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Il viaggio di Giorgio Cantarini: dal bambino di “La Vita è Bella” al suo percorso nel cinema di oggi
Giorgio Cantarini, nato il 12 aprile 1992 a Orvieto, è un attore italiano il cui talento si è rivelato sin dalla tenera età. Il suo percorso artistico è iniziato in modo quasi fiabesco quando, a soli cinque anni, ha avuto l’opportunità di recitare nel celebre film di Roberto Benigni, La vita è bella (1997). In quel film, Giorgio ha interpretato il piccolo Giosuè Orefice, figlio del protagonista Guido, e la sua interpretazione ha immediatamente catturato il cuore del pubblico di tutto il mondo.
La dolcezza e l’innocenza con cui Giorgio ha dato vita a Giosuè hanno reso la sua interpretazione impossibile da dimenticare. Ogni suo sorriso, ogni sguardo ingenuo e fiducioso ha toccato il cuore di chi guardava, facendo scaturire un’emozione così pura e profonda che, ancora oggi, rimane scolpita nei ricordi di chi ha vissuto quella storia attraverso i suoi occhi.
Giosuè ha incarnato la purezza di un bambino che, pur immerso nella brutalità dell’Olocausto, riesce a trovare conforto nella fantasia protettiva del padre. Con naturalezza e sensibilità, ha saputo rappresentare quel delicato equilibrio tra la spensieratezza infantile e la cruda realtà, creando un ritratto di resilienza e speranza che ha toccato corde emotive universali.
La vita è bella ha trionfato agli Oscar, vincendo tre statuette, tra cui quella per il Miglior Film Straniero, e in questo successo, l’interpretazione di Giorgio ha avuto un ruolo fondamentale.
Dopo il clamoroso successo del suo debutto, Giorgio è tornato sul grande schermo nel 2000 con un altro ruolo iconico, interpretando il figlio di Massimo Decimo Meridionel kolossal di Ridley Scott, Il Gladiatore. Sebbene il suo fosse un ruolo breve, la sua presenza in un film di tale portata, accanto a una star del calibro di Russell Crowe, ha confermato ulteriormente il suo talento e il suo potenziale nel mondo del cinema.
La scelta consapevole di Giorgio
Nonostante l’incredibile successo che lo ha travolto fin da bambino, Giorgio ha deciso di non farsi trascinare da quella valanga di notorietà. Ha scelto, con maturità e consapevolezza, di mantenere i piedi per terra e prendere il tempo necessario per ascoltare sé stesso, invece di lasciarsi condizionare dalle aspettative del mondo esterno.
Con saggezza e maturità, ha preferito dedicarsi agli studi, ritagliandosi il tempo necessario per riflettere e fare scelte ponderate riguardo alla sua carriera. Ha continuato a lavorare come attore, ma con una presenza più discreta, partecipando a progetti cinematografici e televisivi, sia in Italia che all’estero, mantenendo sempre il controllo sulla propria evoluzione artistica.
La sfida di Giorgio: dalla recitazione al ballo
Nel 2005, ha accettato una sfida diversa partecipando a Ballando con le Stelle, dove ha messo in mostra non solo il suo talento, ma anche la sua personalità simpatica e affabile.
Negli anni successivi, Giorgio ha intrapreso un percorso di studio approfondito della recitazione, ampliando le sue competenze nel teatro e sperimentando nuove forme espressive. Pur non essendo più sotto i riflettori con la stessa intensità dei suoi esordi, ha mantenuto intatta la sua passione per l’arte, scegliendo progetti che rispecchiassero la sua crescita personale e professionale. Lo abbiamo incontrato in esclusiva, di seguito l’intervista in italiano – per leggerla anche in altre lingue, visita www.menover50mode.com.
La nostra intervista esclusiva
Giorgio, grazie di aver accettato questa intervista!
“Il piacere è mio.”
Come hai vissuto il passaggio dall’essere un attore bambino in film così iconici a costruire la tua carriera da adulto?
“Crescendo, dopo “La vita è bella” e “Il Gladiatore”, ho continuato a lavorare nel mondo del cinema, partecipando ogni 3-4 anni a qualche progetto, come nuovi film per la TV o piccole collaborazioni. Partecipavo a questi progetti quando erano interessanti, anche se all’epoca non avevo una vera aspirazione a fare l’attore. Non era qualcosa che mi interessava davvero. In pratica, era un’attività in cui ero capitato quasi per caso e che sapevo fare, quindi ogni tanto accettavo delle parti, ma in realtà volevo fare altro. Come molti ragazzi della mia età, sognavo di diventare calciatore, professore, ingegnere… A un certo punto volevo persino fare il Papa! È stato solo verso la fine del liceo che ho cominciato a pensare seriamente alla recitazione. Mi piaceva molto il cinema, i film, le grandi interpretazioni degli attori di Hollywood. Così ho deciso di provare ad entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove sono stato ammesso. Ho studiato lì per tre anni, e in quel periodo è nata una vera passione per la recitazione. Mi sentivo appagato, sia a livello personale che sociale. Mi piaceva lavorare con gli altri, far parte di un gruppo, ma anche lavorare su me stesso. Dopo il diploma, ci è voluto un po’ per rientrare nel mondo del lavoro, ma negli ultimi anni le cose sono andate molto bene. Inizialmente non è stato semplice, né trovare continuità nel lavoro né superare il peso del modo in cui avevo iniziato, con il ruolo in “La vita è bella”. Mi sentivo sotto pressione, come se dovessi sempre dare il massimo, superando quel traguardo, quella performance. Ma col tempo ho capito che non era necessario. A cinque anni, nel film, non stavo recitando, stavo solo interpretando me stesso. Non c’era una vera “performance”, ma una spontaneità naturale. Superato questo blocco, ho cominciato a esprimermi con molta più libertà. L’esperienza, lo studio e il tempo mi hanno permesso di crescere come attore, e ora mi sento più libero di esprimermi, molto più di quanto non fosse all’inizio, subito dopo l’accademia.”
