Allarme Norovirus Kawasaki: tutto quello che dobbiamo sapere su questa nuova minaccia per la salute pubblica
Ultimamente, il Norovirus Kawasaki sta diventando una vera e propria preoccupazione in Europa. Cioè, fino a qualche mese fa chi ne aveva mai sentito parlare? Nessuno, diciamolo. E adesso è ovunque. Se ne parla tanto, soprattutto nel Regno Unito, dove le infezioni stanno letteralmente esplodendo. Una cosa impressionante. Ma che cos’è esattamente questo Norovirus Kawasaki e perché ci riguarda tutti? Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Un virus che arriva da lontano: il Norovirus Kawasaki
Tutto è iniziato a Kawasaki, città del Giappone da cui il virus prende il nome. Allora, scoperto nel 2014, il Norovirus Kawasaki è una sorta di versione ancora più tosta del norovirus che già conosciamo. Insomma, come gli altri norovirus, va a colpire soprattutto l’apparato gastrointestinale ma questo è un po’ una “bestia diversa”. Sì, perché la sua contagiosità è proprio fuori dal comune. Rispetto ai norovirus più comuni, questo ceppo è molto più aggressivo, capace di adattarsi rapidamente e di persistere a lungo nell’ambiente, rendendone il contenimento una sfida.
Sintomi intensi e rapidità di contagio
È difficile ignorare il Norovirus Kawasaki, specialmente per chi ha avuto la sfortuna di esserne contagiato. I sintomi? Arrivano in meno di 12 ore, veloci e furiosi. Quando ti colpisce, lo fa senza mezzi termini. Prima nausea e vomito improvvisi e poi, se non bastasse, arriva la diarrea acquosa, crampi addominali che ti piegano in due e un malessere generale che ti svuota. Ti lascia esausto e a volte questa sensazione rimane per giorni. Nei casi peggiori, compare pure un po’ di febbre ma il vero pericolo è la disidratazione, specie per i bambini e gli anziani.
Questo ceppo è più complicato dei norovirus “classici”. I sintomi sono più intensi e spesso serve l’aiuto di un medico per evitare che le cose peggiorino. Certo, in genere dopo 24-72 ore passa tutto ma il corpo ne esce distrutto e la stanchezza può durare parecchio.
Come si diffonde il Norovirus Kawasaki?
Parliamo chiaro: questo virus è un maestro della sopravvivenza. Contatto diretto con persone infette, superfici contaminate, alimenti e acqua contaminati sono tutte vie di trasmissione del Norovirus Kawasaki. Non serve molto: basta un minimo contatto con particelle virali per essere infettati. E il virus è decisamente resistente. Può sopravvivere per giorni su superfici come maniglie, telefoni, tavoli, anche se apparentemente puliti.
Non dimentichiamo poi che è molto abile anche nell’infettare tramite alimenti. Cibi preparati senza la giusta attenzione igienica possono diventare un veicolo perfetto per il virus, rendendolo estremamente difficile da tenere sotto controllo.
Il Regno Unito è in allarme… e l’Italia?
Allora, in UK la situazione è davvero preoccupante. Parliamo di un aumento del 41% rispetto all’anno scorso, con più di 2.400 persone colpite. La variante GII.17 sta facendo discutere, visto che ormai è responsabile del 70% dei casi. Le autorità sanitarie britanniche hanno già lanciato l’allarme e stanno dicendo a tutti di stare attenti: niente contatti ravvicinati con chi è malato e, se senti i primi sintomi, meglio restare a casa per evitare di contagiare gli altri.
E qui in Italia? Per ora la situazione non è così grave ma meglio non abbassare la guardia. Il Ministero della Salute sta tenendo d’occhio la situazione, soprattutto in posti come scuole e ospedali, dove il rischio di contagio è più alto. Sì, i numeri sono ancora bassi ma la prudenza non è mai troppa.
