Nuovi asili nido in arrivo, soprattutto al Sud. Valditara stanzia altri 40,8 mln per “sostenere le famiglie italiane”
40,8 milioni di euro per 64 nuovi asili. Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha firmato ieri un decreto per finanziare le nuove strutture, il tutto nell’ambito del PNRR. Il 55% della cifra, precisa il Ministero, andrà al Mezzogiorno. “Investire negli asili nido è una scelta strategica per il futuro del nostro Paese”, ha spiegato Valditara.
La decisione del ministro si inserisce nel contesto italiano, caratterizzato da poche strutture e costi alle stelle ma in miglioramento.
In crescita i posti per i bambini 0-2 anni
Come riporta Openpolis, infatti, tra il 2021 e il 2022 è cresciuta l’offerta di posti in asili nido e servizi prima infanzia, passata da 28 a 30 posti ogni 100 bambini con meno di 3 anni residenti in Italia. Mancano perciò 3 punti per raggiungere l’obiettivo stabilito nel 2002 dal Consiglio europeo di Barcellona per gli Stati membri per quanto riguarda la diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia, ovvero offrire un posto negli asili nido per almeno il 33% di bambini sotto i 3 anni e per il 90% di quelli tra 3 e 5 anni. In seguito, tra l’altro, il Consiglio dell’Ue del febbraio 2021 ha aggiornato l’obiettivo al 45% per la fascia 0-3 anni e al 96% in quella 3-5 anni.
La crescita dei posti è dovuta a un duplice effetto: quello del calo della domanda, causata dalla importante diminuzione delle nascite nel nostro Paese, una tendenza che si osserva ormai da anni, e dall’effettivo aumento dell’offerta.
Aumenta l’offerta ma rimangono forti differenze tra regioni
Quanto al primo aspetto, basti pensare che nel 2022 i residenti in Italia con età compresa tra 0 e 2 anni erano 1,2 milioni, in calo del 9% rispetto al 2019 e del 24% rispetto al 2013, il primo anno considerato da Istat nella serie storica.
Quanto invece al secondo fattore, se è vero che l’offerta è cresciuta va anche sottolineato che i 30 posti a bambino in asili nido e servizi prima infanzia registrati nel 2022 sono la media di situazioni molto diverse tra le regioni italiane, con una carenza di servizi particolarmente accentuata al Sud.
Undici regioni superano l’obiettivo europeo del 33%, dodici se consideriamo il Piemonte a cui manca un soffio (32,7%). Tra queste, Umbria (46,5%), Emilia-Romagna (43,1%) e Valle d’Aosta (43%) sono particolarmente virtuose. Dall’altro lato della classifica troviamo invece tutte le regioni del Sud, con situazioni di particolare carenza in Calabria (15,7%), Sicilia (13,9%) e Campania (13,2%).
Il Piano Asili Nido 2024
In questo contesto si inseriscono le iniziative del governo Meloni, a partire dal nuovo Piano Asili Nido 2024, approvato lo scorso maggio nell’ambito del PNRR (Missione 4 – Istruzione e Ricerca). Obiettivo specifico dell’iniziativa governativa è quello di ridurre i divari territoriali nei servizi per l’infanzia e supportare le famiglie, favorendo inoltre la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Con un finanziamento di 734,9 milioni di euro, il Piano prevede la realizzazione di 838 nuovi interventi in 845 Comuni beneficiari, che si aggiungono ai 2.228 interventi precedentemente autorizzati. In questo modo, si dovrebbero creare circa 31.600 nuovi posti negli asili nido per bambini di età compresa tra 0 e 2 anni, con il fine ultimo di raggiungere il target finale previsto dal PNRR (150.480 nuovi posti).
Valditara: “Rafforzare i servizi per l’infanzia significa anche dare un sostegno alle famiglie italiane”
In questa direzione vanno anche i 40,8 milioni di euro per 64 nuovi asili stanziati ieri dal ministro Valditara. Che ha chiarito: “Ogni risorsa residua viene immediatamente reinvestita per creare nuovi posti nella fascia 0-2 anni, affinché si migliori l’offerta educativa sin dalla prima infanzia e si garantiscano a tutti i bambini, al di là dei territori di appartenenza, le stesse opportunità. Rafforzare i servizi per l’infanzia significa anche dare un sostegno alle famiglie italiane e in particolare alle mamme lavoratrici. Questa è la direzione di un Governo e di un Ministero che credono nel valore della persona”.