Guardando indietro ai tuoi ruoli più iconici, c’è stato un momento in cui hai sentito il peso delle aspettative o della notorietà, e come hai gestito quei sentimenti? Quali sono state le sfide più importanti?
“In parte, ti ho già risposto nella prima domanda, parlando di come sentivo, tra virgolette, il “peso” della notorietà che avevo acquisito da bambino. Però è stato durante gli anni di studio e soprattutto nei primi anni dopo il diploma in recitazione che ho iniziato a percepire maggiormente questa pressione. Dovevo entrare nel mondo del lavoro vero e proprio, e sentivo di dover dimostrare qualcosa in più rispetto agli altri. Era come se nulla mi fosse dovuto, e dovevo provare di essere all’altezza del passato. Con il tempo, però, ho capito che questa era una stupidaggine. Guardando indietro, uno dei primi lavori che mi ha dato più soddisfazione è stato il cortometraggio “Il dottore dei pesci”, diretto da Susanna Della Sala, una regista e scenografa davvero talentuosa. È stato uno dei miei primi lavori dopo il diploma e ha ottenuto molto successo nei festival di tutto il mondo. Abbiamo vinto premi a Los Angeles, in Canada e in Olanda, e io sono stato nominato come miglior attore in un festival a Los Angeles. Sono anche andato a ritirare il premio, perché il regista non poteva essere presente, e io mi trovavo già negli Stati Uniti. Essendo uno dei miei primi lavori, e avendo lavorato con una regista che aveva studiato nella mia stessa scuola, sentivo una certa pressione. Anche molti altri nei reparti tecnici del corto avevano frequentato la stessa scuola, quindi c’erano aspettative alte, e volevo davvero dare il massimo. Credo di esserci riuscito, visto che la mia interpretazione è piaciuta molto. “Il dottore dei pesci” è una storia semplice e carina, molto fantasiosa, quasi fiabesca. Per quanto riguarda come ho gestito questi sentimenti di pressione, beh, non saprei dirti esattamente. Sono una persona molto positiva, e anche se a volte queste emozioni mi bloccavano un po’ artisticamente, ho sempre cercato di lavorare su me stesso e di dare il meglio. Quando mi sentivo bloccato o non al 100%, cercavo di capire cosa mi stesse trattenendo e, passo dopo passo, sono riuscito a elaborare queste sensazioni. Di questo sono molto orgoglioso.”
Dopo aver scelto di mantenere un profilo più discreto nella tua carriera, quali valori o principi ti hanno guidato nelle tue scelte artistiche?
“Dopo aver scelto di mantenere un profilo più discreto nella mia carriera, ho sempre seguito dei principi ben definiti nelle mie scelte artistiche. Il mio obiettivo principale è sempre stato quello di partecipare a progetti validi, con un certo livello di qualità. Fin dall’inizio, insieme al mio team, abbiamo cercato di impostare una direzione chiara, scegliendo con attenzione i progetti a cui aderire e decidendo di non propormi per certi tipi di lavori. Questo è stato importante per mantenere un certo livello di integrità artistica. Avendo iniziato in un modo particolare, anche se ero solo un bambino e non ancora un professionista, ho sempre voluto mantenere una certa coerenza nelle scelte. Ovviamente, non è facile replicare successi come quelli de “La vita è bella” o “Il gladiatore”, ma ci siamo concentrati sul non partecipare a prodotti che, diciamo, non riteniamo altrettanto validi dal punto di vista artistico. Per esempio, abbiamo deciso di evitare le fiction o le soap opera di un certo tipo, senza fare nomi, ma parliamo di quella televisione meno ricercata artisticamente. Abbiamo preferito investire maggiormente sul cinema e su progetti televisivi di un certo spessore. È stato possibile farlo soprattutto negli ultimi anni, con l’avvento delle piattaforme streaming, che hanno cambiato il modo di fare serialità, portando più investimenti e nuove storie da raccontare. Devo ammettere, però, che finora non ho ancora avuto la possibilità di lavorare in una serie TV, ma è una cosa che aspetto. In ogni caso, ho sempre cercato di aderire solo a progetti che mi appassionassero e che valorizzassero il mio lavoro. Solo una volta ho fatto un’eccezione, accettando un progetto esclusivamente per motivi economici, e me ne sono pentito. Non ti dirò di quale progetto si tratta, ma dopo quell’esperienza, ho deciso che non avrei mai più fatto qualcosa solo per soldi.”
In che modo la recitazione e il teatro sono cambiati per te nel corso degli anni, e cosa cerchi oggi in un progetto che ti stimola a livello personale e professionale?