Prevenzione: un’arma fondamentale
Sì, lo sappiamo, lavarsi le mani è uno di quei consigli che si sentono sempre, fino allo sfinimento. Ma davvero, in questo caso fa tutta la differenza del mondo. Lavarsi le mani, insomma, è fondamentale per evitare di beccarsi il Norovirus Kawasaki: acqua e sapone, lavaggi fatti bene, spesso, soprattutto dopo essere stati in bagno o prima di mangiare qualcosa. Non è da prendere alla leggera, fidatevi.
E poi, diciamocelo, disinfettare le superfici è altrettanto importante. Non è che basta passare uno straccio umido e via, tutto a posto. No, servono disinfettanti specifici, perché questo virus resiste ai soliti prodotti da supermercato. Anche in cucina bisogna stare attenti: lavare bene frutta e verdura, cuocere tutto alla giusta temperatura e mantenere puliti utensili e superfici. Sono piccoli dettagli ma fanno davvero la differenza.
Ma se ci si ammala, che si fa? Isolarsi, isolarsi e ancora isolarsi, niente contatti con altri per almeno 48 ore dopo che i sintomi sono spariti, altrimenti si rischia di contagiare tutti. Poi, bere tanto è fondamentale, soprattutto per i bambini e gli anziani. Non serve esagerare, meglio piccoli sorsi ma frequenti e se proprio serve, si possono usare quegli integratori reidratanti. Insomma, bisogna fare molta attenzione.
Non esistono cure specifiche ma possiamo gestire i sintomi
Al momento, non ci sono antivirali specifici contro il Norovirus Kawasaki. La gestione è prettamente sintomatica: prevenire la disidratazione è la priorità. Soluzioni reidratanti orali o, nei casi più gravi, intravenose possono fare la differenza. Per febbre e dolori addominali si possono utilizzare antipiretici e antispastici ma attenzione: i farmaci antidiarroici sono sconsigliati, perché rischiano di prolungare l’infezione.
Perché la sensibilizzazione è fondamentale?
Quello che rende il Norovirus Kawasaki davvero pericoloso non è solo che si diffonde facilmente ma è anche che in tanti non sono consapevoli del rischio. Molti focolai si verificano per comportamenti distratti, come lavarsi male le mani o non fare attenzione quando si preparano gli alimenti. Ecco, è per questo che è così importante che tutti sappiano come fare a prevenirlo. Bisogna parlarne, informarci, fare in modo che queste informazioni arrivino a più persone possibile.
Le campagne informative devono arrivare dappertutto ma proprio ovunque: scuole, uffici, posti di lavoro, parchi… insomma, ovunque ci siano persone. Non basta che medici e infermieri sappiano cosa fare, anche noi, tutti noi, dobbiamo essere informati, consapevoli, attenti. Perché alla fine, siamo noi che possiamo fare davvero la differenza. Solo così, con tutti che fanno la propria parte, possiamo provare a contenere questa minaccia.
L’importanza della collaborazione
Il Norovirus Kawasaki non è solo un virus gastrointestinale, è molto di più. È una sfida complicata, c’è poco da fare e serve l’aiuto di tutti: istituzioni sanitarie, noi cittadini e anche i media. La prevenzione è l’arma più potente che abbiamo, davvero. Sì, lo sappiamo, lavarsi le mani, pulire bene le superfici, stare attenti a come si maneggia il cibo… sembrano cose banali ma fanno tutta la differenza del mondo.
Non possiamo permetterci di prenderla alla leggera, non ora. Questo virus si diffonde in fretta, troppo in fretta e sta mettendo sotto pressione i sistemi sanitari come non mai. Dobbiamo agire e dobbiamo farlo adesso, con testa, con responsabilità. È l’unico modo per limitare i danni e tenere sotto controllo questa emergenza. Facciamolo, ognuno di noi deve fare la propria parte. Solo così possiamo superare anche questa sfida, tutti insieme.
Emergenze sanitarie
Emergenza sanitaria in Congo: una misteriosa malattia...
