Malattie rare, Ucb conferma impegno per miastenia gravis e sindrome di Dravet
Le iniziative dell'azienda nel mese di giugno in cui si celebrano le Giornate mondiali delle due patologie
Il mese di giugno, appena trascorso, è stato particolarmente ricco di iniziative dedicate ad alcune patologie rare che interessano principalmente il sistema nervoso centrale: il 2 giugno si è celebrata infatti la Giornata mondiale della miastenia gravis e il 23 quella della sindrome di Dravet. Sono malattie per le quali, negli ultimi anni, Ucb Pharma sta rivolgendo il proprio impegno, mettendo sempre al centro i pazienti e le loro testimonianze, e continuando a investire in innovazioni terapeutiche che abbiano un impatto positivo sulle loro vite.
Per celebrare al meglio le due giornate mondiali - si legge in una nota - il 24 giugno l'azienda farmaceutica belga ha organizzato, presso i propri uffici di Milano, l'evento 'Alleviamo la fatica e lasciamo il segno', dedicato ai dipendenti con l'obiettivo di aumentare la consapevolezza sulle patologie, dando voce a chi vive con queste malattie rare attraverso il coinvolgimento diretto delle associazioni dei pazienti con video testimonianze di caregiver e pazienti, offrendo ai partecipanti una visione reale e toccante della quotidianità di queste persone. All'iniziativa hanno partecipato Isabella Brambilla, presidente dell'Associazione Dravet Italia, e Roberta Annunziata, dell'associazione Aim Campania. A seguito di queste testimonianze, è stato organizzato un workshop creativo e simbolico durante il quale i partecipanti hanno personalizzato delle magliette bianche su cui sono state scritte, sul retro, parole rappresentative del dolore e della fatica dei pazienti, trasferendone simbolicamente il peso sulle spalle. Sul fronte, hanno decorato le magliette con stencil a forma di zebra e unicorno, simboli legati alle due patologie, lasciando un segno tangibile del loro supporto e solidarietà.
La miastenia gravis (gMG) - ricorda la nota - è una malattia autoimmune rara, cronica, caratterizzata da alterazioni morfologiche e funzionali responsabili del disturbo della trasmissione a livello della giunzione neuromuscolare, con manifestazioni cliniche eterogenee quali ptosi palpebrale (caduta delle palpebre), visione doppia, difficoltà a deglutire, masticare e parlare, oltre a una grave debolezza muscolare che può colpire vari distretti e che, quando coinvolge i muscoli della respirazione, può essere potenzialmente letale.
Per questa patologia, lo scorso dicembre Ucb ha ottenuto l'approvazione europea per zilucoplan e nel gennaio 2024 per rozanolixizumab. Il primo è un peptide inibitore della componente 5 della cascata del complemento (inibitore C5), approvato dall'Ue come terapia aggiuntiva a quella standard in pazienti adulti positivi agli anticorpi anti-recettore dell'acetilcolina (AChR). E' l'unico farmaco della sua categoria a possedere un meccanismo d'azione duplice. Rozanolixizumab è un anticorpo monoclonale IgG4 umanizzato, che si lega al recettore Fc neonatale, determinando la riduzione delle IgG circolanti. Il farmaco è approvato come terapia add-on alla standard in pazienti adulti positivi agli anticorpi AChR o anti-tirosinchinasi muscolo-specifica (MuSK).
La farmaceutica belga è quindi la prima e unica a possedere un portafoglio focalizzato sulla gMG, in grado di offrire terapie mirate sia agli anticorpi anti-AChR che a quelli anti-MuSK. Nel mese di maggio di quest'anno il 'Journal of Neurology' ha pubblicato i dati di un'analisi post hoc dello studio registrativo di fase 3 Raise e dello studio di estensione in aperto (Ole) Raise-XT, attualmente ancora in corso, che valuta l'effetto a lungo termine di zilucoplan sulla fatica, in pazienti adulti con gMG da moderata a grave, positivi agli anticorpi anti-recettore dell’acetilcolina (AChR-Ab+).
La sindrome di Dravet - prosegue la nota - è una encefalopatia epilettica che inizia nell'infanzia ed è caratterizzata da convulsioni difficilmente trattabili con farmaci anti-crisi, disturbi cognitivi, comportamentali e motori, che persistono fino all'età adulta.
