma non è vincolante. I deputati hanno chiesto la modifica dell’articolo 3 della Carta per affermare che “ognuno ha il diritto all’autonomia decisionale sul proprio corpo, all’accesso libero, informato, completo e universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai relativi servizi sanitari senza discriminazioni, compreso l’accesso all’aborto sicuro e legale”.
La risoluzione esorta i Paesi europei a depenalizzare completamente l’aborto in linea con le linee guida dell’Oms del 2022 e a combattere gli ostacoli all’aborto. In particolare, si invitano Polonia e Malta ad abrogare le leggi e le altre misure nazionali che ne limitano il diritto.
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Natalità, Pellicer: “Dobbiamo promuovere la fertilità, la...
“Il tema di fondo è che c’è una mancanza di figli e che l’Italia è campione d’Europa nel non avere figli. Dobbiamo fare una promozione della fertilità. La PMA non risolve il problema ma, come diciamo in Spagna ‘tutta la pietra fa parete’, ovvero la PMA può dare il suo contributo”. Il professor Antonio Pellicer, presidente e fondatore dell’Instituto Valenciano de Infertilidad (IVI), in un’intervista all’Adnkronos, parla dei passi in avanti fatti e dei prossimi obiettivi della ricerca nel campo della riproduzione.
Lo fa partendo dai dati, che aiutano a individuare il perimetro nel quale muoversi. “L’infertilità è un problema che riguarda il 15% delle coppie in età fertile. Per quanto riguarda l’applicazione delle tecniche di PMA, la Spagna, insieme alla Danimarca, è il Paese che la utilizza di più. Un paragone facile: in Spagna la percentuale dei bimbi che nascono con la PMA è il 10% del totale, in Danimarca l’11%, in Italia il 4 o il 5%”.
Il passo successivo è chiedersi quali siano i motivi di “un livello di penetrazione molto diverso”. Il tema, premette Pellicer, “non è economico, perché in Italia si può fare la PMA con il contributo pubblico attraverso le strutture convenzionate. Penso invece – prosegue – che ci sia un tema culturale che ha bisogno di tempo per essere risolto e si lega al tema della comunicazione, delle informazioni disponibili”. Anche sul piano normativo, ci sono differenze. “In Italia non si possono trattare le donne single e non è possibile la donazione degli embrioni: se una coppia ha avuto figli, non ne vuole avere altri e ha embrioni congelati non li può donare ad altre coppie perché non è autorizzata”. Pellicer parla di “una differenza sostanziale” perché “comporta due problemi addizionali: se gli embrioni congelati non si utilizzano si accumulano e questo, evidentemente, non è giusto; l’impianto di embrioni donati è molto meno costoso e contribuisce a risolvere il problema economico. Dobbiamo vederla come un’adozione potenziale“.
Il fondatore di IVI vuole anche evidenziare che si sta parlando di un problema di salute. “Essere infertili dal 2008 è considerata una malattia per l’Oms. È un problema di salute come gli altri e si deve prendere con serietà. Dobbiamo dire che i medici servono per aiutare le persone. E con la PMA abbiamo fatto dei grandi passi in avanti”.
Pellicer ricorda il film Joy, disponibile da pochi giorni su Netflix. Racconta la storia di Louise Joy Brown, la prima bambina nata da fecondazione in provetta il 25 Luglio del 1978 a Oldham, in Inghilterra. Questo anche per rassicurare tutti sulla totale equivalenza scientifica tra un figlio nato con PMA e uno con concepimento naturale. “I bimbi con la PMA si fanno dal 1978. Ci sono più di 45 anni di storia con milioni di bambini nati perfettamente sani nel mondo. Non esiste alcun rischio legato alla PMA diverso da quelli con il concepimento naturale. C’è solo una raccomandazione da farci, non rendere troppo grande la sfida alla natura: può avvenire quando in presenza di sperma ‘cattivo’ vengono applicate tecniche di PMA perché c’è il rischio di trasmettere malformazioni e patologie maschili”.
Guardando invece alla ricerca, il professor Pellicer indica “due grandi sfide: la prima riguarda le percentuali di successo di ogni impianto. Un embrione sano oggi dà una possibilità di gravidanza che non supera il 65%, c’è ancora un 35% su cui si può lavorare. Non abbiamo ancora capito se l’embrione deve avere altre caratteristiche, oltre a quelle morfologiche e cromosomiche. Dobbiamo fare ricerca sul metodo di selezione embrionaria e scegliere gli embrioni che abbiano il potenziale massimo di portarci a una gravidanza”. L’altro fronte aperto, prosegue, “è il ringiovanimento degli ovuli. Iniziano a rovinarsi a 38 anni e a 45 anni nessun ovulo o quasi è sano. Dopo tanta ricerca, abbiamo capito che dobbiamo lavorare sull’ovulo. Mi auguro che un giorno saremo in grado di ringiovanire gli ovuli delle donne over 39”.
Ultimo tassello dell’analisi di Pellicer, l’immancabile ‘orologio biologico‘. “Oggi considerando che la massima fertilità è a 24 anni, dobbiamo lavorare sul congelamento degli ovuli per il futuro. Non abbiamo un altro metodo e sarebbe bene che le ragazze diventassero più consapevoli della possibilità che hanno a quell’età di garantirsi un futuro sereno”.