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Cosa pensano i giovani della Scuola? A rispondere a questa domanda c’è il collettivo “Nubi Pe(n)santi”, composto da ragazzi e ragazze della provincia di Torino, che ha deciso di scrivere una lettera aperta a questa istituzione.

Utilizzando il metodo maieutico, gli studenti hanno riflettuto profondamente sul tema dell’educazione. La lettera è stata presentata durante il Caffè pedagogico con Daniele Novara (premio ricevuto durante il convegno Cpp “La scuola non è una gara” a cui i ragazzi e le ragazze hanno partecipato con una rappresentanza).

La Scuola è una seconda casa?

La scuola è spesso definita come una “seconda casa” per i giovani, ma non sempre ciò corrisponde al vero. “La maggior parte di noi non sente questo luogo simile a una casa perché nel percorso scolastico gli aspetti negativi prevalgono rispetto a quelli positivi.” Questo mette in luce come molti studenti non percepiscano la scuola come un luogo sicuro e di supporto.

Un sondaggio condotto da Unisona Live e Unicef ha rilevato che il 75% degli studenti associa il proprio malessere a episodi legati alla scuola. Questo dato sottolinea quanto sia cruciale creare un ambiente scolastico positivo per il benessere degli studenti. La percezione di un ambiente accogliente è fondamentale per la salute mentale degli studenti.

Il peso del giudizio

Uno dei temi principali emersi è il giudizio costante a cui sono sottoposti gli studenti. “Essere valutati e valutate e avere un voto che giudichi il nostro operato non può che generare in ognuno di noi un vorticoso senso di ansia e frustrazione.

I voti e le valutazioni generano ansia e frustrazione, distogliendo l’attenzione dal vero obiettivo dell’educazione: l’apprendimento e la crescita personale. Lo ha dimostrato un’indagine Ocse-Pisa che ha rilevato che gli studenti italiani manifestano ansia e disagio in situazioni legate al rendimento scolastico, con il 56% degli alunni che dichiara di diventare particolarmente nervoso durante le verifiche. Questo evidenzia l’importanza di un ambiente scolastico che supporti non solo l’apprendimento, ma anche il benessere emotivo degli studenti.

Incoerenza e preferenze

Il collettivo torinese ha, inoltre, criticato la mancanza di coerenza tra i professori, che inviano messaggi contraddittori riguardo all’importanza dei voti. “Ci insegnano che il giudizio personale negativo non va bene, ma invece perché quello positivo va bene?”. La risposta è “No”. Il fenomeno si chiama “ansia da prestazione” e ha portato centinaia di studenti a soffrire di disturbi di vario tipo o, spesso, anche al suicidio.

L’American College Health Association (Acha), ritiene che ansia e depressione siano i principali ostacoli al rendimento negli studi. Questo espone i soggetti ad un maggiore rischio di abuso di sostanze tossiche e a pensieri suicidi. Secondo i dati, il 65,7% degli studenti ammette di aver provato “ansia travolgente” raddoppiata negli ultimi 10 anni.

Inoltre, nella lettera è emerso quanto gli studenti percepiscano i favoritismi e i pregiudizi, che influenzano negativamente il clima scolastico e i rapporti tra pari. Studi hanno dimostrato che le percezioni degli insegnanti riguardo alla motivazione e all’impegno degli studenti possono influenzare significativamente i risultati scolastici.

Competizione e conformismo

La scuola per i giovani del collettivo viene poi descritta come un ambiente competitivo e conformista, dove gli studenti sono spinti a competere tra loro piuttosto che a collaborare. “Si innesca una competizione ‘sgomitante, muscolare, darwiniana’ in cui si perde di vista il significato originario di ‘cumpetere: procedere insieme, correre insieme verso la stessa meta’”.

Questo sistema promuove una standardizzazione che annulla il pensiero critico e la crescita individuale, favorendo un conformismo opprimente. Un’analisi del Centro Studi Erickson ha esaminato l’inclusione scolastica e sociale in Italia, evidenziando come la competizione possa creare un ambiente meno inclusivo e aumentare il rischio di esclusione per gli studenti.

Il Registro Elettronico: tra controllo e fiducia

Il registro elettronico, sebbene utile, è stato descritto come uno strumento di controllo che riduce l’autonomia degli studenti e la comunicazione tra loro e i genitori. “I nostri genitori vengono costantemente informati di quello che facciamo, i voti che prendiamo, dove siamo, annullando la comunicazione tra genitori e studenti“.

