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Procedura Rita, andare “in pensione” (fino a) dieci anni prima

giovani pensionati Al Mare

In Italia esiste la Rendita integrativa temporanea anticipata (Rita), uno strumento che offre ai lavoratori iscritti a un fondo pensione complementare la possibilità di anticipare il pensionamento fino a dieci anni prima dell’età ordinaria di vecchiaia, cioè a partire dai 57 anni. A causa della crisi demografica, l’Italia sta gradualmente disincentivando il pensionamento anticipato. In effetti, come vedremo, questa procedura non incide sulle casse dell’Inps.

La Rita non è una vera e propria pensione, ma una forma di “accompagnamento” autofinanziata che permette di ricevere una rendita temporanea fino al raggiungimento dei requisiti anagrafici per la pensione. La Rendita integrativa temporanea anticipata è accessibile solo a chi, nel corso della sua carriera, abbia attivato una pensione integrativa.

Come funziona la Rita?

La rendita mensile viene erogata attingendo ai contributi versati nel fondo pensione complementare, colmando così il vuoto economico tra l’uscita dal lavoro e l’età pensionabile. L’ammontare della rendita dipende dal montante contributivo accumulato, ovvero dalla quantità di denaro presente nel fondo al momento della richiesta.

Il meccanismo ricorda quello dell’Ape Sociale o dell’isopensione, ma con una differenza fondamentale: essendo basata sui fondi complementari, la Rita non grava direttamente sulle casse dell’Inps, il che la rende un’opzione indifferente per il sistema previdenziale del Paese.

Requisiti per l’accesso alla Rita

Per accedere alla Rita è necessario:

  1. Età e distanza dalla pensione ordinaria: i richiedenti devono avere un’età minima di 57 anni e devono essere quindi a massimo dieci anni dal raggiungimento dell’età pensionabile standard (67 anni);
  2. Partecipazione al fondo pensione: è richiesto almeno un periodo di cinque anni di contribuzione a una forma di previdenza complementare;
  3. Situazione lavorativa: è possibile accedere alla Rita sia per chi ha perso il lavoro e non riesce a ricollocarsi da almeno due anni, sia per chi continua a lavorare ma desidera anticipare il pensionamento.

Questi criteri rendono la Rita una misura esclusiva per chi ha pianificato un percorso di pensione complementare e intende ritirarsi dal lavoro prima dei 67 anni senza aspettare i tempi dell’Inps.

Il peso delle pensioni anticipate sul welfare italiano

L’Italia registra un altissimo numero di pensionamenti anticipati, che pesano sul sistema previdenziale, già gravemente appesantito dalla crisi demografica del Paese.

Le misure come Quota 100, Ape Sociale, Opzione Donna sono state create per rispondere alla domanda di maggiore flessibilità, soprattutto per coloro che si trovano in difficoltà a rimanere nel mercato del lavoro fino all’età pensionabile ordinaria. Tuttavia, l’ampio ricorso a queste forme di pensione anticipata genera un effetto a cascata sulle finanze pubbliche: le casse dello Stato si trovano infatti a sostenere pensioni per periodi di tempo sempre più prolungati, aumentando il peso del sistema pensionistico sull’intero welfare, mentre ci sono sempre meno lavoratori. Per questo, come già avvenuto per il 2024, anche la Manovra 2025 disincentiva l’uscita anticipata dal lavoro.

La procedura Rita evita conseguenze sulle casse pubbliche, ma quanti riescono a permettersi o decidono di aprire una pensione integrativa?

Uno dei punti centrali del dibattito è il numero elevato di pensionamenti anticipati rispetto all’età legale di 67 anni, la più alta in Europa insieme a quella della Grecia. Il recente rapporto annuale dell’Inps ha lanciato un allarme: le pensioni anticipate assorbono ormai la metà della spesa pensionistica e rischiano di compromettere l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale nel medio-lungo periodo.

Nel 2023, l’Istituto di previdenza ha chiesto oltre 10 miliardi di euro di fondi pubblici per pagare gli assegni, e la cifra è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha più volte sottolineato che la combinazione tra il declino demografico e il numero elevato di pensioni anticipate rende urgente una revisione delle politiche previdenziali.

