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Obbligo vaccinale per bambini in Italia: riforma necessaria o attacco alla salute pubblica?

L’Italia si trova al crocevia di un dibattito che coinvolge salute pubblica e diritti individuali: l’obbligo vaccinale, introdotto con la legge Lorenzin nel 2017, continua a dividere opinioni e ad alimentare polemiche. Questa normativa, nata con l’intento di aumentare le coperture vaccinali e proteggere la popolazione dalle malattie infettive, ha suscitato reazioni contrastanti fin dalla sua implementazione.

I sostenitori dell’obbligo sottolineano come sia fondamentale garantire una protezione collettiva attraverso alte coperture vaccinali, necessarie per prevenire il ritorno di malattie considerate ormai controllate. Il morbillo, ad esempio, ha visto un incremento dei casi proprio negli anni in cui la vaccinazione è stata sottovalutata. La legge Lorenzin ha giocato un ruolo cruciale nel rimettere al centro dell’attenzione la necessità di proteggere i più vulnerabili attraverso la vaccinazione obbligatoria, rendendo le vaccinazioni un requisito per l’ammissione all’asilo nido e alle scuole dell’infanzia.

Tuttavia, non mancano le voci critiche. Alcuni gruppi ritengono che l’obbligo vaccinale sia eccessivo e limitativo dei diritti individuali. Esiste una minoranza che nutre dubbi sulla sicurezza dei vaccini o che preferisce basarsi su informazioni non scientificamente validate. La pandemia da Covid-19 ha accentuato queste divisioni, portando alla ribalta la discussione sull’autonomia decisionale in materia sanitaria.

In questo contesto complesso, le proposte legislative del senatore Claudio Borghi rappresentano un ulteriore elemento di controversia. Borghi ha presentato due emendamenti significativi al Disegno di legge sulle liste d’attesa, miranti a riformare radicalmente la legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale. Uno degli emendamenti (3.0.7) propone l’abolizione della legge Lorenzin sull’obbligo vaccinale, mentre l’altro (3.0.8) riguarda la possibilità per chi lo desideri di non essere inserito nel Fascicolo sanitario elettronico (Fse).

Implicazioni degli emendamenti proposti

L’emendamento di Borghi propone di modificare la legge Lorenzin, passando dall’obbligo alla raccomandazione per i vaccini. La motivazione dietro questa proposta, come recita l’emendamento, è che l’assetto degli obblighi vaccinali in Italia è fortemente esteso rispetto al panorama europeo e internazionale, e questa situazione si pone in conflitto con l’articolo 32 della Costituzione, che regola l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari.

Sul fronte del Fascicolo sanitario elettronico, Borghi ha ricordato che ci sono stati rilievi del Garante della privacy, evidenziando che molti cittadini si sentono schedati e non desiderano condividere i loro dati sanitari.

Borghi ha dichiarato all’Adnkronos Salute che l’obbligo vaccinale previsto dalla legge Lorenzin non ha portato ai risultati sperati, sottolineando che lo strumento migliore è l’informazione ai cittadini. “A me risulta che ci sia un aumento nella popolazione del rifiuto dei vaccini. Ricordiamoci anche la lezione del Covid”, ha affermato il senatore.

La legge Lorenzin

La legge Lorenzin, introdotta con il Decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, convertito in legge il 31 luglio 2017, n. 119, ha stabilito l’obbligatorietà di dieci vaccinazioni per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per i minori stranieri non accompagnati. Le vaccinazioni obbligatorie includono:

Anti-poliomielitica
Anti-difterica
Anti-tetanica
Anti-epatite B
Anti-pertosse
Anti-Haemophilus influenzae tipo b
Anti-morbillo
Anti-rosolia
Anti-parotite
Anti-varicella

L’obbligatorietà delle ultime quattro vaccinazioni è soggetta a revisione ogni tre anni in base ai dati epidemiologici e alle coperture vaccinali raggiunte.

Oltre alle vaccinazioni obbligatorie, la legge prevede anche l’offerta attiva e gratuita, da parte delle Regioni e Province autonome, di altre vaccinazioni, come quelle anti-meningococcica B, anti-meningococcica C, anti-pneumococcica e anti-rotavirus, senza obbligo vaccinale.