Questo sistema, infatti, tende a ridurre la comunicazione diretta e immediata, fondamentale per il funzionamento delle relazioni umane, soprattutto quando si parla di figli in età scolare.

Non è la prima volta che l’uso di strumenti digitali influenzi negativamente l’autonomia degli studenti e la loro capacità di autoregolarsi. Ma se si parla sempre dei cellulari e del loro divieto nelle scuole, si deve considerare anche valido poter mettere in discussione anche gli strumenti di controllo e non solo di “distruzione di massa” (come definito dal ministro italiano Valditara).

Il collettivo “Nubi Pe(n)santi” è costituito da un gruppo di adolescenti residenti nella ValMessa, Bassa Val di Susa, che si interrogano, negli spazi dell’Associazione LiberAmente, concessi dal Comune di Almese, in collaborazione con la Consulta Giovani, su argomenti a loro cari, su cui hanno necessità di esprimersi liberamente, senza giudizio, scambiando pensieri ed emozioni, utilizzando diversi linguaggi.

La loro lettera rappresenta una voce critica e riflessiva sul sistema scolastico attuale. I giovani esprimono il desiderio di un cambiamento radicale, basato su una maggiore comunicazione, empatia e comprensione reciproca. La loro speranza è che, attraverso il dialogo e la riflessione, sia possibile rendere la scuola un luogo migliore per tutti.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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L’Italia degli ultracentenari, chi sono e dove vivono

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anziano mani

In Italia, superare i cento anni è sempre meno un traguardo eccezionale e sempre più un fenomeno diffuso: al 1° gennaio 2024, sono 22.552 i centenari italiani, l’81% dei quali sono donne, secondo i dati Istat. Dieci anni fa erano poco più di 17mila, ma da allora il loro numero è cresciuto del 30%, dando vita a una vera e propria “rivoluzione della longevità”. E non finisce qui. Il trend potrebbe continuare a salire, mentre inizia a farsi largo una nuova categoria di ultra-longevi, i semi-supercentenari, quelli che superano i 105 anni, e i supercentenari, che oltrepassano la soglia dei 110.

Il volto dell’Italia cambia insieme ai suoi abitanti più longevi: anziane signore, spesso vedove, che vivono prevalentemente in famiglia e che costituiscono quasi una società parallela di longevi silenziosi, sparsi tra Lombardia, Lazio e Emilia-Romagna, fino ai borghi della Liguria e del Molise. Con un tasso di crescita così rapido, c’è da chiedersi: quali fattori rendono così speciale la longevità italiana?

Un fenomeno al femminile

In cima alla lista, c’è senza dubbio il “fattore donna”. Le donne italiane non solo vivono più a lungo, ma rappresentano una vera e propria élite della longevità: nell’89% dei casi, chi supera i 105 anni è donna, mentre gli uomini compongono appena l’11% di questa fascia. Il segreto? Un insieme di vantaggi biologici e sociali che permette loro di vivere più a lungo e di superare i mariti, per la maggior parte deceduti da tempo.

Questa tendenza femminile a vivere oltre il secolo di vita si riflette anche nel numero esiguo di uomini ultra-longevi coniugati. Tra i semi-supercentenari, il 13% degli uomini è ancora sposato, rispetto a un solo 1% delle donne. È una realtà strutturale che influenza l’intera dinamica familiare della longevità: nella terza età avanzata, infatti, le donne si ritrovano quasi sempre vedove, mentre gli uomini anziani hanno più possibilità di condividere i loro ultimi anni con un partner, beneficiando di cure e supporto emotivo.

Dove vivere a lungo in Italia

L’Italia centenaria presenta una geografia della longevità che racconta anche le disparità regionali. La Lombardia vanta il numero assoluto più alto di centenari, con oltre 3.000 residenti ultracentenari, seguita da Lazio ed Emilia-Romagna. Tuttavia, se si considera il numero di centenari in rapporto alla popolazione, è la Liguria a guidare la classifica: qui si contano 61 centenari ogni 100mila abitanti, un dato che riflette l’età media elevata della popolazione ligure.

Questo sorprende poco, considerando che la Liguria è una regione storicamente caratterizzata da una bassa natalità e da una tradizione di vita tranquilla e legata al territorio, due fattori associati all’invecchiamento della popolazione. Seguono il Molise, con 58 centenari ogni 100mila abitanti, e il Friuli Venezia-Giulia, con 54. La Lombardia, pur avendo il maggior numero di ultracentenari in valori assoluti, si posiziona più in basso per densità, con 34 centenari ogni 100mila abitanti, sotto la media nazionale di 38.