Per questa grave patologia, Ucb ha acquisito da Zogenix un farmaco presente da circa 2 anni sul mercato italiano (fenfluramina), che ha dimostrato una riduzione significativa dal punto di vista statistico e clinico della frequenza delle crisi convulsive. Nel corso del recente Congresso internazionale di neurologia infantile (Icnc), l'azienda ha presentato i risultati finali dello studio di estensione in aperto a 3 anni (Ole) relativo a fenfluramina, che hanno dimostrato l'efficacia a lungo termine del farmaco come terapia add-on in pazienti di età compresa tra 2 e 32 anni. Le ulteriori valutazioni dei caregiver, secondo la Clinical Global Impression Scale, integrando i dati sulla riduzione del numero delle crisi, forniscono un endpoint di efficacia positivo. Tali risultati rafforzano il potenziale del trattamento a lungo termine e l'efficacia di fenfluramina fino a 3 anni, mostrando riduzioni significative e durature della frequenza mensile mediana delle crisi convulsive nelle persone affette dalla sindrome di Dravet, che rappresentano i principali obiettivi per il paziente, aiutandolo a raggiungere il massimo potenziale dello sviluppo e della qualità della vita.
"Alla base del nostro impegno nelle malattie rare - afferma Federico Chinni, amministratore delegato di Ucb Pharma Italia - c'è la consapevolezza che molte di queste, spesso, sono patologie 'orfane', di interesse limitato per ricercatori e medici, per le quali non è disponibile una terapia. Scegliere di intraprendere questo percorso per Ucb ha significato impegnarsi con coraggio e responsabilità, per fare la differenza nella vita dei pazienti con patologie ancora poco conosciute e non idoneamente trattate. Il nostro obiettivo - conclude - è quello di trasformare la vita di ogni singola persona con una malattia rara, sviluppando farmaci innovativi, migliorando la diagnostica ed esplorando nuovi approcci al trattamento".
Salute e Benessere
Ieo-UniMi, speranze contro anomalia genetica tallone...
Scienziati dell'Istituto europeo di oncologia (Ieo) e dell'università Statale di Milano hanno dimostrato che 2 classi di farmaci anticancro già utilizzate in clinica possono colpire un 'tallone d'Achille' genetico comune a diversi tipi di tumore. Si tratta dell'aneuploidia, cioè la presenza nelle cellule malate di un numero di cromosomi diverso da quello delle cellule sane, che si riscontra nel 90% circa dei tumori solidi e nel 75% di quelli del sangue. I risultati sono frutto di 2 ampi lavori sostenuti da Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e sono stati pubblicati su 'Nature Communications' e 'Cancer Discovery'.
La scoperta è firmata da un team coordinato da Stefano Santaguida, group leader del Laboratorio di integrità genomica dell'Ieo e professore di biologia molecolare all'UniMi, in collaborazione con il laboratorio di Uri Ben-David (università di Tel Aviv, Israele) e con la partecipazione di centri di eccellenza tra cui il National Cancer Institute (Bethesda, Usa), il Broad Institute del Mit e di Harvard (Cambridge, Usa), il Max Planck Institute for Molecular Genetics (Berlino, Germania) e il Centro di scienze genomiche dell'Istituto italiano di tecnologia (Iit, Milano).
I nuovi dati - spiega una nota - rientrano nel filone di uno studio precedente, i cui risultati erano stati valutati come molto rilevanti dalla comunità oncologica. Lo stesso gruppo aveva infatti contribuito a dimostrare che l'aneuploidia può essere un bersaglio di farmaci anticancro: un punto debole della malattia, vulnerabile anche nei tumori che resistono ai farmaci a bersaglio molecolare, diretti contro specifiche alterazioni. "Finora, tuttavia, questo importante segno distintivo del cancro non è mai stato clinicamente sfruttato come bersaglio di cura - sottolinea Santaguida - perché fino a poco tempo fa mancavano gli strumenti necessari a riprodurre e coltivare in laboratorio cellule puramente aneuploidi. Le cellule tumorali sono infatti caratterizzate da un caos genetico dovuto a diverse anomalie, fra cui appunto l'aneuploidia. Diversi laboratori di ricerca da anni cercavano di generare sistemi in cui l'aneuploidia potesse essere studiata singolarmente, ossia senza la presenza di altre alterazioni normalmente esistenti nelle cellule tumorali. Lo scopo era analizzare questa caratteristica e capire come colpirla. Per la prima volta allo Ieo siamo riusciti a sviluppare cellule in coltura esclusivamente con cariotipi aneuploidi. Abbiamo così potuto creare dei cloni di cellule aneuploidi e studiarli per capire le loro vulnerabilità, vale a dire quali processi servono loro a sopravvivere e quali sono quindi sfruttabili come bersagli terapeutici".