Reazioni degli esperti

La proposta di Borghi ha immediatamente sollevato preoccupazioni tra gli esperti sanitari e le organizzazioni mediche, che ritengono che l’obbligatorietà sia cruciale per mantenere alte le coperture vaccinali e prevenire il rischio di epidemie.

Virologi e igienisti pro-obbligatorietà

I virologi e igienisti, tra cui spiccano nomi come Fabrizio Pregliasco e Roberto Burioni, hanno enfatizzato l’importanza dell’obbligo vaccinale. Secondo loro, la legge Lorenzin ha dimostrato di essere efficace nel migliorare le coperture vaccinali in Italia, riducendo significativamente il rischio di malattie infettive come il morbillo e la pertosse.

Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore della Scuola di specializzazione in Igiene e medicina preventiva dell’Università Statale di Milano, ha chiarito che “la normativa introdotta nel 2017 ha prodotto dei risultati tangibili nel rilanciare le coperture vaccinali nel nostro Paese”. Pregliasco ha continuato, evidenziando come “prima della legge Lorenzin, c’erano preoccupazioni serie riguardo alla diminuzione delle coperture vaccinali, in particolare per il morbillo e altre malattie contagiose”. L’obbligatorietà ha invertito questa tendenza, portando a un aumento delle vaccinazioni e riducendo così il rischio di epidemie.

Roberto Burioni, virologo e professore all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha aggiunto che “i dati preliminari hanno confermato l’efficacia della legge nell’aumentare le percentuali di immunizzazione, soprattutto tra i bambini precedentemente non vaccinati”. Secondo Burioni, “questo ha contribuito a proteggere non solo i singoli individui, ma l’intera comunità, riducendo la circolazione dei virus e prevenendo potenziali focolai epidemici”.

Entrambi gli esperti hanno sottolineato che la pandemia da Covid-19 ha rappresentato una battuta d’arresto significativa per i progressi fatti nel campo delle vaccinazioni. Pregliasco ha evidenziato che “l’emergenza sanitaria ha sollevato dubbi sull’efficacia dei vaccini, alimentando anche una diminuzione delle coperture vaccinali per altre malattie prevenibili”. Questo, secondo lui, ha contribuito al recente aumento dei casi di morbillo in Italia, una malattia che può risultare letale, soprattutto in gruppi non vaccinati.

Pediatri: “Necessità di protezione per i bambini”

Dall’altra parte, pediatri e organizzazioni come la Federazione italiana medici pediatri (Fimp) e la Società italiana di pediatria (Sip) hanno espresso un forte rifiuto nei confronti dell’emendamento proposto da Borghi. Secondo la Federazione italiana medici pediatri, “eliminare l’obbligo vaccinale in questo momento sarebbe irrazionale”. Essi sottolineano che “in un contesto dove la disinformazione è diffusa, una proposta di questo tipo rischia di compromettere la salute pubblica, mettendo in pericolo sia i singoli cittadini sia l’intera società”.

La Società italiana di pediatria aggiunge che “la legge sull’obbligo vaccinale per l’accesso a scuola ha dimostrato di essere un efficace strumento per aumentare i livelli di copertura vaccinale in un momento storico in cui erano in calo”. Secondo loro, “se consideriamo il morbillo, malattia altamente contagiosa con un tasso di mortalità nei Paesi sviluppati, prima dell’introduzione della legge la copertura vaccinale era significativamente inferiore rispetto a oggi”. La Sip evidenzia che “attualmente ci sono ancora numerose persone non protette contro il morbillo, il che spiega l’attuale quadro epidemiologico del nostro Paese con casi notificati”.

Per la Federazione italiana medici pediatri, “abolire l’obbligo vaccinale per le vaccinazioni pediatriche contro morbillo, rosolia, varicella e parotite è privo di qualsiasi fondamento scientifico e rischierebbe di vanificare gli sforzi degli ultimi anni per arrivare ai tassi di copertura raccomandati dagli organismi sanitari”. Essi sottolineano che “nessuna Regione italiana raggiunge il 95% di copertura contro il morbillo relativamente alle due dosi del ciclo di immunizzazione”.

Infine, il pediatra Italo Farnetani ha commentato che “tornare indietro sarebbe come condannare a morte alcuni bambini ogni anno”. Egli ha chiarito che “senza l’obbligatorietà del vaccino non si raggiungerà mai un numero sufficiente di bambini vaccinati,” e ha aggiunto che “abolendo l’obbligo, verrebbe calpestato anche l’articolo 32 della Costituzione, che garantisce il diritto alla salute”.