Tutti gli elementi tratti in questo articolo riguardano la Manovra 2025, in attesa di una agognata riforma delle pensioni.

Le generazioni più giovani, soprattutto coloro che si sono affacciati recentemente nel mercato del lavoro, rischiano di subire le conseguenze di questo modello. Chi oggi entra nel mondo del lavoro potrebbe trovarsi a dover lavorare fino a 70 anni o più, sia per via dell’aspettativa di vita più lunga sia per la necessità di equilibrare un sistema previdenziale gravato da anni di pensionamenti anticipati. Inoltre, i giovani lavoratori sono sempre più spesso impiegati in lavori precari e discontinui, con contributi previdenziali frammentati e insufficienti per garantire una pensione adeguata.

In questo contesto, la Rita può essere vista come un tentativo di alleggerire il peso sulle pensioni pubbliche, ma il suo successo dipenderà dall’adesione dei lavoratori a fondi pensione complementari e da un cambiamento culturale verso la pianificazione previdenziale individuale. Il che passa anche dalla formazione, dove si evidenzia qualche interessante iniziativa locale.

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Come il tempo per sé può rendere migliori i genitori (e i...

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Negli ultimi anni, il concetto di co-genitorialità ha suscitato un acceso dibattito, non solo tra gli esperti, ma anche tra i genitori stessi. Si tratta di un modello che prevede una suddivisione paritaria della custodia dei figli tra i genitori separati o divorziati, un’alternativa alla tradizionale figura della madre o del padre “principale”. Questo approccio mira a garantire che entrambi i genitori abbiano un ruolo attivo nella vita dei bambini, ma offre anche opportunità inaspettate per il benessere dei genitori stessi, come dimostra la storia di Lucy Parker, una donna che ha scelto di non vedere i suoi figli ogni giorno, per il bene della sua famiglia e della sua salute mentale.

Lucy, 35 anni e originaria di Maidenhead, Berkshire, ha creato un ampio dibattito sui social media quando ha dichiarato che non si sente una “cattiva madre” per non voler vedere le sue figlie di 6 e 4 anni ogni giorno. In un video diventato virale su TikTok, ha raccontato di come la sua routine di co-genitorialità, che prevede la suddivisione equa della custodia con il suo ex marito, le permetta di essere una madre più presente, ma anche di ritrovare sé stessa. L’idea di condividere il carico della genitorialità con l’ex coniuge, di fatto, ha trasformato la sua esperienza di madre, permettendole di godere di tempo per sé stessa, di dedicarsi alla sua carriera di content creator e di riprendere alcune passioni personali come i viaggi.

Un equilibrio tra vita privata e genitorialità

La co-genitorialità, nella sua forma ideale, permette a entrambi i genitori di avere la possibilità di prendersi cura di sé stessi, senza sentirsi sopraffatti dal peso di una custodia esclusiva. Lucy ha espresso con chiarezza come il suo nuovo equilibrio le abbia consentito non solo di concentrarsi sul lavoro, ma anche di recuperare le energie per essere una madre più attenta e presente quando si trova con le sue figlie. “Non penso che non voler stare con i tuoi figli h24, sette giorni, su sette, ti renda una cattiva madre”, ha dichiarato, sottolineando come il tempo separato sia una risorsa e non una carenza. Questo pensiero, che potrebbe sembrare rivoluzionario, è in realtà una necessità per molti genitori che vivono l’esperienza della separazione come un’opportunità per ricostruire un’identità individuale, oltre il ruolo di madre o padre.

Questa visione della genitorialità, che promuove una suddivisione equa degli impegni e un recupero di spazi e tempi per sé stessi, sta prendendo piede in molte realtà familiari, ma non è esente da critiche. Alcuni genitori e osservatori ritengono che ammettere pubblicamente di non voler vedere i propri figli ogni giorno sia una manifestazione di egoismo, un comportamento che “rompe il cuore” e che potrebbe minare l’idea di famiglia tradizionale. Tuttavia, come sottolineato da Lucy, la separazione e la condivisione della custodia non devono essere viste come un fallimento della maternità, ma piuttosto come un’opportunità per garantire un benessere condiviso. Anche i bambini, infatti, non sono privati dell’affetto e della presenza materna, ma imparano a vivere in un contesto di genitorialità sana e paritaria.