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La corsa ai like, perché condividiamo troppo sui social?
Negli ultimi anni, i social media hanno trasformato il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con il mondo. Il fenomeno dell’oversharing, cioè l’abitudine di condividere ogni dettaglio della propria vita, è una delle espressioni più emblematiche di questa trasformazione. Ma cosa ci spinge a raccontare così tanto di noi stessi online? Perché sentiamo il bisogno di essere protagonisti della nostra esistenza anche davanti a un pubblico virtuale? Il professor Marco Cacioppo, ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università Lumsa di Roma, ha approfondito queste tematiche, spiegando come l’oversharing rifletta non solo una tendenza culturale, ma anche bisogni psicologici profondi.
Secondo Cacioppo, è fondamentale distinguere tra un uso problematico dei social media e una vera e propria dipendenza psicopatologica. “L’oversharing”, spiega, “è parte di una dinamica complessa ed estremamente rapida nel suo sviluppo con la quale non è sempre comodo stare al passo”. L’impulso a condividere è radicato nel desiderio di essere visti e accettati. La necessità di approvazione è diventata parte integrante delle esperienze quotidiane, rendendo i social una piattaforma per validare la propria identità. Questo bisogno di visibilità è strettamente legato al funzionamento delle dinamiche relazionali moderne: sentirsi “riconosciuti” attraverso un like o un commento trasforma il modo in cui percepiamo noi stessi e le nostre esperienze.
Cacioppo sottolinea inoltre come la tecnologia abbia ampliato il contesto relazionale, modificando radicalmente le nostre abitudini. “Dieci anni fa parlavamo di prossimità a distanza; oggi questo è un dato di fatto, soprattutto per i giovani. Con uno smartphone possiamo raccontare la nostra vita a una platea infinita, ma ciò comporta anche il rischio che un momento della nostra esistenza valga di più solo se condiviso”. In questa dinamica si intrecciano opportunità e criticità: la rivoluzione tecnologica offre connessione e visibilità, ma ridefinisce anche il valore delle esperienze personali.
I giovani e l’oversharing: una questione generazionale?
Se l’oversharing è un fenomeno trasversale, è nei giovani che assume caratteristiche peculiari. “I nativi digitali”, osserva Cacioppo, “sono abituati sin dall’infanzia ad essere esposti alla possibilità che la loro vita sia vissuta nel momento presente e, contemporaneamente, raccontata anche a chi non è presente in una relazione vis-à-vis attraverso la condivisione sui social da parte dei caregivers”. Questa esposizione precoce alla visibilità digitale ha normalizzato l’idea che la vita privata sia anche pubblica. Tuttavia, ciò non implica necessariamente una patologia: “Non parlerei di epidemia, ma di una diffusione culturale che riflette il contesto in cui gli adolescenti e i giovani adulti sono nati e cresciuti”.
Il bisogno di condividere è particolarmente marcato nelle fasi di sviluppo della propria identità. Gli adolescenti, in cerca di conferme, si affidano ai social media per misurare il proprio valore. “Un tempo”, sottolinea Cacioppo, “questa validazione arrivava dallo sguardo dell’altro o da una parola di approvazione. Oggi, invece, è rappresentata da un like o da una visualizzazione“. Questa dipendenza da conferme digitali può portare a conseguenze emotive significative, come insicurezze e sentimenti di inadeguatezza.
Le reazioni mancanti, ad esempio, possono essere percepite come un rifiuto. “Negli adolescenti, la mancata risposta a un contenuto postato viene letto come un’assenza di valore”, aggiunge Cacioppo. Questo genera un circolo vizioso di insicurezza e frustrazione, che può amplificare il bisogno di condividere sempre di più per ottenere conferme che non arrivano mai in modo definitivo.
I social come rifugio o trappola emotiva?