Expertise sanitaria a difesa dell’obbligatorietà

La discussione sugli emendamenti proposti dal senatore Claudio Borghi per modificare l’obbligatorietà delle vaccinazioni pediatriche in Italia, nell’ambito dei decreti-legge sulle Liste di attesa, ha generato un acceso dibattito tra esperti di sanità pubblica. Virologi, pediatri e altre figure autorevoli nel campo della medicina hanno espresso un consenso unanime sulla necessità di mantenere l’attuale normativa che rende obbligatorie le vaccinazioni per malattie come il morbillo, la pertosse e altre.

Le loro posizioni sono state chiare nel sottolineare che l’obbligo vaccinale è essenziale per garantire elevati livelli di copertura immunologica nella popolazione, prevenendo così il ritorno di malattie contagiose che possono avere gravi conseguenze per la salute pubblica.

Il presidente della 10ª Commissione permanente, Franco Zaffini, ha rimandato a lunedì la decisione sull’inammissibilità degli emendamenti al decreto sanità, come dichiarato dal senatore Claudio Borghi su X. Borghi stesso ha commentato: “Non credo che l’esito cambierà ma diciamo che, per ora, la già dichiarata inammissibilità dell’emendamento è la solita fake news”, sottolineando la sua percezione di una valutazione politicamente motivata piuttosto che basata su criteri giuridici obiettivi.

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Solo un neogenitore su tre si sente pronto al nuovo ruolo

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Neogenitori Stressati

Diventare genitori è una sfida che sempre meno italiani sono pronti ad affrontare. Tra le cause della grave denatalità che colpisce il Paese, i giovani denunciano lo scarso supporto psicologico offerto dal Ssn, che, complici gli stipendi bassi, lo scarso equilibrio vita-lavoro e una società sempre più esigente, li allontana dalla scelta di avere figli.

Come rilevato da una ricerca Nestlé, in Italia solo un neogenitore su tre (32%) si sente pronto ad affrontare il nuovo ruolo, mentre sei su dieci (60%) vorrebbero un supporto psicologico per gestire dubbi e pressioni tipiche della genitorialità.

Per rispondere a queste esigenze, l’azienda ha lanciato un progetto innovativo in collaborazione con Unobravo, offrendo un percorso psicologico gratuito e personalizzato ai neogenitori o a chi si prepara a diventarlo.

L’importanza del benessere emotivo per la famiglia

Lo studio “Genitori ai primi passi” , condotto con il supporto di YouGov, ha coinvolto oltre 1.100 genitori e futuri genitori, esplorando il loro stato mentale e fisico. I dati evidenziano come la genitorialità sia spesso accompagnata da incertezze e pressioni, aumentando il bisogno di supporto emotivo. In un periodo dell’anno in cui la famiglia assume un ruolo centrale, Nestlé sottolinea l’importanza di creare un ambiente sereno, a beneficio non solo dei genitori ma anche dei bambini.

Nestlé offre ai neogenitori l’opportunità di accedere a un percorso psicologico personalizzato. Dopo un questionario iniziale e un colloquio conoscitivo gratuito con uno psicologo di Unobravo, i partecipanti possono usufruire di tre sedute aggiuntive completamente finanziate dall’azienda. L’iniziativa è pensata sia per supporto individuale sia di coppia, con l’obiettivo di promuovere un benessere duraturo e un migliore equilibrio emotivo.

L’impegno per i primi mille di vita del bambino

Questa iniziativa si inserisce nell’impegno di Nestlé di sostenere le famiglie durante i primi mille giorni di vita del bambino, un periodo cruciale per lo sviluppo fisico e mentale come dimostrano diversi studi scientifici. Il periodo che va dal concepimento ai primi due anni di vita del bambino è la base per un corretto sviluppo fisico e psicologico del bambino e della sua longevità. Soprattutto in questa fase, un’alimentazione sana e il benessere psicologico sono i pilastri per il futuro del bambino e la serenità dell’intera famiglia.
Da questa consapevolezza parte l’iniziativa di Nestlé: “In questo periodo così speciale, siamo felici di offrire un supporto concreto a chi sta affrontando il meraviglioso, ma spesso sfidante, viaggio della genitorialità. Attraverso questa iniziativa in sinergia con Unobravo, vogliamo supportare il benessere emotivo e psicologico di chi affronta paure e incertezze. Questo è il nostro regalo per rendere il Natale ancora più significativo e per costruire insieme un futuro sereno”, ha spiegato Manuela Kron, Head of Corporate Affairs di Nestlé Italia.