Differenze territoriali che suggeriscono che la longevità è fortemente influenzata da elementi socio-culturali e ambientali, oltre che dall’accesso ai servizi sanitari e dallo stile di vita. La Liguria e il Molise, in particolare, evidenziano modelli di invecchiamento legati a uno stile di vita meno stressante e più comunitario, che favorisce il supporto reciproco tra anziani e famiglie.

Semi-supercentenari e supercentenari: chi sono e dove vivono

Se già i centenari sono un fenomeno notevole, lo sono ancor più i semi-supercentenari e i supercentenari. I primi, ovvero coloro che hanno superato i 105 anni, sono 677 in Italia, con una prevalenza del Molise, che registra la maggiore concentrazione, con 3,1 ogni 100mila abitanti. La Liguria e la Basilicata seguono a ruota, confermando la predisposizione di queste aree alla longevità.

Tra i supercentenari, coloro che hanno oltrepassato la soglia dei 110 anni, il dato si fa ancora più selettivo: in Italia ne rimangono solo 21, dei quali 20 sono donne. Anche in questo caso, la distribuzione geografica evidenzia differenze notevoli, con una concentrazione di supercentenari nelle stesse regioni che si distinguono per la longevità diffusa, dimostrando che l’ambiente, la storia e la cultura locale possono giocare un ruolo essenziale nel sostenere una vita lunga e qualitativamente buona.

All’inizio del 2024, la persona più anziana in Italia è una donna residente in Emilia-Romagna, che a ottobre ha raggiunto l’incredibile traguardo dei 114 anni. Per quanto riguarda gli uomini, il più anziano al 1° gennaio 2024 era un residente del Molise, che aveva 110 anni, ma è venuto a mancare nei primi mesi dell’anno. Alla fine di ottobre, il nuovo detentore del titolo di “decano” maschile risiede in Basilicata e ha anch’egli superato i 110 anni.

I record assoluti di longevità in Italia, tuttavia, rimangono imbattuti: quello maschile è ancora detenuto da Antonio Todde, sardo, che morì nel 2002 a pochi giorni dal compiere 113 anni, mentre quello femminile è di Emma Morano, piemontese, scomparsa nel 2017 a 117 anni. Morano, prima della sua morte, aveva anche ottenuto il titolo di donna più longeva del mondo.

Oggi, il record mondiale di longevità tra gli uomini è detenuto da John Alfred Tinniswood, un cittadino britannico che ha raggiunto i 112 anni, mentre tra le donne il primato spetta a Tomiko Itooka, giapponese, con 116 anni. A livello globale, la persona più longeva nella storia documentata ufficialmente è Jeanne Calment, una francese che visse fino a 122 anni, morendo nel 1997. Il record maschile, invece, spetta a Jirōemon Kimura, un giapponese che visse fino a 116 anni, deceduto nel 2013.

L’importanza della famiglia

Un altro aspetto peculiare della longevità italiana è la tendenza dei centenari a vivere in famiglia piuttosto che in strutture residenziali. Quasi il 90% degli italiani che superano i 100 anni risiede ancora in un contesto familiare, una percentuale che aumenta al 96,7% tra i supercentenari. La famiglia si conferma un pilastro della società italiana, fornendo cure e sostegno che le strutture istituzionalizzate, pur essendo diffuse, spesso non possono garantire per un periodo prolungato.

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L’aspettativa di vita non è uguale per tutti in Europa e...

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Coppia Di Anziani Canva

Le donne vivono più degli uomini e in alcune regioni europee l’aspettativa di vita alla nascita può essere molto diversa. A fotografare la situazione della longevità in Europa è il report Eurostat che segnala che nel l’aspettativa di vita alla nascita è continuata a crescere, ma non in maniera uniforme.

Se da un lato la vita si allunga per molti, dall’altro emerge un panorama frastagliato, con differenze significative non solo tra i singoli Paesi, ma anche all’interno degli stessi Stati membri. Le disuguaglianze regionali e di genere sono ancora ben visibili: ecco dove.

Le donne vivono più a lungo?

In Europa, le donne continuano a vivere più a lungo degli uomini, con un divario che nel 2022 si è attestato sui 5,4 anni. In media, le donne dell’Unione europea possono aspettarsi di vivere fino a 83,3 anni, mentre gli uomini raggiungono “solo” i 77,9 anni.