Negli ultimi anni, i social media sono stati definiti da alcuni come il “grande divano psicologico”, un luogo dove esprimere le proprie emozioni e fragilità. Tuttavia, Cacioppo invita a un’analisi più attenta di questa metafora. “Il crescente interesse per la psicologia e la salute mentale è sicuramente positivo”, afferma, “ma l’idea che l’oversharing possa essere una forma di autoterapia è discutibile”. Spesso, la condivisione eccessiva è un tentativo di regolare emozioni difficili o di compensare fragilità nell’autostima, ma raramente risulta essere una strategia efficace.
Il problema non è internet in sé, ma l’uso che ne facciamo. “Condividere troppo”, osserva Cacioppo, “può esporre le nostre vulnerabilità senza aiutarci realmente a elaborarle”. La ricerca di approvazione attraverso i social media può portare a dipendere sempre più da un sistema di validazione esterno, rendendo difficile un’autoregolazione emotiva autentica e autonoma. Questo meccanismo crea una sorta di cortocircuito tra il bisogno di essere visti e l’incapacità di costruire un’immagine stabile di sé.
Nonostante ciò, il lato positivo della crescente attenzione verso la salute mentale è il progressivo superamento di alcuni stigmi sociali. Parlare di emozioni sui social ha reso più accettabile il confronto con il disagio psicologico, anche se, secondo Cacioppo, non bisogna confondere questo con una reale comprensione o gestione del proprio benessere emotivo.
Confini e rischi dell’oversharing
Il limite tra condivisione sana e patologica è labile, e l’oversharing può diventare un problema quando compromette le relazioni interpersonali. “Se condividere online diventa più importante delle interazioni fatte in presenza”, spiega Cacioppo, “c’è un problema da affrontare”. Un esempio emblematico è il fenomeno del phubbing, ovvero ignorare chi ci sta vicino per concentrarsi sullo smartphone. “È paradossale”, riflette Cacioppo, “ma ignoriamo chi c’è per rivolgerci a chi non c’è”.
Secondo studi condotti dall’Università Lumsa, il phubbing si collega a retaggi familiari e relazionali poco coinvolgenti, che spingono gli individui a cercare connessioni emotive altrove. Questo comportamento si intreccia con l’oversharing, evidenziando come la ricerca di popolarità online spesso si sostituisca al bisogno di relazioni autentiche. “Condividere di più non significa avere una maggiore capacità di connessione emotiva, empatica, reciproca e profonda con gli altri”, avverte Cacioppo. Al contrario, può indicare una difficoltà nel costruire legami profondi e reciproci.
Il futuro digitale e l’intimità perduta
Cosa ci riserva il futuro? Secondo Cacioppo, è difficile fare previsioni, ma la speranza è che l’oversharing rimanga solo una delle tante modalità di utilizzo dei social media. In un’epoca in cui tutto sembra ruotare attorno ai like, il desiderio è che le interazioni “live” continuino a prevalere su quelle virtuali. “Un sorriso o una battuta di un amico”, conclude Cacioppo, “devono restare più desiderabili di un like per una foto postata sull’ultimo locale frequentato”. La vera sfida, quindi, è mantenere un equilibrio tra il mondo digitale e quello reale, senza perdere di vista ciò che rende unica la nostra umanità.
E per chi si rende conto di esagerare con la condivisione? Cacioppo suggerisce un esercizio di introspezione: “È importante prendere atto che non c’è più piacere nel condividere, ma forse più una pressione a farlo. Poi, se la persona non riesce a regolare in modo ottimale la propria compulsività è bene accendere una riflessione su quale bisogno esistenziale colma l’oversharing. Si sente sola? Si sente inesistente?”. Rispondere con sincerità a queste domande può essere il primo passo verso un uso più consapevole dei social. E se la difficoltà persiste, il professore non esita a consigliare di rivolgersi a uno specialista.
L’oversharing, conclude Cacioppo, è uno specchio della nostra società e delle sue contraddizioni. Saperlo gestire, senza demonizzarlo, può essere una chiave per una convivenza serena con le tecnologie che ci circondano. E, forse, per riconquistare un po’ della nostra intimità perduta.