Il valore del supporto psicologico

Anche Unobravo, con la sua esperienza nel benessere psicologico, ha sottolineato l’importanza di questa collaborazione con le parole di Davide Uberti, Partner Sales and Client Success Director:

“Crediamo fermamente che il benessere psicologico sia la base per una genitorialità sana e appagante. Per questo, insieme a Nestlé, desideriamo essere al fianco dei neogenitori in questo viaggio tanto straordinario quanto complesso, fornendo loro il supporto necessario per affrontare al meglio le sfide e vivere questa esperienza unica con maggiore serenità e consapevolezza”.

Un Natale all’insegna del benessere familiare

Durante il periodo natalizio, l’iniziativa vuole ricordare che il miglior regalo per i propri figli è una famiglia serena. Offrendo strumenti pratici e un supporto psicologico mirato, Nestlé e Unobravo puntano a creare un impatto positivo sul benessere dei genitori e, di riflesso, dei bambini. Rimuovere le barriere alla genitorialità è il primo passo per riempire le culle. E la paura di diventare genitori è una barriera ancora sottovalutata.

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Tokyo introduce la settimana corta per rilanciare la...

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Tokyo Strade

Il Giappone vuole introdurre la settimana lavorativa corta come risposta alla crisi demografica. Quello di Tokyo sarà un esempio prezioso per tutti quei Paesi, Italia in primis, che da tempo cercano una soluzione alle culle vuote senza trovare la chiave giusta. Stipendi troppo bassi, servizi all’infanzia carenti e uno scarso work-life balance sono tutte concause della crisi demografica. La sfida per gli Stati è trovare il canale preferenziale, quello su cui insistere con più determinazione per ripopolare le culle.

Tokyo ha scelto la sua strada: per contrastare la denatalità introdurrà la settimana lavorativa di 4 giorni per incoraggiare le coppie giapponesi ad avere figli in un momento in cui il tasso di fertilità del Paese è ai minimi storici.

La crisi demografica in Giappone

L’anno scorso in Giappone ci sono state solo 727.277 nascite, il numero più basso di sempre. Mentre le case si svuotano, il governo nipponico cerca una soluzione partendo dal particolare contesto culturale del Paese.

I dati suggeriscono che una principali della denatalità può essere proprio la cultura della produttività a tutti i costi, che spesso porta i giapponesi a lavorare ben oltre le 40 ore a settimana. Questo è lo stesso Paese in cui è nato il fenomeno degli hikikomori, ragazze e ragazzi giovanissimi che si rinchiudono in casa soprattutto perché non si sentono all’altezza della società e delle sue richieste.

In Giappone, il divario di genere occupazionale è più alto che in altre nazioni ad alto reddito: nel 2023 ha lavorato il 55% delle donne contro il 72% per gli uomini (dati Banca Mondiale). Il controsenso è solo apparente. Molte donne giapponesi non lavorano perché i ritmi produttivi rendono impossibile conciliare il lavoro e la famiglia, generando un aut aut che non fa bene né all’economia, né alla natalità né tanto meno al senso di soddisfazione per la propria vita.

Relazione tra work-life balance e natalità

La difficoltà della materie non consente risposte tranchant, ma alcuni studi danno degli indizi interessanti.

L’Ocse ha condotto diverse ricerche significative sull’impatto delle politiche di work-life balance sul tasso di natalità e sulla qualità della vita delle famiglie. Ne è emerso che esiste una correlazione tra l’adozione di politiche di conciliazione vita-lavoro e l’aumento dei tassi di fertilità. I Paesi che garantiscono un accesso più equo al mercato del lavoro per entrambi i genitori, orari flessibili e politiche di supporto alla genitorialità tendono a registrare tassi di fertilità più alti rispetto a quelli che non implementano tali misure. Parliamo di Paesi del Nord Europa come Svezia e Norvegia, dove esistono sistemi consolidati di congedo parentale retribuito e ampi servizi di assistenza all’infanzia.