“La mia visione della recitazione e del teatro è cambiata nel tempo, specialmente con la maturazione della mia consapevolezza come attore. Anche il mio approccio è diverso ora. Appena diplomato, mi sentivo un po’ come quando impari a guidare: all’inizio devi concentrarti su ogni piccolo movimento – inserire la prima, la seconda, gestire la frizione, il freno – ma con l’esperienza tutto diventa più fluido e automatico. Negli ultimi anni, ho notato con sorpresa come il mio modo di affrontare una sceneggiatura o un testo sia diventato più naturale, quasi automatico. C’è molto meno “lavoro” consapevole, molte cose arrivano spontaneamente, senza dovermi sforzare per capire il personaggio o il testo. Un’altra cosa che mi ha colpito è la facilità con cui oggi entro in un personaggio, rispetto al passato, e allo stesso tempo, la maggiore difficoltà nel lasciarlo andare. L’ultimo film che ho girato è stato particolarmente stimolante per me. Si tratta di una produzione in due lingue, italiano e inglese, girata tra Italia e Stati Uniti. Interpreto un soldato affetto da sindrome da stress post-traumatico, un personaggio che ha vissuto la guerra e che attraversa gli anni ’60 con una vita molto complessa. Nonostante la complessità del ruolo, sono riuscito a immergermi nel personaggio con facilità, ma ho avuto difficoltà a uscirne. Dopo la prima tranche di riprese, che continueranno tra settembre e ottobre in Friuli, ho impiegato almeno una settimana per liberarmi delle sensazioni intense del personaggio. Questo mi ha davvero sorpreso, anche se in passato avevo già notato qualcosa di simile, anche in ruoli meno intensi. Ho capito che posso entrare nei personaggi in modo molto profondo e naturale, senza troppo sforzo, soprattutto quando sento una certa affinità con loro. Se invece il personaggio è più distante da me, richiede un lavoro più approfondito. Onestamente, non sono ancora arrivato al punto della mia carriera in cui posso scegliere liberamente cosa fare o cosa non fare. Ahimè, non ci sono ancora, ma so che quel momento arriverà. Per ora mi candido a vari progetti, cercando ovviamente quelli che ritengo validi, ma spesso devo anche accettare ciò che arriva, senza poter fare una grande selezione. Naturalmente, devono essere progetti che abbiano un valore artistico e professionale, dove interpreto un personaggio che mi valorizza, e soprattutto che raccontino una storia degna di essere narrata, diretta da persone che sappiano il fatto loro. Purtroppo, mi è capitato di imbattermi in persone che volevano coinvolgermi in progetti che, alla fine, non erano all’altezza, perché fare un film, o anche solo un cortometraggio, non è facile. Serve esperienza, non solo mezzi produttivi, ma anche una visione artistica. Non è detto che tu debba per forza aver studiato nelle migliori scuole, ma devi avere una visione d’insieme e sapere come formare una squadra. Ogni singolo elemento deve avere la giusta esperienza per realizzare qualcosa di buono, perché il rischio di fare qualcosa di terribile è sempre dietro l’angolo. Quello che cerco, quindi, sono persone che sappiano valorizzarmi, che abbiano una storia interessante da raccontare e, se possibile, che portino una visione originale, fuori dagli schemi. Amo molto progetti che escono dal canone tradizionale, come il film di cui ti parlavo, “Il dottore dei pesci”, che ha un’atmosfera fiabesca in cui mi ritrovo particolarmente. Un sogno che ho da tempo è quello di interpretare un cattivo, un ruolo che non mi è mai stato offerto. Probabilmente perché non ho il classico “physique durôle” del cattivo: mi dicono sempre che ho gli occhi troppo buoni! Ma mi piacerebbe davvero, e sono convinto che lo farei bene, magari interpretando un personaggio che sembra buono, ma che poi rivela un lato oscuro e subdolo. In realtà, ho avuto un assaggio di questo tipo di ruolo a teatro, l’anno scorso, nello spettacolo Altrove, scritto e diretto da Agustina Risotto Interlandi. Interpretavo un giovane marito, premuroso all’apparenza, ma che si rivela un manipolatore calcolatore. La storia racconta di una giovane coppia forzata a convivere durante il lockdown, e con il tempo emergono i demoni della loro relazione. Mi piacerebbe molto interpretare di nuovo un personaggio così, qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ho fatto finora. Penso che sarebbe interessante, dato il mio volto “buono”, interpretare qualcuno che all’apparenza sembra innocuo, ma nasconde un lato oscuro. Sarebbe un contrasto davvero intrigante!”
Ci potresti raccontare alcuni aneddoti divertenti accaduti con Benigni durante le riprese di “La vita è bella”?
“Certo, posso raccontarti qualche aneddoto divertente su Benigni! Ricordo che durante le riprese, considerando che avevo solo cinque anni, non sempre il mio umore era adatto per girare. A volte, come ogni bambino, non ero nel mood giusto, e Roberto cercava sempre di farmi sorridere, di rilassarmi e mettermi a mio agio. C’era una cosa che faceva spesso e che mi faceva ridere un sacco. Mi diceva: “Giorgio, cosa c’è? C’è qualcuno che non ti piace? Lo mandiamo via. Quello là ti piace? Sì? E quello là? No? Allora tu, vai via!” E così scherzava, mandava via le persone per farmi ridere e calmarmi. Un’altra cosa simpatica riguarda il soprannome “Testa Dura”. Nel film, il personaggio di Guido mi chiama così, ma in realtà tutto nasce dalla realtà! Io sono sempre stato un po’ testardo, in senso buono (o cattivo, dipende!), e sia Roberto che sua moglie, Nicoletta Braschi, avevano iniziato a chiamarmi “Testa Dura” sul set, affettuosamente. E io, naturalmente, rispondevo con: “Ah sì? E tu sei Testa Durissima!” Alla fine, questa cosa è stata inserita anche nel film, il che è davvero carino. C’erano anche delle scene dove Roberto diceva: “Sì, fai così!” perché gli piaceva come mi comportavo in modo spontaneo. Alcune delle cose che facevo, senza rendermene conto, sono rimaste nel montaggio finale del film. È stato bello vedere come alcune mie piccole reazioni spontanee siano state mantenute. Purtroppo, non ho tantissimi altri aneddoti, perché ero davvero piccolo. I miei ricordi si mescolano un po’ con i racconti che ho sentito dai miei genitori, con quello che ho raccontato negli anni, e con i miei flashback. D’altronde, sono passati 27 anni, e tutto nella mia mente si confonde un po’ tra immaginazione, ricordi reali e costruiti. Ma quello che ti posso dire con certezza sono queste piccole cose che ricordo ancora con affetto.”