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Il fascino (pericoloso) di merendine e cibi...
In Italia, terra di tradizioni culinarie e patria della dieta Mediterranea, i bambini sembrano essere sempre più attratti da energy drink, merendine e cibi ultra-trasformati, creando un cortocircuito tra cultura alimentare e realtà moderna. Secondo un recente rapporto Coldiretti-Censis, l’82% delle famiglie italiane chiede un piano pubblico per contrastare questa tendenza pericolosa, che minaccia la salute e lo sviluppo delle nuove generazioni. Il fenomeno dei cibi ultra-trasformati non è solo una questione di gusto o praticità: coinvolge profondamente la salute pubblica, toccando corde emotive e sociali. Dai genitori che si sentono impotenti di fronte al marketing aggressivo delle industrie alimentari, fino alle istituzioni che tentano di porre limiti efficaci, il panorama è complesso e urgente.
Perché i bambini amano i cibi ultra-trasformati?
Nonostante il 75,8% dei genitori dichiari di promuovere la dieta mediterranea, più della metà ammette di trovarsi in difficoltà. Il 55,3% nota una forte attrazione dei figli per i cibi spazzatura e quasi il 48% osserva che appena possono, i bambini scelgono alimenti poco salutari. Ma cosa rende questi prodotti così irresistibili?
Gli alimenti ultra-trasformati sono progettati per conquistare i consumatori, a partire dai bambini, grazie a combinazioni di zuccheri, grassi e sale che stimolano il cervello a voler “di più”. L’impatto è ulteriormente amplificato da strategie di marketing mirate: mascotte accattivanti, packaging colorati e spot pubblicitari che parlano il linguaggio dei più piccoli. Le famiglie, spesso, non riescono a opporsi a queste influenze esterne. I ritmi frenetici della vita moderna favoriscono scelte alimentari rapide e pratiche, sacrificando tempo ed energie per cucinare piatti sani e bilanciati. Questo quadro genera una spirale che allontana i più giovani da abitudini alimentari tradizionali, come quelle proprie della dieta mediterranea.
I pericoli di barrette ed energy drink
Un altro aspetto allarmante legato al consumo eccessivo di cibi ultra-trasformati, come barrette energetiche ed energy drink, riguarda il loro potenziale impatto sulla fertilità maschile. Secondo gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA), una dieta troppo ricca di proteine, soprattutto quelle derivate da alimenti addizionati, potrebbe compromettere la qualità e la quantità degli spermatozoi.
Le barrette e gli energy drink, spesso arricchiti con proteine sintetiche, sono diventati una scelta popolare, soprattutto tra i giovani, per il loro apporto rapido di energia e nutrienti. Tuttavia, l’eccesso di proteine, sebbene inizialmente possa sembrare benefico per l’organismo, può avere effetti collaterali negativi, in particolare sulla salute riproduttiva. “Un consumo eccessivo di proteine non aumenta necessariamente la produzione di spermatozoi; anzi, potrebbe aumentare lo stress ossidativo nell’organismo, con un impatto negativo sulla concentrazione e sulla qualità degli spermatozoi”, ha spiegato Alessandro Palmieri, presidente della SIA.
Inoltre, l’assunzione massiccia di questi prodotti potrebbe alterare l’equilibrio nutrizionale complessivo, compromettendo l’assorbimento di vitamine e minerali essenziali per la salute, oltre ad aumentare i rischi legati a patologie cardiovascolari, renali e osteoporosi. Le risposte individuali all’elevato apporto proteico possono variare, ma è fondamentale seguire una dieta equilibrata, che includa proteine di alta qualità, provenienti da fonti naturali come carne magra, pesce e legumi, senza eccedere in alimenti addizionati e processati. La moderazione è la chiave per preservare non solo la fertilità, ma anche la salute generale.
Dieta mediterranea ed educazione alimentare
Coldiretti ha avanzato diverse proposte per invertire questa tendenza: dalle etichette che identifichino chiaramente i prodotti ultra-trasformati, all’aumento delle ore di educazione alimentare nelle scuole. L’introduzione di divieti sui cibi ultra-trasformati nelle mense scolastiche e nei distributori automatici rappresenta un altro passo avanti, ma potrebbe non bastare.