Kwango, una provincia dimenticata da molti. Qui non è solo il sole a pesare ma qualcosa di molto più oscuro. Una malattia, misteriosa e spietata, sta rubando vite. Non è una minaccia lontana ma un incubo concreto: 71 persone sono già morte e altre 380 stanno lottando: bambini piccoli, fragili, che non dovrebbero combattere guerre così. La malattia arriva veloce, senza avvertire. E il pensiero è uno solo: perché proprio qui? Perché sempre loro?
Una crisi che non concede tregua
La situazione è di quelle che ti lasciano senza parole, con un groppo in gola. Questa popolazione, già colpita duramente dall’epidemia di mpox, si trova ora a combattere con una malattia che non dà scampo. Gli ospedali? Stracolmi. I medici? Esausti, con le mani legate davanti a un nemico che avanza troppo in fretta. I sintomi – febbre alta, tosse incessante, vomito, mal di testa – non lasciano spazio alla speranza. Arrivano, si prendono tutto, e lo fanno in pochi giorni.
“I bambini sono quelli che soffrono di più”, dice un medico, quasi con un sussurro, come se le parole pesassero troppo. La malnutrizione li ha resi deboli, fragili. Non hanno le forze per affrontare un mostro così aggressivo.
Questa crisi sta scavando dentro le famiglie, seminando paura, impotenza. Ogni giorno è un’agonia, ogni sintomo un allarme che spezza il fiato. E la gente? Lotta, ma la battaglia sembra persa in partenza.
Un popolo contro il tempo e le tradizioni
Provate a immaginare. Una comunità che da sempre vive seguendo le sue tradizioni, le sue credenze, il suo modo di dire addio ai propri cari. E ora? Ora quelle stesse tradizioni vengono viste come un pericolo, un rischio mortale. Le autorità, insieme all’OMS, stanno facendo il possibile per fermare il contagio. Ma non è semplice. Non si tratta solo di medicina ma di toccare corde profonde, intime. I rituali funebri, quei gesti che danno conforto in mezzo al dolore, potrebbero essere la causa della diffusione.
“Bisogna evitarli, almeno per un po’”, dicono. E lo dicono con pesantezza, sapendo quanto sia difficile cambiare ciò che è radicato nel cuore di un popolo. Ma come fai a chiedere questo? Come fai a dire a una madre, a un fratello, di non toccare il corpo di chi hanno amato, di chi hanno appena perso? Cambiare queste abitudini è come scalare una montagna. Una montagna di dolore, paura, diffidenza. E mentre la malattia avanza, questa sfida sembra quasi impossibile.
Alla ricerca del nemico invisibile
Gli esperti non si fermano. Non possono fermarsi. Stanno cercando, senza sosta, di capire con cosa abbiamo a che fare. I campioni prelevati dai pazienti sono stati inviati a laboratori specializzati, ma è come cercare un ago in un pagliaio. Ancora nessuna risposta chiara. Solo domande, tante domande.
“Capire chi o cosa stiamo affrontando è vitale”, dice un portavoce dell’OMS con quella voce tesa che non lascia spazio a dubbi. “Solo così potremo agire, curare, prevenire”. Ma il tempo, quel maledetto tempo, non aspetta. Ogni giorno che passa è una sofferenza in più. Una ferita che si allarga. Per loro, per le famiglie, per un popolo che guarda agli esperti con una speranza che fa male.
Uno sguardo oltre i confini del Congo
Questa emergenza non si ferma ai confini del Congo. Ha già fatto alzare il livello di allerta in diversi Paesi, Italia compresa. Il Ministero della Salute, preoccupato, ha rafforzato i controlli: nei porti, negli aeroporti, ovunque possa esserci il rischio di un contagio.
“Non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Il pericolo che una malattia del genere arrivi in Europa è reale”, ha ammesso un funzionario italiano, con quella sincerità che ti fa stringere lo stomaco. La prevenzione, dicono, è la chiave. Noi viviamo in un mondo così connesso che quello che succede in una provincia lontana può trasformarsi in una minaccia globale nel giro di un soffio. Non è solo una crisi del Congo. È una crisi di tutti noi.