La ricerca Ocse sottolinea che la denatalità è influenzata da una combinazione di fattori: stress lavorativo, difficoltà economiche e la percezione di un’insufficiente supporto da parte delle istituzioni. Non a caso il Giappone dove i turni lavorativi sono molto lunghi e la cultura aziendale eccessivamente rigida, ha il tasso di fertilità più basso al mondo. La settimana lavorativa di 4 giorni, recentemente annunciata a Tokyo come misura pilota, è forse l’ultima carta a disposizione del governo.

Ma perché finora non si è andato in questa direzione?

La risposta è semplice: si teme che la settimana di 4 giorni porti a un calo della produttività. Questa paura accomuna tutti quei Paesi che non hanno ancora registrato grandi aperture verso la settimana corta. Tra questi rientra l’Italia, che però ha fatto un piccolo (e per ora solo formale) passo prevedendo la possibilità di adottare la settimana corta nel settore pubblico.

La settimana corta aumenta la produttività

Ma la settimana corta è davvero nemica della produttività? Uno studio comparativo sui Paesi Ocse evidenzia che la settimana corta non solo migliora la qualità della vita, ma persino la produttività complessiva. Alla base di questo (inatteso) risultato ci sarebbe la maggiore lucidità mentale dei lavoratori, come dimostra il più ampio studio sulla materia, pubblicato nel 2023 da 4 Day Week Global e dal centro studi britannico Autonomy.

I risultati hanno dimostrato che durante il periodo di prova le entrate delle aziende hanno registrato un incremento medio dell’1,4%. Analizzando il confronto tra il fatturato dei sei mesi di sperimentazione e un periodo equivalente con la settimana lavorativa di cinque giorni, gli autori dello studio hanno rilevato un aumento del fatturato medio pari al 35%. Questi risultati suggeriscono che la produttività non solo non è diminuita, ma ha beneficiato del cambiamento. Non a caso, 18 delle 61 aziende coinvolte nel test hanno subito adottato la settimana corta come scelta definitiva.

Dopo sei mesi, il 39% dei dipendenti intervistati ha riferito di sentirsi meno stressato, mentre il 71% ha segnalato una riduzione del livello di burnout, una forma di stress cronico particolarmente dannosa. Sono stati registrati miglioramenti in ansia, stanchezza e qualità del sonno, con un generale beneficio per la salute fisica e mentale. Le assenze dal lavoro sono diminuite del 65%, passando da una media di due giorni al mese a 0,7 giorni per dipendente. Il che, va da sé, aumenta la produttività aziendale e diminuisce la spesa pubblica.

Durante il periodo di prova, il numero di dipendenti che ha lasciato il proprio posto di lavoro si è ridotto del 57%. Il 15% degli intervistati ha dichiarato che accetterebbe persino una riduzione del salario pur di non tornare alla settimana lavorativa di cinque giorni.

Le riflessioni affrontate nell’indagine sono utili a tutti quei Paesi, come l’Italia, che presentano una grave crisi demografica. I dati sulla denatalità italiana dimostrano che le culle non si riempiono senza un cambiamento radicale. Intanto, il Paese perde 150.000 lavoratori all’anno per la crisi demografica e l’economia rischia di cadere sotto la scure di un minaccioso effetto domino.

Lo studio, che ha coinvolto 2.900 dipendenti tra giugno e dicembre 2022, ha registrato un impatto fortemente positivo sul loro work-life balance. Il 54% dei dipendenti ha affermato di aver gestito più facilmente gli impegni familiari e di cura, mentre il 62% ha migliorato il bilanciamento tra lavoro e vita sociale.

Molti lavoratori hanno espresso una maggiore soddisfazione nella gestione del tempo, delle finanze e di vivere meglio le relazioni personali. Che, giova ricordarlo, non sono mai un dettaglio quando si parla della scelta di avere o non avere figli.

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‘Cyber-Gesù’ ti ascolta, l’intelligenza artificiale arriva...

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Gesù rosone

In principio era il Verbo. Ora è un algoritmo. Se pensavate che la spiritualità fosse l’ultimo baluardo immune dall’invasione tecnologica, la Svizzera vi farà ricredere. Nella parrocchia Peterskapelle di Lucerna, il confessionale ha fatto un salto nel futuro: al posto del classico prete, troverete un ologramma di Gesù, pronto a rispondere ai dubbi dell’anima in ben cento lingue. Non assolve i peccati, ma promette consigli e conforto.

