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Unhcr: “Quasi la metà dei rifugiati nelle università si sente discriminato”

Presentati alla Lumsa i risultati del questionario rivolto a studenti universitari richiedenti e beneficiari di protezione iscritti in 35 diversi atenei: “Per due su tre il sogno è lavorare in Italia”

Unhcr:

Il 46% si sente discriminato, il 35% invece ammette di aver incontrato delle difficoltà nel conoscere e fare amicizia con gli altri studenti e il 22% dei partecipanti ritiene che solo pochi colleghi studenti sarebbero disposti a fornire loro ascolto e supporto in caso di un problema personale. Questi alcuni dei risultati del questionario rivolto a studenti universitari richiedenti e beneficiari di protezione iscritti in 35 diversi atenei presentati in occasione del convegno “Manifesto dell’Università Inclusiva” organizzato dall’Università Lumsa in collaborazione con Unhcr (l’agenzia Onu per i Rifugiati) e Ruiap (Rete delle Università Italiane per l’Apprendimento Permanente).

Dai dati emerge come la discriminazione sia la principale problematica, ma sono relativamente meno (un quarto di quel 46% che dice di sentirsi discriminato) coloro che l’hanno percepita all’interno del contesto accademico, cosa che invece denuncia il 6% degli intervistati. Gli studenti asiatici e africani avvertono maggiormente questa discriminazione, anche in ragione dell’apparenza fisica. Uno studente su tre invece percepisce che la maggior parte degli studenti nella sua università ha valori e atteggiamenti diversi dai suoi.

Le problematiche che emergono in maniera più evidente, e per le quali viene richiesto il maggior supporto, sono quelle di natura finanziaria (30%), la comprensione e l’uso della lingua italiana (21%), la difficoltà nella gestione amministrativa delle borse di studio, e la mancanza di tutoraggio. Che si aggiungono ai problemi legati alla sfera personale tra cui la solitudine, la difficoltà di trovare un alloggio e l’assenza di un supporto ad hoc per rifugiati. A proposito della lingua, la conoscenza dell’italiano rappresenta una delle principali difficoltà nei percorsi d’integrazione nella vita d’ateneo: il 37% dichiara di avere un livello base e solo il 21% uno avanzato, quest’ultimo dato triplica per la lingua inglese (62%).

“I rifugiati arrivano nel paese di accoglienza, spesso privi di documenti di identità, ma praticamente sempre privi di quelli attestanti gli studi pregressi. Del resto, se anche noi dovessimo scappare in fretta e furia dalle nostre case, chi penserebbe a portarsi dietro il proprio libretto degli esami o il diploma di maturità o il certificato di laurea?” sottolinea la professoressa Paula Benevene ordinaria di psicologia del lavoro e delle organizzazioni, presidente del Corso di Laurea in Psicologia sociale, forense e delle organizzazioni all’Università Lumsa.

“In molti paesi non è possibile richiedere i documenti attestanti il livello di studio raggiunto, o perché semplicemente le strutture non esistono più o non sono più in grado di rispondere a queste richieste (pensiamo ai paesi dove c’è la guerra, ad esempio), oppure perché i rifugiati scappano da persecuzioni dirette contro di loro, per cui non riceverebbero aiuto o addirittura facendo sapere dove si trovano metterebbero a rischio la propria sicurezza e quella dei loro famigliari. Questa, purtroppo, è la situazione in cui si trovano praticamente la totalità dei rifugiati e richiedenti protezione, quando al loro arrivo in Italia, vorrebbero poter continuare i loro studi. Stanno chiedendo di applicare i principi dell’educazione permanente, in base a cui, seguendo modalità di inclusione, si dovrebbe garantire a tutti l’accesso all’istruzione”.

Le principali nazionalità rappresentate dai partecipanti sono quella afghana con il 24% e quella ucraina con il 22%. Terza la congolese, con il 7% delle risposte. Dati che appaiono in linea con i recenti sviluppi del fenomeno migratorio in Italia, segnati dalle operazioni di evacuazione e dagli arrivi seguiti alla crisi politica in Afghanistan dell’agosto 2021 e dal conflitto in Ucraina che da febbraio 2022 ha costretto alla fuga milioni di persone, di cui più di 180.000 hanno chiesto protezione in Italia.

Interessante notare il genere degli studenti di nazionalità afghana e ucraina, in maggioranza gli uomini (68%) nel primo caso e le donne (71%) nel secondo. Poco meno della metà dei partecipanti (44%) inoltre è titolare di status rifugiato; seguono i rifugiati in un altro paese con permesso per motivi di studio (16%) e i titolari di protezione temporanea (14%). Vi è una divisione pressoché equa tra i partecipanti rispetto al percorso di studio, essendo per il 48% iscritti ad una laurea triennale (di questi il 23% sono ucraini e il 19% afghani) mentre per il 49% a un percorso di laurea magistrale o specialistica (di cui il 30% sono afghani e 21% ucraini); il 2% è iscritto ad un master o dottorato. I corsi più richiesti sono: Scienze Politiche e Relazioni Internazionali (inclusi i corsi di Cooperazione allo Sviluppo) scelto dal 19% dei partecipanti all’indagine; Economia, marketing e ingegneria gestionale, macrocategoria nella quale rientrano anche i corsi di management, scelta dal 16%; a seguire i corsi in ambito IT (Information Technology) 11%.