Una richiesta di solidarietà
Dietro i numeri, dietro le frasi formali, c’è una verità che fa male. Il sistema sanitario è a pezzi. Non ci sono antibiotici, non ci sono strumenti per fare diagnosi. Mancano i medici, quelli capaci, quelli che sanno cosa fare. E manca persino la strada. La strada, capite? Le famiglie devono camminare per ore, chilometri sotto il sole, con i figli malati in braccio, sperando, pregando, di trovare aiuto. “È una situazione disperata”, dice un volontario di una ONG con un tono che ti trapassa l’anima. E questa disperazione dovrebbe scuoterci tutti, farci alzare dalla sedia, spingerci a fare qualcosa.
Non possiamo girarci dall’altra parte
La verità è che il Congo non può farcela da solo. Non ci sono abbastanza risorse, medici, medicine. E il tempo? Il tempo è il nemico peggiore. Ogni attimo perso è una vita che scivola via, è un passo in più verso un disastro che non possiamo nemmeno immaginare.
Viviamo in un mondo in cui tutto viaggia veloce. E un focolaio come questo non conosce confini, non rispetta oceani o frontiere. Parte da Kwango e in un soffio può arrivare ovunque. Europa, Asia, dappertutto. E quando succede, è già troppo tardi.
Non possiamo restare a guardare. Non possiamo aspettare che siano “gli altri” a fare qualcosa. Ogni aggiornamento, ogni notizia che arriva da là, è un richiamo, è un pugno nello stomaco. Questa battaglia non è solo loro, è nostra. Ed è una battaglia che possiamo vincere solo insieme. Ma dobbiamo farlo ora. Non domani. Ora.
Salute e Benessere
Ombre e filamenti alterano la vista di 8 italiani su 10,...
Si chiamano miodesopsie o corpi mobili vitreali, ma sono conosciute anche come 'mosche volanti'. Miopi più a rischio
Capita quasi a tutti di vedere ombre o filamenti che fluttuano nel campo visivo: si chiamano miodesopsie o corpi mobili vitreali. Sono conosciute anche come ‘mosche volanti’ e alterano la nostra visione, spesso accompagnate da flash luminosi. Secondo le stime riguardano fino al 76% della popolazione generale, con un rischio di circa 4 volte più alto in chi è miope. I metodi più innovativi per la corretta diagnosi e per la terapia dei corpi mobili vitreali sono stati discussi dai massimi esperti internazionali durante il congresso Floretina Icoor 2024. L’eccessivo uso dello smartphone e le lunghe ore passate di fronte agli schermi dei computer potrebbero non essere estranee all’ampia diffusione di questo fenomeno.
Cosa sono e perché succede?
Stando ad alcune ipotesi la luce blu dei dispositivi elettronici potrebbe favorire la degenerazione del corpo vitreo alla base del problema, che spesso non ha conseguenze ma a volte è il primo sintomo di un distacco di retina."Le opacità del vitreo, percepite in genere come ombre o filamenti fluttuanti, dipendono da alterazioni nella struttura del corpo vitreo, la ‘gelatina’ che riempie l’interno dell’occhio e che è fondamentale per mantenerne la trasparenza e la stabilità meccanica", spiega Stanislao Rizzo, presidente di Floretina Icoor, direttore del Dipartimento di oculistica del Policlinico A. Gemelli Irccs e ordinario di Oculistica presso l’Università Cattolica di Roma - "Con l’avanzare dell’età, o anche in presenza di miopia elevata, il corpo vitreo subisce una progressiva liquefazione e può distaccarsi dalla parte posteriore dell’occhio, due fattori che contribuiscono alla formazione delle ‘mosche volanti’", aggiunge.