Grazie infinite, Giorgio per questa intervista molto esauriente!
“Grazie a te per avermi dato questa opportunità.”
La storia di Giorgio Cantarini è quella di un artista che ha saputo coltivare la propria carriera con intelligenza e moderazione. Pur rimanendo indimenticabile per le sue prime interpretazioni, ha scelto di vivere la sua vita artistica con integrità, seguendo il proprio ritmo e mantenendo sempre viva la passione per la recitazione.
Il pubblico lo ricorderà per quei due ruoli che hanno segnato una generazione, ma ciò che lo distingue è il suo viaggio personale, un percorso di equilibrio tra il successo e la fedeltà a sé stesso.
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Interviste
Intervista esclusiva a Fabrizio Eleuteri: successi in TV,...
Sono tre gli importanti progetti che vedono attualmente impegnato Fabrizio Eleuteri. Formatosi al laboratorio Don Bosco diretto dal rettore Carlo Nanni, l’attore romano fa parte del cast fisso di Citofonare Rai 2, il programma della domenica condotto da Paola Perego e Simona Ventura, e prossimamente sarà al cinema con The Contract, il film internazionale prodotto da Massimiliano Caroletti che segna il debutto alla sceneggiatura di Eva Henger. Lavori che vanno ad aggiungersi all’impegno in Vita da Carlo, la serie con protagonista Carlo Verdone. Tra sogni e progetti, Eleuteri ci ha spiegato come è nata la sua passione per la recitazione, svelandoci la sua passione per il ‘regista del brivido’ Alfred Hitchcock.
a cura di Roberto Mallò
Fabrizio, ogni domenica i telespettatori possono vederla, in diretta, a Citofonare Rai 2. Che tipo di esperienza è? Come si trova all’interno del cast?
“Citofonare Rai2 per me è partito in maniera sperimentale, con la doppia conduzione di Paola Perego e Simona Ventura. Sono entrato a far parte del cast a partire dalla seconda edizione ed ora mi ritrovo alla quarta stagione, la mia terza consecutiva. All’inizio mi avevano prospettato un ruolo del portiere che entrava, faceva il suo balletto fintamente sexy e non si curava delle due conduttrici. Le stesse che, ogni volta, mi rimproveravano simpaticamente in diretta: ‘Guarda che non sei qua nello spazietto tuo, che fai il sexy e così via. Qui hai un ruolo, devi portare le cose che ti chiediamo. Abbiamo bisogno dei tuoi servigi per sbrigare le cose della giornata. Se arriva un ospite lo fai entrare, se c’è una cosa da portare dentro lo fai tu’. Io, per tutta risposta d’accordo con gli autori, entravo con le noci e le olive, le mangiavo e non lasciavo loro niente. All’inizio, insomma, ero questo portiere un po’ matto e sciocco che faceva danni”.
E pian piano il personaggio si è evoluto…
“Esattamente. Dallo scorso anno ho iniziato ad annunciare qualche servizio, oltre che inserire qualche curioso aneddoto su qualche personaggio piuttosto che un altro. In questa edizione affianco Gene Gnocchi nelle sue follie estemporanee. Sono il suo ‘partner in crime’. Il mio personaggio è diventato quasi una spalla per Gene. All’interno della trasmissione mi trovo molto bene, c’è molto feeling con tutti, in special modo con l’autrice Serena Costantini, che è un pezzo di cuore. E non posso negare di trovarmi molto bene con Paola Perego. Oltre alla professionista che tutti conosciamo, lei è sempre dolcissima con tutto il cast. Si prende sempre cura di qualsiasi persona all’interno di Citofonare Rai 2 e del cast stesso. E Simona Ventura è sempre il solito uragano che va a destra e sinistra e stravolge tutto e tutti. Citofonare Rai 2 è davvero una delle poche trasmissioni in cui ci divertiamo anche nel backstage”.
Per chi fa il suo mestiere, un programma in diretta come Citofonare Rai 2 insegna tanto, no?
“Sì. E’ un discorso completamente diverso dalla formazione che uno può avere o al teatro o al cinema. In quest’ultimo ti prepari un determinato ruolo e sai che devi girare una determinata scena con altri attori, che comunque puoi ripetere qualora qualcosa non andasse bene. Al contrario, nella diretta deve filare tutto liscio. Si respira la tensione che è tipica del teatro, ma è diverso, a partire dalle telecamere che ti circondano. Ovviamente, tu cerchi sempre di fare il tutto in maniera egregia. Le aspettative sono abbastanza alte e cerchi di fare di più. Nonostante tutto è però bello avere quell’adrenalina tipica della diretta. Soprattutto considerando il fatto che Citofonare Rai 2 è una diretta nazionale, che tiene compagnia ai telespettatori per tante ore e li accompagna in tutta la domenica mattina fino all’ora di pranzo”.
A cosa si deve, dal suo punto di vista, il grande successo del programma? Cresce negli ascolti di anno in anno..