La maggior parte degli studenti (71%) ha poi beneficiato di una borsa di studio. Tra le motivazioni della mancata fruizione prevale la scarsa conoscenza di questo tipo di opportunità (41%); molto significativa anche la proporzione (un terzo) che dichiara di non averne usufruito perché la procedura è troppo complessa. Quasi la metà delle borse di studio risultano essere offerte dalle Università, a testimonianza di un forte coinvolgimento delle istituzioni accademiche nel fornire supporto finanziario. In questa categoria rientrano le borse parte di progetti quali Unicore e Mediterraneo, ma anche alcune iniziative specifiche promosse dai singoli atenei. Le borse di studio a livello regionale o locale (erogate dagli Enti per il Diritto allo Studio Universitario) rappresentano il 27%; quelle a livello nazionale (erogate dalla Conferenza dei Rettori delle Universita’ Italiane – Crui) il 19%.

“Le borse di studio sono state erogate per sette anni dal Ministero dell’Interno in collaborazione con la Crui e con l’Ente Nazionale per il diritto allo studio. Quest’anno non è ancora uscito il bando che normalmente veniva pubblicato prima dell’estate, e che consentiva a 100 studenti internazionali rifugiati, che avevano maturato dopo il primo anno di iscrizione tutti i crediti formativi, di accedere alle successive annualità. Le università non hanno avuto nessuna comunicazione, sappiamo soltanto che per ora il Ministero non ha pubblicato nulla per accedere alle borse di studio; quindi, è molto difficile per uno studente rifugiato che già deve superare questo trauma, avere la chance di istruirsi e laurearsi. Questo rende meno plurale il mondo accademico italiano e riduce la possibilità per queste persone d’integrarsi nella nostra società, anche a livelli elevati. Così perdiamo la possibilità di internazionalizzare le nostre università attraverso il contributo degli studenti rifugiati che spesso hanno già lauree pregresse con competenze riconosciute nel loro paese e che hanno solo bisogno di essere valorizzate in un’ottica di apprendimento permanente e di vantaggio competitivo per le nostre università. Questa non è accoglienza, è internazionalizzazione” dichiara Fausta Scardigna, professoressa associata di fisiologia dei processi interculturali all’Università di Bari “Aldo Moro” e vicepresidente RUIAP.

Su questo tema è intervenuta anche una studentessa afgana di Relazioni Internazionali, Sharifa Behrad, che ha raccontato la propria esperienza di rifugiata, condividendo anche il contenuto di una lettera che assieme ad altri studenti con il suo stesso status ha inviato al Ministero dell’Interno. Di seguito riportiamo il testo: Hai mai immaginato di vivere senza un sogno, senza un obiettivo nella vita? E’ difficile pensare a qualcuno che non abbia un progetto da perseguire. Oltre a essere studenti, siamo esseri umani che hanno fatto sacrifici per ottenere qualcosa di meglio. Ma per cosa? Per realizzare i nostri sogni. Non vogliamo entrare nel merito dei diritti, ma desideriamo una comprensione autentica, e siamo certi che riceveremo una risposta positiva da parte vostra. Interrompere la possibilità di avere una borsa di studio per portare avanti il proprio obiettivo è un atto irresponsabile, che a farlo siano le istituzioni è paradossale. Se avessimo avuto un preavviso, avremmo potuto presentare domanda per la borsa di studio regionale, come qualsiasi altro studente fuorisede. Siamo ‘fuori sede’ anche noi, anzi ‘senza sede’, ma questo evidentemente non interessa. Siamo fiduciosi e continuiamo a credere di avere la possibilità di ottenere il sostegno necessario per continuare a sognare e a realizzare il nostro futuro, che è il futuro della società, non solo il nostro.

La dimensione lavorativa, infine, rimane critica. Due terzi degli studenti non lavorano e solo un quarto lo ha fatto in passato. La maggioranza esprime un interesse diretto a lavorare in Italia: il 35% dopo la laurea, mentre il 26% vorrebbe conciliare la crescita professionale e con quella accademica, svolgendo contemporaneamente entrambe le attività. Il 10% invece ha l’intenzione di continuare gli studi, sia in Italia che in altri paesi. Alcuni studenti (8%) esprimono l’aspirazione di contribuire allo sviluppo nel proprio paese d’origine, con l’opzione di lavorare o studiare e lavorare. La larga maggioranza dei partecipanti (75%) dichiara che al momento non sta lavorando e che ad oggi non è stato possibile utilizzare le esperienze acquisite in università nel mondo del lavoro: due terzi degli studenti dichiarano di aver avuto poca o nessuna possibilità di farlo.

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