Questi numeri si riflettono nelle statistiche regionali, dove alcune aree spagnole si distinguono per l’alto livello di aspettativa di vita. La Comunidad de Madrid, per esempio, detiene il primato con una media di 87,7 anni per le donne, seguita dalla Comunidad Foral de Navarra e da Castilla y León. Ma il panorama non è altrettanto luminoso in altre aree dell’Europa, in particolare in alcune zone dell’Est.

Le regioni più vulnerabili, come Mayotte (un dipartimento francese situato nell’Oceano Indiano) e alcune zone della Bulgaria, presentano le aspettative di vita più basse. A Mayotte, ad esempio, l’aspettativa di vita per le donne si ferma a 74,4 anni, un dato che segnala chiaramente disuguaglianze economiche, sociali e sanitarie significative.

A livello regionale, Severozapaden e altre aree bulgare come Severen tsentralen e Yugoiztochen registrano numeri simili, segnalando una persistente difficoltà di accesso ai servizi sanitari e a condizioni di vita adeguate.

Per gli uomini un futuro “meno roseo”

Anche per gli uomini, Madrid si conferma il “luogo del benessere” con un’aspettativa di vita di 82,4 anni. In questa classifica, il nord Italia e la Svezia non sono lontani, con Trento e Stoccolma che raggiungono rispettivamente 82,3 anni.

Tuttavia, la situazione cambia drasticamente in altre regioni, dove l’aspettativa di vita degli uomini scende ben al di sotto dei 70 anni. Nella regione bulgara di Severozapaden, ad esempio, gli uomini vivono in media solo 68,7 anni, un dato allarmante che riflette povertà, disoccupazione e una minore qualità delle infrastrutture sanitarie.
Anche in Lettonia e altre aree bulgare, l’aspettativa di vita per gli uomini è ben al di sotto dei 70 anni. In queste regioni, le disuguaglianze sociali, le difficoltà economiche e un sistema sanitario spesso carente sembrano giocare un ruolo fondamentale nella determinazione della durata della vita.

È interessante notare che, mentre le donne tendono a vivere più a lungo in tutte le regioni, gli uomini più poveri e meno assistiti sono quelli che registrano le perdite maggiori in termini di longevità.

Disparità di genere

Un dato che non passa inosservato è la marcata disparità di genere. In alcuni Paesi, soprattutto in quelli baltici e in certe regioni della Polonia e della Romania, il divario tra uomini e donne è particolarmente evidente.

In Lettonia, ad esempio, le donne vivono in media 10 anni più a lungo degli uomini. Questo ampio divario potrebbe essere spiegato in parte da fattori come abitudini personali, differenze nelle condizioni lavorative e una generale minore attenzione alla salute da parte della popolazione maschile. La vita più lunga delle donne in queste aree può anche riflettere una maggiore cura della propria salute e un accesso migliore ai servizi sanitari preventivi.

Per contro, in Paesi come la Danimarca, l’Irlanda, i Paesi Bassi e la Svezia, la differenza tra le aspettative di vita di uomini e donne è molto più contenuta. Qui, il divario di genere è talmente ridotto che, in alcune regioni come Mayotte, praticamente non esiste: le donne vivono solo 0,4 anni in più rispetto agli uomini. Questo dato suggerisce che in alcune aree dell’Europa i fattori sociali, economici e sanitari stiano lentamente contribuendo a ridurre il gap di longevità tra i due sessi, un segno che, almeno in qualche ambito, la parità di genere è possibile.

Perché le donne vivono più a lungo?

Storicamente, le donne hanno vissuto più a lungo degli uomini in quasi tutti i Paesi del mondo. Il divario di genere per la longevità è dovuto al funzionamento immunitario femminile più attivo, l’effetto protettivo degli estrogeni, gli effetti compensatori del secondo cromosoma X, la riduzione dell’attività dell’ormone della crescita e l’influenza dello stress ossidativo sull’invecchiamento e sulle malattie.