Il Regno Unito ha già intrapreso la strada dei divieti, limitando la pubblicità di cibi spazzatura nelle fasce orarie più seguite da bambini e adolescenti. In Italia, però, i divieti sembrano avere un impatto limitato: solo il 37% delle famiglie impone restrizioni severe sui junk food. È evidente che, accanto alle norme, sia necessario un cambio culturale, supportato da campagne di sensibilizzazione che coinvolgano scuole, famiglie e piattaforme digitali.
In un contesto dominato dai cibi industriali la dieta mediterranea, simbolo di equilibrio e salute, può rappresentare una soluzione concreta. Questo modello alimentare, basato su alimenti freschi e naturali come frutta, verdura, legumi, cereali integrali, olio d’oliva e pesce, è il risultato di una tradizione millenaria che ha dimostrato benefici straordinari per la salute. Tuttavia, la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di trasmettere alle nuove generazioni l’importanza di mangiare in modo semplice ma nutriente.
La ricerca Coldiretti-Censis ha dimostrato che molte famiglie sono già impegnate in questa battaglia culturale, ma serve un supporto più ampio. ” L’educazione alimentare è il pilastro di una vita in salute. Bisogna imparare da bambini che mangiare in modo corretto e sano significa migliorare il proprio stato di salute. È per questo che stiamo potenziando le politiche di prevenzione, a partire dalla promozione della corretta alimentazione e degli stili di vita sani, attraverso la collaborazione con i professionisti sanitari sul territorio e molteplici iniziative di comunicazione e informazione” ha sottolineato il ministro della Salute, Orazio Schillaci, durante il Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione. “Proprio per contrastare informazioni fuorvianti, sosteniamo in particolare campagne sui social sulla dieta sana e partecipiamo a tutte quelle iniziative utili a veicolare messaggi legati agli stili di vita corretti”, ha aggiunto.
Il parere della nutrizionista
Ma come riportare i bambini su questa strada? Intervenendo su questi temi, la nutrizionista Marta Menelao sottolinea che la chiave per un’alimentazione sana risiede nella prevenzione: “È fondamentale agire fin da piccoli per educare i bambini a una dieta equilibrata, che non solo protegge la loro salute, ma costruisce anche una base solida per il loro benessere futuro. La dieta mediterranea, infatti, non è solo un modello alimentare, ma un vero e proprio stile di vita, riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio Culturale dell’Umanità. Ricca di nutrienti essenziali, questa dieta è in grado di promuovere salute e benessere, e può essere un ottimo punto di partenza per tutta la famiglia”.
L’approccio della dieta mediterranea è estremamente flessibile e non richiede preparazioni complesse. Promuove l’uso di alimenti semplici e genuini, che possono essere facilmente integrati nella routine quotidiana. La nutrizionista consiglia di pianificare pasti semplici e vari, includendo alimenti come verdure fresche, legumi, cereali integrali e proteine magre. Un esempio pratico potrebbe essere alternare piatti di pasta integrale con verdure a zuppe di legumi o insalate colorate. Un altro suggerimento è sostituire le merendine confezionate con snack più salutari, come frutta fresca, frutta secca o snack fatti in casa, come muffin integrali o chips di verdure.
Inoltre, coinvolgere i bambini nella scelta e nella preparazione dei pasti è fondamentale: “Se i più piccoli sono coinvolti, saranno più motivati ad accettare con entusiasmo i cibi sani. Giocare con i colori e le forme dei cibi è un altro trucco che funziona: trasformare le verdure in un ‘arcobaleno di peperoni’ o preparare dei bastoncini di carote con salse come yogurt naturale può trasformare il pasto in un momento divertente e creativo”.