Come spiega la chiesa, i fedeli possono avere un’esperienza intima e sacra con un Cristo virtuale che ascolta e risponde da dietro la grata di un classico confessionale. Non solo, ma grazie a uno schermo, tra i fori della grata è anche visibile il volto (presunto) del Figlio di Dio.

Quando il confessionale si fa hi-tech

In duemila anni di storia la Chiesa – e i fedeli – ne ha viste tante, ma il cyber-Gesù che ‘confessa’ mancava. Finora. Per arrivarci, c’è voluta l’Intelligenza Artificiale, che ormai dilaga ovunque e svela le sue potenzialità praticamente in qualsiasi campo, anche quello spirituale che sembrava poter essere immune proprio per la sua natura intima e sacra.

Il progetto (artistico e temporaneo) si chiama ‘Deus in machina’ e prevede che sia proprio Gesù a ‘confessare’ il fedele, grazie a un’intelligenza artificiale creata da informatici e teologi dell’Immersive Realities Research Lab della Lucerne University of Applied Sciences and Arts. L’AI celeste è stata addestrata sul Nuovo Testamento e offre risposte in linea con la fede cristiana (o almeno dovrebbe: al momento non si sono registrati casi di ‘deviazioni’, ma una cantonata è sempre in agguato).

Ma i fedeli come hanno preso questa novità?

Più di mille fedeli (e curiosi) al confessionale virtuale

Intanto in due mesi più di mille persone, tra cui turisti provenienti da tutto il mondo, hanno provato l’esperienza sacra, ponendo al Gesù-AI domande e dubbi. E già questo denota sia una certa curiosità da parte delle persone sia la potenzialità di avvicinare alla religione che un sistema del genere potrebbe avere.

Quanto ai risultati, secondo quanto riportato dai media svizzeri almeno due terzi di chi ha testato il Gesù 2.0 ha dichiarato di aver vissuto un’esperienza “molto spirituale”, e anche sorprendente per la sua facilità. Non solo, ma il Cristo-AI ha anche dispensato molti consigli e ha consolato. Uno dei suoi punti di forza è che può farlo 24 ore al giorno, a differenza di un prelato ‘vero’. La parrocchia di San Pietro sostiene infatti che un giorno chatbot simili potrebbero sostituire almeno in parte il clero, dimostrando che nessuno può dirsi al sicuro.
Non tutti credono nel miracolo dell’IA

Ovviamente non tutti sono soddisfatti: per alcuni le risposte del cyber-Gesù erano troppo generiche, asettiche o superficiali, o legate a luoghi comuni. Qualcuno ha criticato l’uso stesso dell’immagine di Gesù e del confessionale per un esperimento simile, mentre per altri è stato difficile avere una “conversazione sincera” con un’immagine digitale. Senza contare che la fede è una materia delicata che, come sostenuto da diverse voci, non dovrebbe essere affidata a una macchina, che peraltro potrebbe anche generare risposte incompatibili con gli insegnamenti della Chiesa.

Rimane infine aperto il problema della privacy: dove finisce e per quanto tempo si conserva ciò che le ‘orecchie’ virtuali hanno ascoltato? Il Gesù virtuale, insomma, rispetta il ‘segreto del confessionale’, come da sempre sono tenuti a fare i preti in carne e ossa?

Un esperimento che fa riflettere

Va detto che l’obiettivo dell’installazione era proprio quello di stimolare la riflessione, soprattutto sui limiti della tecnologia nel contesto della religione, come chiarito da Marco Schmid, teologo della Peterskapelle: “Quello che stiamo facendo qui è un esperimento, l’obiettivo è far sperimentare alle persone un’esperienza con l’intelligenza artificiale. Sarà una base di partenza per discutere sul tema e capire meglio questa tecnologia applicata alla religione”.

Insomma, il cyber-Gesù non mira a rubare il lavoro al clero, ma in ogni caso potrebbe aprire nuove porte alla spiritualità del futuro. La rivoluzione, in effetti, potrebbe essere vicina: come spiega la Peterskapelle in un comunicato, “l’IA potrebbe essere in grado di rispondere a domande individuali e affrontare preoccupazioni in modo molto specifico personalizzando i riferimenti biblici, spirituali o teologici, spesso in modo più veloci e più completo di un pastore umano“.

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