“La trasmissione conserva degli abiti molto leggeri, non parla di fatti di cronaca nera. Se ci pensa, nei primi appuntamenti, Paola e Simona venivano un pochino prese in giro quando cantavano insieme, ora è diventato un vero e proprio must atteso e coinvolgiamo gli ospiti a cantare con loro di volta in volta.. Il programma ha sempre avuto come obiettivo principale quello di mettere in risalto i personaggi che hanno fatto parte della televisione italiana. Gli ospiti spaziano dal comico, come Lopez e Solenghi che parlano del trio, Lino Banfi, Al Bano con le figlie, solo per fare alcuni esempi, che ti raccontano come è stato vivere con un gigante della musica italiana così in casa. Gli aneddoti, gli spazi qua e là, il collegamento di Antonella Elia e le gag di Gene Gnocchi danno poi al programma quell’atmosfera leggera e spiritosa della quale abbiamo bisogno adesso più che mai”.
La trasmissione di Rai2 non è l’unico progetto che la vede coinvolta in questo periodo. C’è anche il film internazionale The Contract, nel quale ha recitato al fianco di Jane Alexander.
“Esatto, interpreto il migliore amico del personaggio interpretato da Jane. Il film, come è stato detto all’anteprima mondiale de Il Cairo, è un thriller psicologico. Non di certo un action thriller. Al centro della scena c’è l’attore Eric Roberts, che interpreta un giornalista caduto in disgrazia che prova a intrufolarsi nella scena del crimine di un suo collega. Da lì cerca dunque di ricostruire tutto il puzzle che ha portato a questo efferato omicidio. Si rivolge così a tante personalità e personaggi diversi tra loro: ci sono il caporedattore, un prete e una ragazza che lavora in un night, interpretata da Jane Alexander e che fa parte della trama che mi vede coinvolto, dato che cammino al suo fianco in diverse situazioni. Più Roberts indaga, più c’è questa scia di sangue che si va piano piano ad allargare. E lui ha questo testimone, interpretato da Kevin Spacey, all’interno di una sorta di riformatorio/manicomio, che sembra abbia delle chiavi di interpretazione di questo omicidio ben più profonde di quanto non stia dicendo. Quindi man mano che accadono le cose, Eric Roberts torna a chiedere conto a Kevin Spacey di quello che sta accadendo. A volte questo personaggio dà di matto e non si capisce cosa voglia dire. Le altre volte cerca di infilare delle pulci nelle orecchie a Eric Roberts per dare un diverso punto di vista di ciò che sta accadendo. Era da parecchio che non si vedeva un film simile in Italia, dove per vedere un thriller bisogna ritornare ai tempi di Dario Argento. Ed è credo la primissima volta che un produttore indipendente come Massimiliano Caroletti annoveri nel cast due attori internazionali del calibro di Spacey, che ha vinto due premi Oscar, e Roberts. Da questo punto di vista, The Contract è un esperimento già riuscito”.
C’è molta curiosità attorno al film perché rappresenta anche il debutto alla sceneggiatura di Eva Henger.
“Sì, c’è davvero molta curiosità. Ne hanno parlato anche varie testate americane. Forse in Italia siamo cintura nera nello scetticismo, magari però stavolta non trionferà il pregiudizio. Personalmente, ho avuto la fortuna di assistere all’anteprima ed è piaciuto molto. Tuttavia, sono curioso di capire come verrà accolto negli Stati Uniti e ovviamente qui da noi in Italia”.
Jane Alexander la conosceva già o vi siete incontrati per la prima volta su questo set?
“Avevo visto i lavori precedenti di Jane, tra cui quelli diretti da Cinzia TH Torrini. Non l’avevo mai incontrata prima, ma è stata davvero carina e siamo rimasti amici. E’ una di quelle persone che ti aiutano davvero sul set, che ti danno la loro energia. Al termine di una scena straziante di The Contract mi ha dato un abbraccio capace di trasmettermi davvero una grossa energia. Credo sia, davvero, una professionista di una caratura internazionale.
C’è anche un terzo lavoro: Vita da Carlo. La serie di Carlo Verdone. Il suo personaggio, nella terza stagione, è stato ampliato rispetto a quello che abbiamo visto nella seconda.
“Sì, il personaggio di Riccardo, il fidanzato di Sandra (Monica Guerritore), ha uno sviluppo carino. Viene coinvolto in una cena, in casa Verdone, nella settima puntata. E lì accade di tutto, nel buon segno della commedia italiana. C’è al centro un grande equivoco, condito da una rivelazione, e scoppia un vero e proprio parapiglia. Il tutto ha come sfondo la Santa Notte di Natale. Scherzi a parte, lavorare su un set con Verdone, Guerritore, Stefania Rocca e Filippo Contri è stata una bella opportunità da una parte ed un continuo divertimento dall’altra”.
Parlando un po’ di lei. Quando è nata la sua passione per il mondo della recitazione?