I benefici psicologici e sociali della co-genitorialità

Il racconto di Lucy suggerisce che la co-genitorialità non solo aiuta i genitori a ritrovare un equilibrio tra la vita privata e quella familiare, ma offre anche numerosi vantaggi per i bambini. Le figlie di Lucy, infatti, pur non vivendo con lei ogni giorno, sembrano vivere serenamente la separazione dei genitori, beneficiando della presenza equilibrata di entrambi. Secondo Lucy, le sue bambine, pur vivendo in “due case felici”, hanno sviluppato una relazione affettuosa e stabile con entrambi i genitori, senza soffrire la mancanza di uno dei due. “Le piccole non imparano solo l’importanza di prendersi cura di sé stesse, ma riescono a mantenere un saldo rapporto anche con la figura paterna”, ha affermato. Questo approccio permette ai bambini di vivere in un ambiente familiare più sereno, con una separazione che non viene vissuta come una frattura traumatica, ma come una riorganizzazione che offre loro nuove opportunità emotive.

Inoltre, la decisione di non chiamare le sue figlie durante il periodo in cui sono con il padre, per evitare un’‘intromissione’ che potrebbe destabilizzare il loro equilibrio, rappresenta un aspetto fondamentale di questa nuova dinamica familiare. La chiarezza nella separazione dei ruoli genitoriali aiuta a mantenere una stabilità emotiva nei bambini, che non sono esposti a conflitti o a sensazioni di colpa. Questo modello non significa, come alcuni potrebbero pensare, che i legami familiari vengano indeboliti, ma al contrario, che vengano rafforzati, poiché ogni genitore è in grado di offrire il proprio affetto in modo più consapevole e rilassato.

Una tendenza che si scontra con la realtà italiana

Mentre il co-parenting è sempre più riconosciuto e praticato in diverse culture, la sua applicazione in Italia presenta delle sfide significative. La tradizione culturale italiana, infatti, tende a privilegiare un modello familiare più tradizionale, in cui la madre è spesso vista come la figura primaria nella cura dei figli, mentre il padre ha un ruolo di supporto, ma non sempre è coinvolto in modo paritario nella gestione quotidiana della famiglia. Il co-parenting, dunque, potrebbe sembrare una pratica estranea, soprattutto in una società che associa ancora fortemente la maternità alla figura femminile e che tende a stigmatizzare l’idea di un genitore che sceglie di prendersi una pausa.

Tuttavia, con il crescente numero di separazioni e divorzi in Italia, l’adozione di modelli come quello di Lucy Parker potrebbe rappresentare una svolta positiva per molte famiglie. I benefici psicologici di una gestione equilibrata della genitorialità, che offre a ciascun genitore il tempo di prendersi cura di sé e di lavorare sulla propria crescita individuale, sono innegabili. Ciò potrebbe anche aiutare a ridurre il conflitto tra i genitori e, di conseguenza, l’impatto negativo sui figli. Resta però da capire quanto la società italiana sia pronta ad accogliere e ad adattarsi a questi nuovi modelli, che potrebbero sembrare in contrasto con la tradizione, ma che potrebbero anche rappresentare una risorsa fondamentale per il benessere familiare.

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La Norvegia ha esteso l’aborto fino alla 18ma settimana (e...

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La Norvegia ha esteso la possibilità di abortire legalmente fino alla 18ma settimana di gravidanza. Il precedente limite era di 12 settimane, come in Italia (con eccezioni in casi particolari, dove proseguire la gestazione può essere pericoloso per la madre e/o il nascituro).

Con il voto del 3 dicembre scorso, il Parlamento norvegese ha approvato a larga maggioranza un progetto di legge presentato dal governo di centrosinistra (in minoranza tra i deputati), che sostituirà la normativa del 1978.

Aborto in Norvegia, cosa cambia

Prima della nuova legge in Norvegia era possibile abortire oltre la dodicesima settimana, ma solo con l’approvazione di un comitato di valutazione composto da due medici, di cui uno uomo e l’altra donna. Approvazione che è sempre arrivata, tranne rari casi.