"Siamo arrivati per primi a questo risultato - illustra Marica Rosaria Ippolito, prima autrice dei due articoli e dottoressa di ricerca della Scuola europea di medicina molecolare, grazie agli studi svolte presso il Laboratorio di integrità genomica dello Ieo - grazie all'utilizzo di diverse tecniche 'omiche', approcci di ultima generazione che consentono di avere una visione globale delle attività di una cellula o un tessuto, tra cui tecniche di sequenziamento del Dna, screening genomici e analisi di proteomica. Abbiamo inoltre usato tecniche di microscopia ad alta risoluzione, in cui il nostro laboratorio ha una solidissima esperienza da ormai diversi anni".
"Abbiamo così scoperto - riferisce Santaguida - che le cellule aneuploidi vengono colpite sia dai farmaci chemioterapici che inducono danni al Dna sia dai Parp-inibitori, i farmaci a bersaglio molecolare utilizzati per esempio nella terapia del tumore dell'ovaio e della mammella. Si tratta di farmaci efficaci in caso di mutazione Brca e altri deficit genetici che alterano i meccanismi di riparazione dei danni al Dna. I risultati ottenuti con le cellule aneuploidi generate in laboratorio sono stati validati su campioni ottenuti da pazienti. Siamo quindi fiduciosi che i nostri studi offriranno a breve nuove possibilità di cura per l'ampio gruppo di tumori aneuploidi".
Salute e Benessere
Studio Bambino Gesù, per 9% giovani atleti anomalie in Ecg
L’elettrocardiogramma (Ecg) per il rilascio della certificazione sportiva agonistica rappresenta un ottimo strumento di screening per individuare precocemente eventuali cardiomiopatie, o altre patologie, che possono aumentare il rischio di morte improvvisa anche in giovani atleti apparentemente sani. Uno studio dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, pubblicato sulla rivista ufficiale della Società europea di cardiologia pediatrica (Cardiology in the Young), ha rilevato la presenza di anomalie nel tracciato elettrocardiografico per il 9% dei circa 600 tra bambini e ragazzi esaminati. Il 3% dei giovanissimi atleti, dopo ulteriori approfondimenti, è stato sospeso precauzionalmente dall’attività agonistica per le problematiche cardiache riscontrate.
L’Ecg è un esame molto semplice ed efficace - ricordano dall'ospedale capitolino in una nota - che registra l'attività elettrica del cuore in forma di grafico, attraverso una sequenza di onde e segmenti rettilinei. Una di queste onde – l’Onda T – rileva in particolare la ripolarizzazione ventricolare, ovvero il 'tempo di ricarica' del cuore. Normalmente la forma di questa Onda è positiva, con la curva verso l’alto rispetto all’asse orizzontale del grafico. Quando invece è negativa, può essere generalmente indice di possibili anomalie del muscolo cardiaco (sia in termini di struttura muscolare che di regolare perfusione sanguigna). La presenza dell’Onda T negativa nell’elettrocardiogramma di screening, dunque, o 'Inversione dell’Onda T' (Wti), va registrata come anomalia della ripolarizzazione e può generare qualche sospetto anche in soggetti molto giovani e apparentemente sani, fino a determinare una controindicazione alla pratica sportiva agonistica. I protocolli di valutazione per l’idoneità sportiva sono molto severi e prevedono in questi casi delle indagini ulteriori (ecocardiogramma, risonanza magnetica, Tac cardiaca) per arrivare a una possibile diagnosi o escludere una cardiopatia sottostante.