“Sono il terzo di quattro figli, tutti maschi. Nessuno aveva mai lavorato nel mondo dell’arte nella mia famiglia. Mi ricordo che, con le prime paghette, quando avevo circa 11 anni, mi andavo a comprare in edicola i film in bianco e nero di Alfred Hitchcock. Settimana dopo settimana investivo lì la mia paghetta. E mia madre non riusciva a capire cosa me ne importasse di quei film lì, dato che poi nel mio tempo libero andavo a giocare a calcetto con i miei amici. Tuttavia, ero totalmente folgorato da Hitchcock: andavo ad informarmi su ogni scena e ogni aspetto dei suoi lavori, compresi gli interpreti e i vari registi, passando per il trucco, il montaggio, gli effetti speciali. Avevo una passione dentro che è venuta fuori, senza che nessuno la sollecitasse. Pensi che una volta ho chiesto a mia madre quanto pagassero Bud Spencer e Terence Hill per fare uno dei loro film che trovavo bellissimi. E lì lei mi ha detto: ‘No, amore di mamma, questi sono attori ed è un lavoro. Loro interpretano una parte e vengono pagati per questa cosa’. Una cosa che a me non tornava, non pensavo che fosse un mestiere e che venissero pagati. Per me poter recitare era già di per sé un premio. Anche perchè poi io ho mosso i primi passi in teatro e lì, quando hai il fuoco sacro della recitazione dentro, non stai tanto a guardare la remunerazione. E il lavoro dell’attore in sé è abbastanza precario, ci sono dei periodi in cui lavori tantissimo e in altri poco e niente. Se non sei abituato a prendere le porte in faccia stai malissimo. Ci saranno sempre delle persone che ti diranno che non sei in grado, che non sei preparato. Sei non hai una buona corazza o una famiglia che ti sostiene non riesci ad andare avanti. Potresti mollare, soprattutto quando ti sei preparato per un ruolo che sentivi davvero tuo e invece non ti prendono minimamente in considerazione. Per fortuna, oltre ai miei fratelli con i quali ho un bellissimo rapporto, ho una moglie e una figlia che mi supportano tantissimo e a cui devo praticamente tutto”.
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Interviste
Intervista esclusiva ad Alberto Rossi: «Con la paternità un...
Alberto Rossi. Livorno. Un ragazzo con un sogno gigantesco e il coraggio di seguirlo fino in fondo. Fin da giovane, si buttava a capofitto nel mondo dello spettacolo, come chi sa che quella strada è la sua e non c’è un piano B. A soli 25 anni era già sotto i riflettori, con il debutto in “Un posto al sole” che l’ha reso un volto amato da milioni di italiani. Eppure, Alberto è un uomo che si reinventa, che esplora, che cresce.
La paternità – con Ada – ha cambiato tutto. È come se l’amore per sua figlia gli avesse aperto nuovi orizzonti, spingendolo a vedere la vita da una prospettiva più profonda, più vera. Poi c’è il mare, la vela, il tennis. La voglia di navigare, di scoprire, di confrontarsi con sé stesso. E il teatro? Sempre nel cuore, come un amore mai dimenticato. In ogni progetto, in ogni battuta, c’è una parte della sua anima. E quando parla di futuro, non è solo lavoro: è curiosità, è passione, è quella luce negli occhi di chi ha ancora tanto da dare e da scoprire.
La nostra intervista esclusiva
*Foto di Giuseppe D’Anna
Ciao Alberto, benvenuto su Sbircia la Notizia Magazine! Qui ci piace andare oltre la superficie, scavare davvero dentro la tua storia. Vogliamo parlare dei sogni, dei successi, delle paure, delle sfide che ti hanno trasformato nell’uomo e nell’artista che sei oggi. Il tuo percorso ha attraversato il cuore dello spettacolo italiano, lasciando segni indelebili. Tu sei un racconto che merita di essere ascoltato, pezzo dopo pezzo, emozione dopo emozione. Oggi siamo qui per raccontare questo viaggio insieme a te.
Dopo aver conseguito il diploma all’Accademia “Silvio d’Amico”, hai debuttato in “I ragazzi del muretto” solo due settimane dopo. C’è stato un momento in cui hai realizzato l’impatto che questo rapido inizio avrebbe avuto sulla tua carriera o tutto è accaduto così velocemente da sembrare quasi surreale?
“Surreale no, perché dentro di me, in un certo senso ci speravo e me lo aspettavo. Avevo sempre e solo voluto fare quello che stavo riuscendo a fare e si stavano materializzando tutti, non solo i miei sogni, ma anche le aspettative e i desideri.”
Il tuo primo film, “L’olio di Lorenzo”, è stato un progetto internazionale diretto da George Miller. Come ha influenzato la tua visione dell’industria cinematografica italiana ed estera iniziare la tua carriera cinematografica in un contesto così globale?
“Beh, è stata un’esperienza su un set da Formula 1… difficile trovare così tanto spiegamento di mezzi su un film italiano…”
Interpretare Michele Saviani per oltre 25 anni ti ha permesso di crescere insieme al personaggio. In che modo la tua evoluzione personale ha influenzato Michele? Ci sono aspetti del personaggio che hanno a loro volta plasmato te come individuo?
“No, nella maniera più assoluta no! Michele rimane in camerino quando ne svesto i panni.”
Nel 2006 hai diretto alcuni episodi di “Un posto al sole”. Come ha arricchito questa esperienza la tua comprensione del processo creativo? C’è qualcosa che hai scoperto sul set che ti ha sorpreso come attore-regista?
“Volevo tantissimo fare quell’esperienza. E quando finalmente ci sono riuscito, è stato un po’ come coronare un’altra conferma di ciò che sentivo di avere e di poter comunicare in altro modo e forma.”
La tua partecipazione a “Notti sul ghiaccio” ha mostrato un lato di te inedito al pubblico. Quali sfide hai affrontato nel padroneggiare il pattinaggio artistico? C’è qualche lezione che hai portato con te nel tuo lavoro attoriale?
“Mah no, era tutto un altro contesto. Anche lì era Formula 1, Milly Carlucci, Rai 1, prima serata… poi tante botte, tanti lividi, tanta fisioterapia dopo… però bellissimo, magico.”
Il tatuaggio con il nome di tua figlia Ada è un gesto d’amore visibile a tutti. Come la paternità ha influenzato il tuo approccio alla vita e alla professione? In che modo questo nuovo ruolo ha arricchito la tua espressività artistica?