Lo studio “Twentieth century surge of excessive adult male mortality”, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, sostenuto dal National Institute on Aging e condotto dalla University of Southern California Leonard Davis School of Gerontology ha rilevato che diversi sono i fattori che possono incidere su questo gap di longevità:

Fattori bio-genetici: Le donne, con il corredo cromosomico XX, potrebbero godere di una maggiore protezione contro alcune patologie grazie a un cromosoma X in più rispetto agli uomini (XY). Le donne, inoltre, sono soggette a patologie riproduttive differenti (tumori al seno e all’utero, mentre gli uomini alla prostata). Anche l’effetto protettivo degli ormoni femminili potrebbe giocare un ruolo.
Fattori bio-psicologici: Il testosterone maschile è associato a comportamenti più aggressivi e rischiosi, aumentando la mortalità maschile per suicidi, violenze, incidenti e malattie legate a stili di vita rischiosi.
Fattori comportamentali: Le differenze nei comportamenti di salute, come l’abitudine al fumo, sono state rilevanti. Storicamente, il fumo era più comune tra gli uomini, ma ha visto una crescita tra le donne negli ultimi decenni, con effetti negativi sulla salute cardiovascolare e i tumori.

Sebbene le donne vivano più a lungo degli uomini, la loro vita sana è meno lunga. Le donne soffrono più frequentemente di malattie disabilitanti (osteoporosi, artrite reumatoide), mentre gli uomini sono maggiormente colpiti da malattie letali come i tumori e le malattie cardiovascolari. Pertanto, le donne tendono a vivere più a lungo ma con un periodo di vita attiva più breve rispetto agli uomini.

L’Europa mostra così un mosaico di esperienze diverse e il divario di longevità tra diverse aree è un richiamo alla necessità di politiche sanitarie più inclusive, mirate a ridurre le disuguaglianze e a garantire a tutti, indipendentemente dalla regione in cui vivono, una vita lunga e sana. La lunga vita non è solo una questione di numeri, ma di opportunità. La vera sfida per l’Europa del futuro è rendere l’aspettativa di vita, soprattutto quella sana, un diritto per tutti, senza che il luogo di nascita o il genere diventino fattori di disuguaglianza.

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Congedo parentale all’80% solo per i papà, la proposta...

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Papà Biberon Neonato

Innalzare dal 30% all’80% della retribuzione l’indennità per il terzo mese di congedo parentale, ma solo per i papà. È questa è la proposta avanzata dal presidente dell’Inps Gabriele Fava in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato per la Legge di bilancio. La proposta mira a favorire una ripartizione più equa delle responsabilità genitoriali, che in Italia sono ancora fortemente sbilanciate sulle madri, che usufruiscono del congedo spesso per periodi più lunghi dei padri e con pesanti ricadute sulle loro carriere.

Perché il congedo riservato ai papà? Le radici della disparità

I numeri parlano chiaro. In Italia, dopo la nascita del primo figlio la probabilità che una madre lasci il settore privato aumenta al 18%, un tasso significativamente superiore rispetto all’11% degli anni precedenti alla maternità. Invece, per i padri, il rischio di abbandono del posto di lavoro rimane pressoché invariato. Questo quando va bene. Quando va male, il che non è raro, le neomamme sono costrette a dimettersi, a sostituire il loro lavoro con uno completamente diverso e non retribuito mentre la loro carriera si arena. Ancora una volta, parlano i dati: secondo il report Save the Children ‘Le Equilibriste – La maternità in Italia 2024, nel nostro Paese una lavoratrice su cinque rinuncia al lavoro dopo la maternità e il 72,8% delle dimissioni dei neogenitori proviene dalle mamme.

Il Rapporto evidenzia inoltre che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello europeo pari a 9,4 punti percentuali.

Una nuova visione del congedo parentale: incentivare la partecipazione maschile

La proposta dell’Inps di riservare l’indennità maggiorata all’80% ai padri mira a ridurre questo squilibrio. La Manovra finanziaria 2024 ha mirato allo stesso obiettivo, cambiando le norme sul congedo parentale. L’indennità del secondo mese è stata portata dal 30% al 60%, che diventa 80% solo per il 2024. La scorsa legge di Bilancio ha previsto un indennizzo dell’80% della retribuzione per i primi due mesi di congedo parentale, anche se punto occorre fare delle precisazioni. In quest’anno che ormai volge al termine, l’indennità per il primo mese è salita dal 60% all’80% mentre quella del secondo mese è rimasta all’80% solo per le famiglie che hanno terminato o termineranno il congedo obbligatorio entro quest’anno.

In pratica, la Manovra 2024 ha aggiunto un’indennità pari all’80% della retribuzione per un mese entro il sesto anno di vita del bambino per i lavoratori dipendenti che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, successivamente al 31 dicembre 2023. L’attuale disciplina del congedo parentale concede a ciascun genitore dipendente la possibilità di prendersi fino a dieci mesi di congedo retribuito (con l’indennità all’80% limitata a una mensilità), da fruire nei primi 12 anni di vita del figlio.