Partendo da queste premesse, medici e ricercatori della Medicina dello sport del Bambino Gesù hanno promosso uno studio per valutare la prevalenza di anomalie della ripolarizzazione (inversione dell'Onda T) in una popolazione di giovani atleti agonisti e determinare se queste anomalie, rilevate dal tracciato Ecg, possano essere associate all'insorgenza di cardiomiopatie in assenza di altre caratteristiche patologiche.
La ricerca, svolta in collaborazione con i colleghi della Radiologia toracica e cardiovascolare avanzata e della Cardiologia e aritmologia di San Paolo, Palidoro e Santa Marinella, ha coinvolto 581 giovani atleti – età media 15 anni, per l’80% maschi - selezionati nell’arco di 18 mesi per la valutazione dell'idoneità all’attività sportiva agonistica. Per 53 di loro (9%) sono state rilevate anomalie nel tracciato Ecg legate alla presenza dell’inversione dell’Onda T (Wti). Sottoposti a indagini ulteriori (ecocardiogramma, Holter Ecg, Rmn o Tac cardiaca), 17 di loro (3%) non hanno potuto ricevere l’idoneità all’attività sportiva agonistiche a causa delle patologie cardiache riscontrate: 8 cardiomiopatie, 2 miocarditi, 5 ponti miocardici, 2 anomalie coronariche. Gli altri 36 atleti con Wti – in assenza di patologie rilevate - hanno ottenuto l’idoneità agonistica con l’indicazione di controlli ravvicinati ogni 6-12 mesi.
"La probabilità che gli atleti agonisti abbiano una cardiomiopatia nascosta è bassa, ma non trascurabile. Lo screening elettrocardiografico, preliminare all’idoneità sportiva agonistica - commenta Ugo Giordano, responsabile dell’Unità operativa di Medicina dello sport del Bambino Gesù - si conferma dunque un’ottima opportunità per identificare precocemente cardiomiopatie e altre patologie che aumentano il rischio di morte improvvisa in giovani atleti apparentemente sani. Le eventuali anomalie della ripolarizzazione, segnalate dall’inversione dell’Onda T, vanno sempre indagate e approfondite rivolgendosi a centri specializzati. In Italia i protocolli di valutazione per l’accesso all’attività sportiva agonistica sono giustamente molto rigorosi. La visita specialistica per il rilascio dell’idoneità prevede la visita cardiologica, l’elettrocardiogramma a riposo e sotto sforzo, l’esame spirometrico e un referto di esame delle urine. Per l’attività sportiva non agonistica, malgrado non vi sia un obbligo in questo senso, il consiglio dei medici dello sport è quello di effettuare sempre l’elettrocardiogramma a ogni visita per il rilascio del certificato, in considerazione del suo valore quale strumento di screening per la salute".
Salute e Benessere
Cancro vescica, con immunoterapia pre-operatoria migliora...
All’Esmo 2024 studio di fase 3 NIAGARA, 'durvalumab in combinazione con chemioterapia riduce del 32% il rischio recidiva'
Migliorare la sopravvivenza e ridurre il rischio di recidiva (e di morte) nel carcinoma della vescica muscolo-invasivo. Obiettivi possibili grazie al primo regime immunoterapico perioperatorio con durvalumab. E’ quanto emerge dallo studio di fase 3 NIAGARA presentato oggi durante il simposio presidenziale del Congresso 2024 della European Society for Medical Oncology (Esmo) che riunisce in questi giorni a Barcellona migliaia di oncologi da tutto il mondo, e contemporaneamente pubblicati nel The New England Journal of Medicine.
A un’analisi ad interim predefinita dello studio, i pazienti trattati con il regime perioperatorio ( prima e dopo l’intervento) con durvalumab mostrano una riduzione del 32% del rischio di progressione di malattia, di recidiva, di non completare la chirurgia prevista o di morte rispetto al braccio di confronto. La Efs media stimata non è stata raggiunta nel braccio durvalumab rispetto a 46,1 mesi nel braccio di confronto. Si stima che il 67,8% dei pazienti trattati con il regime durvalumab fosse libero da eventi a due anni, rispetto al 59,8% del braccio di confronto. I risultati dell’endpoint secondario di sopravvivenza mostrano che il regime perioperatorio con durvalumab ha ridotto il rischio di morte del 25% rispetto alla chemioterapia neoadiuvante pre-cistectomia radicale. La sopravvivenza mediana non è stata raggiunta in entrambi i bracci. L’82,2% dei pazienti trattati con il regime durvalumab è vivo a due anni rispetto al 75,2% del braccio di confronto.