“Con la paternità un uomo finalmente diventa tale. Fino a quel momento non puoi percepire in tutt’altro modo la vita. Tutto diventa entusiasmo, paura, bellezza, crescita, magia… non si può definire la paternità… poi di una figlia femmina…”
Sei appassionato di tennis e vela, sport che richiedono concentrazione e armonia con l’ambiente. Vedi delle similitudini tra queste discipline e la recitazione? Come contribuiscono al tuo equilibrio personale e professionale?
“È sport, la vela significa mare, acqua, quindi il nostro inconscio, sul quale mi piace navigare (son figlio di un ammiraglio). Il tennis è disperazione, solitudine, analisi, tostissimo ma bellissimo. Soprattutto da vedere, poi ora con Sinner e company….”
Hai avuto la fortuna di lavorare con un maestro come Pupi Avati, su progetti intensi e pieni di significato come “I cavalieri che fecero l’impresa” e “Il signor Diavolo”. Raccontaci: cosa ti è rimasto di quelle esperienze?
“Due belle esperienze con un maestro. Per scavare ancora un po’ più a fondo le mie capacità.”
Ci sono opere o personaggi che sogni di interpretare per esplorare nuove dimensioni della tua arte?
“Dopo che per più di 30 anni dai Ragazzi del Muretto ad Upas, mi piacerebbe interpretare un personaggio demoniaco, malefico, al limite dello splatter come quelli della serie Monster.”
Essendo una presenza costante in “Un posto al sole” sin dal suo inizio, hai vissuto l’evoluzione della televisione italiana. Come percepisci i cambiamenti nel modo di raccontare storie in TV e quale pensi sia il futuro delle soap opera nel panorama mediatico attuale?
“Ma il futuro siamo solo noi, siamo stati i primi e siamo ancora lì… siamo passato, presente e futuro…”
In un mondo dominato dai social media, mantieni un equilibrio tra condivisione e privacy. Come gestisci la relazione con i tuoi fan attraverso piattaforme come Instagram? Quale ruolo credi che i social abbiano nel rapporto tra attore e pubblico?
“Mi divertono, li frequento parecchio ma non ne abuso.”
Guardando al futuro, c’è un ambito artistico o un progetto inedito che vorresti esplorare, magari al di là della recitazione, come la scrittura, la produzione o una nuova forma di espressione creativa?
“Con la produzione ho dato e non credo che ripeterò l’esperienza. Mi sono scottato troppo, per il resto si vedrà….”
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Interviste
Intervista a Nadia Carbone, event manager e direttrice...
A cura di Laura Solimene
Tra le figure professionali più ricercate e affermatesi negli ultimi anni, quella dell’EVENT MANAGER ricopre sicuramente un ruolo fondamentale nel settore degli eventi ancorché, probabilmente, non tutti ne conoscano ancora le numerose e svariate sfaccettature. Cominciamo col dire che un Evento, al contrario di quanto molti pensano, non è solamente un momento di svago, ma fa parte di una vera e propria strategia di marketing aziendale volta ad aumentare la consapevolezza del brand e persino ad acquisire potenziali clienti.
Un evento ben pensato, ben organizzato e ben strutturato, infatti, porterà alla realizzazione di una grande varietà di benefici: a partire dalla creazione di valori fino alla generazione di profitti e nuovi flussi. Uno strumento complesso e articolato che però richiede un’organizzata pianificazione, gestione e coordinamento di competenze diverse, oltre a tanta creatività.
Ecco perché è fondamentale per un’azienda non improvvisare ma affidarsi a professionisti del settore: un event manager è infatti la scelta vincente per tutte quelle società e realtà che desiderano ottenere il massimo da un evento, senza che alcun dettaglio sia trascurato. Ma in cosa consiste esattamente l’event planning e soprattutto cosa fa in pratica un bravo event manager? Per saperne di più ed approfondire l’argomento, abbiamo raggiunto e intervistato la pugliese NADIA CARBONE, fondatrice e direttrice artistica del GENERATION FILM FEST, e con all’attivo oltre 10 anni di esperienza nel settore EVENTI, per farci raccontare i retroscena di una figura professionale che spesso opera dietro le quinte.
Benvenuta, Nadia. Da quanti anni lavori nel settore degli eventi e quando hai capito che avresti potuto fare della tua passione un lavoro?
“La mia è un’esperienza che dura da oltre 10 anni. Nel 2012, durante il Premio Noto all’eccellenza del M° Adriano Pintaldi, io ero l’inviata per un’emittente televisiva locale e fu lo stesso Pintaldi a chiedere al direttore del canale televisivo di farmi presentare le serate sul palco. In seguito mi riconfermò nelle successive edizioni 2013/2014, permettendomi di affiancarlo anche nell’organizzazione e dandomi la possibilità di dialogare e premiare grandi icone del cinema italiano come Giancarlo Giannini, Lina Wertmuller, Pupi Avati ed Enrico Vanzina. Ho capito, fin da subito, che quell’esperienza sarebbe stata solo l’inizio di un cambiamento nel mio percorso artistico!”
Ritieni che, oggi, ci si possa ancora improvvisare “organizzatore di eventi”?