Il Parlamento ha votato a favore anche per estendere alla 18ma settimana la possibilità di ridurre il numero di feti in caso di gravidanza multipla. La nuova normativa prevede, inoltre, che sia possibile abortire anche oltre la 18ma settimana di gravidanza ma comunque entro la 22esima.

Questo è il limite oltre il quale il feto è potenzialmente in grado di vivere al di fuori dell’utero materno, una condizione chiamata “viabilità del feto”. Anche in questo caso, per andare oltre il limite standard (che passa da 12 a 18 settimane) c’è bisogno del parere favorevole di due medici.

Proprio la vitalità del feto è al centro delle critiche degli oppositori secondo cui autorizzare gli aborti tardivi equivarrebbe a “eliminare il paziente” piuttosto che a “eliminare la sua malattia”.
I deputati favorevoli alla legge hanno invece sottolineato la natura conservatrice e paternalistica della legislazione precedente che non dà alle donne il “pieno controllo sul proprio corpo”.
Parole che ricordano quelle di Melania Trump, che nelle sue memorie si è schierata a favore del diritto all’aborto, e ora sarà nuovamente first lady durante il mandato Trump-Vance, forse il più conservatore della storia americana.

I numeri degli aborti in Norvegia

Per le associazioni Pro vita estendere il diritto di aborto può far schizzare i numeri di Ivg, ma i numeri della Norvegia dicono altro. Come riporta l’Istituto norvegese di sanità pubblica relativamente al 2023:

  • l’83,7% delle interruzioni volontarie di gravidanza registrate in Norvegia sono avvenute prima della nona settimana di gravidanza;
  • solo il 4,7% degli aborti volontari si è verificato oltre la 12a settimana con l’approvazione dei due medici.

Anche nella vicina Svezia è possibile abortire fino alla 18ma settimana di gravidanza. Nella stessa direzione vuole andare la Danimarca che ha annunciato l’intenzione di estendere il limite legale da 12 a 18 settimane in base a una nuova legge che, se approvata, entrerebbe in vigore il 1° giugno 2025. Nell’Europa occidentale, i Paesi che consentono gli aborti più tardivi sono il Regno Unito e i Paesi Bassi (24 settimane) e l’Islanda (22 settimane).

L’orientamento Ue

Tra i ventisette Paesi Ue, il termine per abortire legalmente varia dalle 10 settimane del Portogallo alle 24 settimane dei Paesi Bassi. La maggior parte dei Paesi ha fissato il limite a 12 settimane e lo stesso vale a livello globale. Spagna e Austria consentono l’aborto fino a 14 settimane, mentre in Bulgaria, tranne casi particolari, è possibile abortire entro la dodicesima settimana di gestazione.

C’è poi il caso di Malta e Polonia, con una forte tradizione cattolica, dove il quadro giuridico è altamente restrittivo per l’aborto.

A livello comunitario, l’11 aprile scorso gli eurodeputati hanno sollecitato il Consiglio affinché inserisse il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.

La risoluzione, approvata con 336 voti favorevoli, 163 contrari e 39 astensioni, ha valore politico, ma non è vincolante. I deputati hanno chiesto la modifica dell’articolo 3 della Carta per affermare che “ognuno ha il diritto all’autonomia decisionale sul proprio corpo, all’accesso libero, informato, completo e universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai relativi servizi sanitari senza discriminazioni, compreso l’accesso all’aborto sicuro e legale”.

La risoluzione esorta i Paesi europei a depenalizzare completamente l’aborto in linea con le linee guida dell’Oms del 2022 e a combattere gli ostacoli all’aborto. In particolare, si invitano Polonia e Malta ad abrogare le leggi e le altre misure nazionali che ne limitano il diritto.

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Natalità, Pellicer: “Dobbiamo promuovere la fertilità, la...

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Pellicer Ivi Us

“Il tema di fondo è che c’è una mancanza di figli e che l’Italia è campione d’Europa nel non avere figli. Dobbiamo fare una promozione della fertilità. La PMA non risolve il problema ma, come diciamo in Spagna ‘tutta la pietra fa parete’, ovvero la PMA può dare il suo contributo”. Il professor Antonio Pellicer, presidente e fondatore dell’Instituto Valenciano de Infertilidad (IVI), in un’intervista all’Adnkronos, parla dei passi in avanti fatti e dei prossimi obiettivi della ricerca nel campo della riproduzione.