Incoraggiare i bambini a partecipare alla spesa, portandoli al mercato e spiegando l’importanza di scegliere alimenti freschi e locali, è un altro passo importante. “La stagione gioca un ruolo fondamentale nella dieta mediterranea: in inverno, cavoli, arance e legumi sono ideali, mentre in estate pomodori, zucchine e melanzane sono protagonisti.” L’uso dell’olio extravergine d’oliva, che è un pilastro della dieta mediterranea, rappresenta anche un’alternativa sana a burro e margarina, mentre la frutta secca come mandorle e noci può essere un ottimo spuntino.
La nutrizionista suggerisce anche di ridurre il consumo di proteine animali trasformate e aumentare le fonti proteiche salutari, come il pesce (2-3 volte a settimana) e i legumi, che possono diventare protagonisti di piatti unici come zuppe, insalate o polpette vegetali.
Per contrastare il consumo di bibite zuccherate e bevande confezionate, la dieta mediterranea promuove l’acqua come principale fonte di idratazione, magari arricchita con fette di limone o menta per renderla più invitante. “L’obiettivo non è solo fare scelte alimentari sane, ma creare un ambiente che favorisca queste scelte. Limitare l’acquisto di cibi ultra-trasformati e sostituirli con alimenti freschi e nutrienti incoraggia i bambini a fare scelte migliori”.
Gli alimenti ultra-trasformati, progettati per essere irresistibili, sfruttano tecniche precise per conquistare il palato e l’emotività dei bambini. “Sapori intensificati, confezioni colorate e praticità di consumo rendono questi cibi difficili da resistere. È fondamentale, però, offrire alternative attraenti e gustose, come snack fatti in casa o piatti colorati e divertenti, che siano altrettanto soddisfacenti”.
Infine, la nutrizionista consiglia di educare senza pressioni, parlando ai bambini dell’importanza di un’alimentazione corretta in modo semplice e positivo. “Premiare i progressi con attività divertenti, invece di ricorrere ai dolci, aiuta a consolidare buone abitudini senza dipendenze da cibo spazzatura”.
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Infertilità, cosa sanno gli italiani e quali ostacoli...
L’infertilità continua a rimanere un tema di discussione difficile, un tabù che troppo spesso non trova spazio nel dibattito pubblico. Eppure, è un problema che riguarda milioni di persone e che ha effetti significativi non solo sulla salute fisica ma anche su quella emotiva, sociale ed economica. I dati emersi dall’indagine ‘Il fenomeno dell’infertilità: percezioni e vissuti degli italiani’ condotta dall’Istituto Piepoli, e presentati durante il Congresso Nazionale della Società Italiana della Riproduzione (Sidr), sono un campanello d’allarme. La ricerca ha rivelato che la maggior parte degli italiani riconosce l’infertilità come una difficoltà reale e trasversale, che non riguarda solo le donne ma coinvolge anche gli uomini in misura significativa. Sebbene ci sia una crescente consapevolezza del fenomeno, persiste una scarsissima conoscenza delle soluzioni disponibili e, soprattutto, dei costi e delle barriere che le persone devono affrontare per poter accedere alle cure.
Con il 74% degli italiani che considera la fecondazione assistita come uno strumento utile a contrastare il calo demografico, la domanda di un’azione concreta e di un maggior supporto da parte delle istituzioni è sempre più forte. Non si tratta semplicemente di una questione medica, ma di una vera e propria emergenza sociale. In Italia, la natalità è in continuo calo, e le previsioni per il 2024 parlano di ben 200mila bambini in meno, un dato che segna un futuro sempre più incerto per il Paese. L’infertilità, dunque, è anche una minaccia alla sopravvivenza stessa della democrazia, come affermato dal presidente dell’Istituto Piepoli, Livio Gigliuto. Questo fenomeno, che colpisce in modo crescente le nuove generazioni, è legato a una molteplicità di fattori: dall’età avanzata alla scarsa informazione, passando per gli stili di vita dannosi e l’inquinamento ambientale.
Si stima che solo il 25% della popolazione italiana abbia consapevolezza delle opzioni terapeutiche esistenti e, ancor di più, di come queste possano realmente supportare chi è colpito da infertilità. Le terapie, per quanto efficaci, rimangono un miraggio per tanti, spesso frenato da barriere economiche o culturali: le disuguaglianze nell’accesso ai trattamenti, che sono ancora condizionati da costi elevati e da una disparità regionale significativa, peggiorano ulteriormente la situazione.