"Lo studio NIAGARA dimostra che l’aggiunta dell’immunoterapia con durvalumab, prima e dopo la chirurgia, può rappresentare una strategia innovativa, in grado di cambiare la pratica clinica per i pazienti con tumore uroteliale della vescica infiltrante operabile – afferma Lorenzo Antonuzzo, Direttore della Struttura Complessa di Oncologia Clinica all’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica Università di Firenze -. Questo regime immunoterapico permette di migliorare in modo significativo i due endpoint principali dello studio, cioè la sopravvivenza libera da eventi e la sopravvivenza globale. Il dato sulla sopravvivenza globale è particolarmente rilevante in una popolazione di pazienti complessa da trattare, come quella colpita dal tumore uroteliale della vescica infiltrante. Pur trattandosi di una neoplasia localizzata a livello della vescica, è più aggressiva rispetto a quella non infiltrante e può estendersi localmente fino a invadere gli strati muscolari e l’intera parete vescicale".
Nello studio che ha coinvolto circa 1000 pazienti, "sono stati utilizzati il trattamento neo-adiuvante, cioè perioperatorio, costituito dalla chemioimmunoterapia e durvalumab in monoterapia dopo l’intervento chirurgico – continua Antonuzzo -. Il braccio di confronto è costituito dalla chemioterapia neoadiuvante. NIAGARA è il primo studio registrativo in cui un regime immunoterapico, prima e dopo l’intervento chirurgico, prolunga la sopravvivenza in questa patologia".
"Il trattamento standard, per circa 20 anni, è stato costituito dalla chemioterapia neoadiuvante seguita dalla chirurgia, ma la metà dei pazienti va incontro a recidiva o progressione di malattia, per cui resta un bisogno clinico ancora insoddisfatto – sottolinea Massimo Di Maio, presidente eletto Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) -. Inoltre, in Italia, il trattamento delle forme infiltranti operabili è variegato, perché vi sono pazienti che vengono trattati direttamente con la chirurgia. Gli importanti risultati dello studio NIAGARA possono costituire uno stimolo all’utilizzo della terapia neoadiuvante in tutti i pazienti. Va anche sottolineato che il regime chemioimmunoterapico è ben tollerato e sicuro".
Nella gestione della malattia "e per garantire il miglior percorso terapeutico, è fondamentale il team multidisciplinare, che deve comprendere, tra gli altri, il radiologo, il chirurgo, l’oncologo, l’urologo e l’anatomo patologo – conclude Di Maio -. Il tumore della vescica è uno dei più frequenti, nel 2023 in Italia sono stati stimati 29.700 nuovi casi. È una neoplasia subdola, perché nelle fasi iniziali può essere del tutto asintomatica. I primi segni d’allarme sono sintomi urinari, ad esempio difficoltà a urinare e minzioni frequenti, e la presenza di ematuria, cioè sangue nelle urine. Il principale fattore di rischio è il fumo di sigaretta, a cui si aggiunge l’esposizione professionale a determinate sostanze cancerogene, come ammine aromatiche e nitrosamine".
Il carcinoma della vescica è il nono tumore più comune a livello mondiale, con più di 614.000 diagnosi all’anno. Il carcinoma della vescica muscolo invasivo rappresenta circa un quarto dei casi di tumore della vescica. Nel setting con Mibc circa 117.000 pazienti vengono trattati con lo standard di cura. La terapia standard comprende la chemioterapia neoadiuvante e la cistectomia radicale. Tuttavia, anche dopo la cistectomia, i pazienti sono soggetti a tassi elevati di recidiva e ad una prognosi sfavorevole. Circa il 50% dei pazienti sottoposti alla chirurgia per la rimozione della vescica va incontro a recidiva. Sono fortemente necessarie opzioni terapeutiche che prevengano la recidiva dopo la chirurgia.