“In generale, credo che nessuno possa svegliarsi al mattino e decidere di svolgere un lavoro senza avere la giusta preparazione o esperienza. Premesso ciò, mi dispiace dire che invece, purtroppo, nel mio settore, è all’ordine del giorno improvvisare! Sono tutti organizzatori, registi, attori, scrittori…”
Sei giovane, tuttavia hai già numerosi eventi (di successo) nel tuo bagaglio professionale…
“Esatto! Il primo grande evento nel quale decisi di mettermi in gioco ‘autonomamente’ fu il Gran Galà della Cultura, nel 2014, senza dubbio un duro banco di prova. In quel periodo studiavo anche ideazione, organizzazione di eventi e show televisivi con il Dir. Rai Carlo Orichuia, grazie al quale – e in aggiunta agli insegnamenti del M° Pintaldi, – compresi tutto ciò che un libro o degli appunti possono solo fare immaginare. Si trattava di un lavoro commissionato dall’Archeoclub -Oria, una grande soddisfazione per me portare a termine due edizioni con ospiti del calibro di Lino Capolicchio, Sandra Milo, Monica Setta, Maurizio Casagrande, Sebastiano Somma e molti altri… Negli anni successivi ho poi spaziato con svariati generi di manifestazioni: musicali, sociali ed editoriali, spesso subentrando come produttrice oltre che a curarne la direzione artistica.”
In quale tipologia di eventi ritieni di essere più specializzata o di annoverare più esperienza?
“Sicuramente in quelli culturali, inerenti all’arte, alla letteratura e al cinema in particolar modo, in quanto mi permettono di dare spazio e voce anche al mio lato artistico. Il mio ruolo, naturalmente, muta in base al genere di manifestazione e alla tipologia di cliente, è chiaro che occorre un’organizzazione e un iter burocratico differente per ciascun singolo settore. Ad ogni modo, che si tratti di un evento sociale, politico o relativo allo spettacolo, il focus è portare a casa l’obiettivo che ci si prefigge.”
Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nel tuo percorso come direttrice artistica?
“L’essere giovane e, al contempo, donna. Sai, a volte mi sono ritrovata a far fronte a situazioni imbarazzanti. Quando mi ritrovo davanti a clienti o fornitori, o anche collaboratori, non è raro sentirmi dire: ‘Ah, ma sei giovanissima!’ oppure ‘Una donna, complimenti!’ o ancora ‘Per chi lavori?’. E quando rispondo: ‘In realtà sono io che ti pago!’, spesso leggo nei volti altrui diffidenza o anche solo stupore. Purtroppo, soprattutto al sud, esiste ancora quel sottile maschilismo, figlio dell’ignoranza e del patriarcato. Tuttavia, non mi sono mai lasciata intimorire o scoraggiare e, oggi, posso dire a testa alta di essere l’artefice di tutto ciò che ho creato. E non è poco!”
Ci spieghi perché è così importante che un’azienda scelga di puntare sugli eventi per promuovere il proprio brand?
“Gli eventi, da sempre, sono una cassa di risonanza per le aziende, ecco perché è fondamentale curarne tutti i dettagli: dalla promozione al valore sociale. Sponsorizzare un evento, inoltre, è un’opportunità per i brand di ampliare la visibilità e rafforzare la propria immagine utilizzando il contatto diretto con il pubblico. È una strategia che, se ben studiata, può portare benefici duraturi come quello di instaurare partnership di lungo termine e aumentare il fatturato.”
Quali doti indispensabili dovrebbe avere un bravo organizzatore di eventi?
“Sicuramente la pazienza, la tenacia e la capacità di problem-solving. Inoltre è importante creare un ambiente di lavoro sereno e propositivo, chi svolge la mia professione ha il dovere di motivare e rispettare qualsiasi ruolo all’interno dello staff: si potrà pur essere il motore di una grossa cilindrata, ma senza gli altri pezzi non si corre da nessuna parte! Personalmente, nel team, sono una che preferisce ‘agire’, dando il buon esempio, piuttosto che impartire ordini.”
Tra tutti gli eventi da te organizzati, qual è quello che ti rende più fiera?
“Senza ombra di dubbio il GENERATION FILM FEST, il mio brand, e sottolineo ‘MIO’. Ho ideato questo format cercando di riportare tutto il mio bagaglio formativo ed esperienziale. Racconto il cinema italiano, la sua storia fino ai nostri giorni, attraverso ospiti, incontri, proiezioni e mettendo a confronto le varie generazioni. Da qui, ho dato inoltre vita ad una serie di eventi collaterali, come masterclass, workshop e la realizzazione di un cortometraggio che vedremo nel 2025. Senza nulla togliere a tutti gli altri eventi, il GFF è senza dubbio il progetto più importante e difficile da organizzare e portare avanti nel tempo, in termini di risorse ed energie.”
Ci sveli qualche tuo progetto in corso d’opera?
“Proprio in questi giorni sono in piena fase organizzativa di un evento che si terrà in primavera a Lugano e che vedrà protagonista il Luxury Magazine POPULAR (edito da Resalio Produzioni). Sarà un evento che farà parlare molto, non solo per i numerosi successi ottenuti durante il primo anno di vita del magazine, ma anche per gli ospiti che ne faranno parte, tra imprenditori, case nobiliari e artisti. È la prima volta che organizzo un evento fuori dall’Italia, spero possa essere il primo di una lunga serie!”
Esiste ‘il progetto’ nel tuo cassetto dei sogni da realizzare?
“Io non sogno un solo progetto/evento in particolare, ma tanti, tantissimi… forse anche troppi! (ride, ndr)”
Nadia, salutandoci, dove e come ti vedi tra dieci anni?
“Mi piacerebbe tramutare in realtà tutto ciò che scrivo. Creare arte è certamente ciò che mi rende felice, non desidero altro. Ovviamente mi piacciono le evoluzioni e anche gli ardui obiettivi da raggiungere, per cui, sono certa che fra dieci anni, se mi intervisterai nuovamente, avrò ancora molto altro di cui raccontare!”