Le cause percepite dell’infertilità
L’indagine condotta dall’Istituto Piepoli ha anche evidenziato come la maggior parte degli italiani (69%) percepisca l’infertilità come un problema diffuso e in continua espansione, che coinvolge entrambi i sessi. Questo dato, già significativo, assume contorni ancora più preoccupanti quando si analizzano le cause identificate dalla popolazione. Se la causa principale è rappresentata dall’età avanzata, con il 39% degli italiani che la considera un fattore determinante, altre motivazioni non sono meno rilevanti. Gli squilibri ormonali (34%) e le malattie pregresse (29%) sono altre cause ritenute cruciali. A queste si aggiungono i fattori legati allo stile di vita, come il fumo (26%) e l’abuso di alcol (23%), ma anche fattori psicologici ed emotivi (24%), inquinamento e stress (23%).
Questo quadro suggerisce una crescente consapevolezza dei legami tra le abitudini quotidiane e la fertilità, ma al contempo evidenzia una grande difficoltà nel prevenire il problema. Si parla di infertilità come di un “problema moderno”, legato all’incapacità di modificare comportamenti dannosi, spesso legati alla frenesia della vita urbana o al peggioramento delle condizioni ambientali. Ma la percezione del problema non è sufficiente a risolverlo. La popolazione, infatti, sembra disposta a investire nella prevenzione, ma questo impegno non sempre trova un riscontro nelle politiche pubbliche e nella consapevolezza individuale. Solo il 23% degli intervistati ritiene che l’infertilità debba essere affrontata fin da giovane, ma l’incapacità di attuare politiche preventive concrete, come l’educazione nelle scuole, rimane una lacuna che il Paese non può più permettersi.
Ciò che emerge con chiarezza dall’indagine è l’urgenza di una maggiore informazione e sensibilizzazione, in modo da ridurre il divario tra consapevolezza e azione. La consapevolezza sulle cause dell’infertilità, infatti, non basta: è fondamentale che i cittadini ricevano un supporto concreto, non solo in termini di accesso a trattamenti ma anche in termini di educazione alla salute riproduttiva.
Il futuro della fertilità in Italia
In un contesto così complesso e frammentato, le aspettative degli italiani sono chiare e forti. Secondo l’indagine dell’Istituto Piepoli, la maggior parte della popolazione ritiene che la risposta al calo demografico e alle difficoltà legate all’infertilità debba passare da un’azione concreta sul fronte dell’accessibilità e della sensibilizzazione. Ben il 36% degli intervistati ha indicato la necessità di facilitare l’accesso ai trattamenti attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, mentre il 34% sottolinea l’importanza di formare i medici per affrontare al meglio la patologia. Altri suggeriscono di incrementare il numero di centri specializzati e di destinare più risorse alla ricerca medica (29%), elementi tutti imprescindibili per garantire un reale miglioramento.
Le politiche pubbliche, infatti, devono fare i conti con una realtà che non può più essere ignorata: la crescente domanda di interventi contro l’infertilità, che non può essere soddisfatta dai mezzi e dalle strutture attuali. Ma il miglioramento delle politiche di accesso non è sufficiente se non accompagnato da un vero e proprio cambio di mentalità a livello sociale e culturale. L’infertilità non può essere più vista come una questione privata o una difficoltà da affrontare in solitudine. Occorre un’educazione alla fertilità che parta dalle scuole e che prosegua nelle campagne di sensibilizzazione. Il tema deve essere affrontato in modo aperto e informato, per ridurre lo stigma e la vergogna che spesso circondano chi non riesce ad avere figli.
Ermanno Greco, presidente della Società Italiana della Riproduzione, ha più volte ribadito che l’infertilità non è solo un problema medico, ma è una sfida sociale ed emotiva che richiede il massimo impegno delle istituzioni e della società nel suo complesso. Per questo motivo, è fondamentale non solo abbattere i tabù, ma anche garantire il massimo supporto alle coppie che si trovano ad affrontare questo delicato percorso.