Tuttavia, nonostante le disposizioni legislative che incentivano l’uso condiviso del congedo, sono soprattutto le madri a richiedere il congedo e a usufruirne per periodi più estesi. Una circostanza che cozza persino con l’obiettivo del congedo parentale, come ha spiegato il direttore centrale Studi e Ricerche dell’Inps Gianfranco Santoro: “Se il fine del congedo parentale è quello di favorire l’occupazione femminile, lo si riservi al padre”. Assegnare un’indennità elevata esclusivamente ai padri rappresenterebbe un incentivo concreto a modificare il contesto attuale: non solo permetterebbe ai padri di sentirsi legittimati nel prendere tempo dal lavoro per accudire i figli, ma potrebbe contribuire a un cambio di prospettiva collettiva, in cui il ruolo paterno di cura viene normalizzato e valorizzato anche sul piano professionale.

Sono gli stessi papà a chiedere più congedi parentali per la nascita dei propri figli, in modo da poter condividere i primi attimi della loro vita e distribuire in maniera equilibrata i compiti con la partner. Insomma, la proposta di riservare il terzo mese di congedo parentale ai padri è al passo con i tempi e risponde all’esigenza di “non lasciare le donne troppo lontane dal mercato del lavoro, favorendone un loro rientro, senza pregiudicarne lo sviluppo professionale e economico”, ha spiegato ancora Santoro aggiungendo che “Sommare tre mesi di congedo parentale ai cinque mesi di congedo obbligatorio significa allontanare le madri dal mondo del lavoro”.

Dimissioni e difficoltà di conciliazione: una questione ancora femminile

L’impatto della maternità sulle carriere femminili è confermato anche dai numeri delle dimissioni volontarie. Nel 2022, ben 61.391 genitori con figli piccoli hanno lasciato il lavoro volontariamente, con una netta prevalenza di donne (72,8%). Le ragioni più comuni? La difficoltà nel conciliare lavoro e cura (41,7%) e le problematiche organizzative (21,9%). La mancanza di servizi di assistenza adeguati e un contesto lavorativo spesso poco flessibile continuano a rappresentare un grande ostacolo per le madri italiane, troppe volte costrette a rinunciare alla carriera per far fronte agli impegni familiari. Una situazione iniqua che dal privato ricade sul pubblico, aggravando la crisi demografica del Paese.

Il modello dei Paesi nordici

La proposta dell’Inps si ispira anche a modelli europei, in particolare a quelli dei paesi nordici, dove i congedi riservati ai padri hanno avuto un impatto significativo sull’equilibrio di genere. In Svezia, ad esempio, una parte del congedo parentale è riservata esclusivamente ai padri: se non viene utilizzata, va persa. Questo approccio ha contribuito a modificare le dinamiche familiari, riducendo le disparità di genere nel mercato del lavoro e creando una cultura in cui entrambi i genitori condividono più equamente i compiti di cura.

Non è un caso che in Svezia e in Danimarca lavorino di più le madri con figli che quelle senza (+7,7% in Svezia e +7% in Danimarca). Cose che un italiano fa fatica anche a leggere. Una situazione simile, con differenze minori, è stata registrata in Croazia, Lettonia, Portogallo, Slovenia, Paesi Bassi e Finlandia, come evidenziato dal rapporto 2024 di Eurostat sull’uguaglianza e la non discriminazione nell’Ue.

Il futuro delle politiche familiari in Italia

L’idea di riservare dell’Inps di riservare il terzo mese di congedo parentale all’80% esclusivamente ai papà è interessante, ma l’esperienza ci insegna che per tornare a riempire le culle non bastano le misure ad hoc.

Molto dipenderà dalla capacità delle aziende e delle istituzioni di sostenere un cambiamento culturale più ampio, in cui la cura dei figli venga considerata una responsabilità condivisa e non un “dovere” quasi esclusivo delle madri. Affinché questa proposta non rimanga solo un progetto ambizioso, sarà fondamentale il coinvolgimento delle aziende nella promozione di modelli di lavoro flessibili, per favorire un reale bilanciamento tra lavoro e vita privata, sia per le madri che per i padri. Qualcosa in Italia si sta muovendo ma quasi esclusivamente da parte delle grandi aziende che hanno la potenza economica, infrastrutturale e manageriale per introdurre queste novità. Se si vuole vincere la sfida demografica, serve che i buoni esempi di welfare siano la regola, non l’eccezione.

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