Lo fa partendo dai dati, che aiutano a individuare il perimetro nel quale muoversi. “L’infertilità è un problema che riguarda il 15% delle coppie in età fertile. Per quanto riguarda l’applicazione delle tecniche di PMA, la Spagna, insieme alla Danimarca, è il Paese che la utilizza di più. Un paragone facile: in Spagna la percentuale dei bimbi che nascono con la PMA è il 10% del totale, in Danimarca l’11%, in Italia il 4 o il 5%”.

Il passo successivo è chiedersi quali siano i motivi di “un livello di penetrazione molto diverso”. Il tema, premette Pellicer, “non è economico, perché in Italia si può fare la PMA con il contributo pubblico attraverso le strutture convenzionate. Penso invece – prosegue – che ci sia un tema culturale che ha bisogno di tempo per essere risolto e si lega al tema della comunicazione, delle informazioni disponibili”. Anche sul piano normativo, ci sono differenze. “In Italia non si possono trattare le donne single e non è possibile la donazione degli embrioni: se una coppia ha avuto figli, non ne vuole avere altri e ha embrioni congelati non li può donare ad altre coppie perché non è autorizzata”. Pellicer parla di “una differenza sostanziale” perché “comporta due problemi addizionali: se gli embrioni congelati non si utilizzano si accumulano e questo, evidentemente, non è giusto; l’impianto di embrioni donati è molto meno costoso e contribuisce a risolvere il problema economico. Dobbiamo vederla come un’adozione potenziale“.

Il fondatore di IVI vuole anche evidenziare che si sta parlando di un problema di salute. “Essere infertili dal 2008 è considerata una malattia per l’Oms. È un problema di salute come gli altri e si deve prendere con serietà. Dobbiamo dire che i medici servono per aiutare le persone. E con la PMA abbiamo fatto dei grandi passi in avanti”.

Pellicer ricorda il film Joy, disponibile da pochi giorni su Netflix. Racconta la storia di Louise Joy Brown, la prima bambina nata da fecondazione in provetta il 25 Luglio del 1978 a Oldham, in Inghilterra. Questo anche per rassicurare tutti sulla totale equivalenza scientifica tra un figlio nato con PMA e uno con concepimento naturale. “I bimbi con la PMA si fanno dal 1978. Ci sono più di 45 anni di storia con milioni di bambini nati perfettamente sani nel mondo. Non esiste alcun rischio legato alla PMA diverso da quelli con il concepimento naturale. C’è solo una raccomandazione da farci, non rendere troppo grande la sfida alla natura: può avvenire quando in presenza di sperma ‘cattivo’ vengono applicate tecniche di PMA perché c’è il rischio di trasmettere malformazioni e patologie maschili”.

Guardando invece alla ricerca, il professor Pellicer indica “due grandi sfide: la prima riguarda le percentuali di successo di ogni impianto. Un embrione sano oggi dà una possibilità di gravidanza che non supera il 65%, c’è ancora un 35% su cui si può lavorare. Non abbiamo ancora capito se l’embrione deve avere altre caratteristiche, oltre a quelle morfologiche e cromosomiche. Dobbiamo fare ricerca sul metodo di selezione embrionaria e scegliere gli embrioni che abbiano il potenziale massimo di portarci a una gravidanza”. L’altro fronte aperto, prosegue, “è il ringiovanimento degli ovuli. Iniziano a rovinarsi a 38 anni e a 45 anni nessun ovulo o quasi è sano. Dopo tanta ricerca, abbiamo capito che dobbiamo lavorare sull’ovulo. Mi auguro che un giorno saremo in grado di ringiovanire gli ovuli delle donne over 39”.

Ultimo tassello dell’analisi di Pellicer, l’immancabile ‘orologio biologico‘. “Oggi considerando che la massima fertilità è a 24 anni, dobbiamo lavorare sul congelamento degli ovuli per il futuro. Non abbiamo un altro metodo e sarebbe bene che le ragazze diventassero più consapevoli della possibilità che hanno a quell’età di garantirsi un futuro sereno”.

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