“Si tratta di opacità spesso innocue, ma si stima che nel 33% dei casi possano compromettere la visione e per esempio diminuire fino al 67% la sensibilità al contrasto", aggiunge Francesco Faraldi, direttore della Divisione di oculistica dell’azienda ospedaliera Ordine Mauriziano-Umberto I di Torino . "Anche se l’acuità visiva non è compromessa, ciò comporta un drastico peggioramento della qualità di vita: i pazienti lamentano difficoltà visive e un impatto negativo su attività quotidiane come la lettura o la guida. Inoltre, non devono essere sottovalutate perché possono essere il primo segno di un distacco della retina".
Nuove tecnologie in soccorso per la diagnosi
Fino a oggi la gestione dei corpi mobili vitreali è stata complicata anche perché non esistevano metodi standardizzati per documentarli e c’era un netto divario fra i sintomi riferiti dal paziente e ciò che l’oculista riusciva a osservare. Nuove tecniche di imaging stanno però finalmente cambiando la possibilità di diagnosi
"Le tecnologie di imaging dinamico del vitreo e di imaging a campo ultra-largo (ultra-widefield) integrate con scansioni Oct - continua Daniela Bacherini, ricercatrice in Malattie dell'apparato visivo presso il Dipartimento di Neurofarba dell’Università degli Studi di Firenze - consentono una visualizzazione più dettagliata di una struttura finora difficile da osservare, permettendo di analizzare con precisione la densità, la posizione e il movimento delle opacità vitreali. Le nuove tecnologie consentono di catturare dettagli tridimensionali e dinamici delle anomalie vitreali, migliorando significativamente la comprensione di ciò che i pazienti percepiscono come 'mosche volanti'".
"Tutto questo consente di uniformare le valutazioni e migliorare le diagnosi, fornendo dati oggettivi che possono essere correlati ai sintomi riferiti dai pazienti, oltre che essere utili per strategie di trattamento più efficaci e personalizzate. Oggi la vitrectomia mini-invasiva rappresenta un’opzione per i casi più gravi", conclude Rizzo.
Salute e Benessere
Malattia misteriosa Congo, Rezza: “Letalità alta ma...
"C'è grande attenzione e pure un po' di preoccupazione"
"Se un focolaio del genere si fosse visto in Europa o in Asia l’allerta sarebbe molto alta, perché non è normale avere malattie con questa letalità. In Africa, invece, eventi di quel tipo sono già capitati. La popolazione è debole, c’è uno scarso accesso ai servizi sanitari. In questo momento, quindi, c’è grande attenzione e pure un po’ di preoccupazione". Lo afferma in un'intervista a 'La Repubblica' Gianni Rezza, infettivologo ed epidemiologo professore al San Raffaele e già all’Istituto superiore di sanità e al ministero alla Salute, commentando la malattia misteriosa di origine sconosciuta che ha portato a oltre 70 decessi nella Repubblica democratica del Congo.
"Nessuno se la sente di escludere nulla. Cinque anni fa si parlava del Covid come di qualcosa che poteva succedere ma non c’erano certezze. Con i distinguo del caso, la precauzione vuole che non si escluda nulla. Però mancano ancora gli elementi di base per capire effettivamente quello che sta succedendo. L’allerta globale non c’è - sottolinea Rezza - ma bisogna tenere gli occhi aperti, giusto fare i controlli su chi arriva. Per ora c’è incertezza. I sintomi sono molto generici ma fanno comunque pensare a un problema respiratorio. Certo, la letalità è molto alta, con tantissimi decessi tra i bambini sotto i 5 anni, cosa molto grave. Si potrebbe pensare a una febbre emorragica ma dal punto di vista clinico la autorità sanitarie la riconoscerebbero, anche perché in Congo hanno esperienza di questo tipo di malattie".
L'infettivologo evidenzia come si siano ''già da subito attivati anche i Cdc, centri per il controllo delle malattie, africani. Abbiamo un sistema di allerta mondiale grazie al Covid. Senza quello il focolaio in Africa probabilmente sarebbe andato avanti. E invece un problema sanitario in un’area ristretta del mondo è salito alla piena attenzione internazionale", conclude Rezza.