Che cosa è il cohousing intergenerazionale e che impatto avrebbe in Italia
“Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse!” diceva il lessicografo francese Henri Estienne. Ecco, il cohousing intergenerazionale aiuta i giovani a sapere e gli anziani a fare tante azioni, aiutati dalle nuove generazioni.
Si tratta di un modello abitativo sempre più popolare in diverse parti del mondo, che prevede la convivenza di persone di età diverse all’interno dello stesso complesso residenziale, favorendo la solidarietà e lo scambio intergenerazionale.
Ma in che cosa consiste esattamente questo fenomeno? E quali effetti avrebbe in un’Italia sempre più anziana e spesso luogo di conflitti culturali tra le generazioni?
Che cosa è il cohousing intergenerazionale
Il cohousing intergenerazionale combina abitazioni private con ampi spazi comuni, promuovendo la vita comunitaria e l’interazione tra i residenti. Ogni individuo o famiglia ha la propria unità abitativa, ma condivide con gli altri residenti aree come cucine, giardini, e spazi ricreativi.
Questo modello è progettato per incoraggiare il supporto reciproco e creare una rete di sostegno naturale tra persone di diverse età. L’idea di fondo è semplice: ognuno dà ciò che l’altro non può avere più (anziani) o non può ancora avere (giovani).
Realtà sempre più anziane come l’Italia e l’Unione europea non possono ignorare i benefici di questo meccanismo. Oltre all’abbattimento dei muri generazionali, il cohousing intergenerazionale consente di inquadrare gli anziani come delle risorse e non semplicemente come un macigno per il welfare. Un vivace esempio in tal senso arriva dall’isola di OAkinawa, dove l’età media è 13 anni più alta di quella mondiale e gli anziani sono coinvolti attivamente nella società.
Esempi di cohousing
Un esempio emblematico di co-housing intergenerazionale si trova a Deventer, nei Paesi Bassi. Qui, il progetto “Humanitas” ha ricevuto attenzione internazionale per il suo approccio innovativo: gli studenti universitari vivono gratuitamente in una casa di riposo per anziani in cambio di 30 ore al mese di volontariato con i residenti anziani.
In questo modo si è ridotto l’isolamento sociale tra gli anziani e contemporaneamente si è fornito fornire agli studenti un alloggio a costo zero. Questo aspetto si intreccia un altro grave problema che grave sulle spalle dei giovani, ovvero il caro-affitti, soprattutto nelle grandi città. Vale la pena ricordarselo quando si sottolinea che i giovani italiani lasciano casa sempre più tardi rispetto agli altri europei.
In Italia, ci sono esperienze di co-housing intergenerazionale come il “Villaggio Barona” a Milano. Qui, anziani, giovani coppie e famiglie convivono e condividono spazi comuni, creando una comunità coesa e solidale. Molti residenti riferiscono un aumento del benessere e una maggiore sensazione di sicurezza grazie al supporto reciproco.
Anche in seno alle istituzioni dell’Unione europea, si parla sempre di più di co-housing. Emblematica è la struttura che sorge a Bruxelles, cofinanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, attraverso l’iniziativa Urban Innovative Actions che promuove progetti di sviluppo urbano sostenibile. Si tratta dell’esperienza Calico che sta per ‘CAre and LIving in COmmunity’, un cohousing di 34 appartamenti in sintonia con il quartiere in cui è inserito grazie alla presenza di un ‘giardino di comunità’.
I pilastri del progetto sono la cura reciproca, che nasce dall’ampia diversità degli abitanti sia sociale che generazionale, e la possibilità di accesso ad un alloggio di qualità nella cornice di un Community Land Trust. Alcuni elementi caratterizzano l’iniziativa Calico: l’apertura trasversale a tutte le generazioni e i servizi dedicati all’accompagnamento delle famiglie alle nuove nascite e ai bisogni specifici dei più anziani.
Perché serve all’Italia
Si parta dagli ultimi strumenti visti a Bruxelles per capire l’enorme potenziale che il co-housing intergenerazionale ha nel contesto demografico del Belpaese.
Oggi, quasi un italiano su quattro ha almeno 65 anni (24,3%) ed entro il 2050 saranno un terzo della popolazione. Nel 2023 l’Italia ha registrato il record negativo di nascite, con soli 379 mila bambini, confermando un trend in atto dal 2013.
Il numero medio di figli per donna è sceso a un nuovo minimo storico di 1,20 nel 2023, avvicinandosi al minimo di 1,19 figli registrato nel 1995. La denatalità italiana, infatti, dipende in gran parte da quanto successo nel secolo scorso e dal cosiddetto effetto struttura che ha creato i presupposti per la crisi demografica attuale (per approfondire, leggi l’articolo: “Calano ancora le nascite, ma l’inverno demografico dell’Italia arriva da lontano”).
Lungo la penisola, a ogni bambino sotto i 10 anni corrisponde più di un ultraottantenne. Con 4 milioni 554mila individui, quasi 50mila in più, questa fascia di età ha persino superato quella degli under 10, pari a 4 milioni 441mila persone. Un calo vistoso rispetto al 2,5:1 di soli venticinque anni fa e al 9:1 di cinquanta anni fa.
Allo stesso tempo, la fascia 15-64 anni, quella lavorativamente attiva, è calata da 37 milioni 472mila (63,5% della popolazione totale) a 37 milioni 447mila (63,5%). Stessa sorte per i giovanissimi fino a 14 anni, passati da 7 milioni 344mila (12,4%) a 7 milioni 185mila (12,2%).
Con questi numeri, e complice l’allungamento dell’aspettativa di vita, l’età media italiana è arrivata a 46,6 anni. Analogo discorso, seppure in proporzioni ridotti, avviene nel resto dell’Europa che rischia di essere il “Vecchio Continente” non solo per cause geologiche.
Numeri eclatanti, che forse non andrebbero interpretati solo come una sfida. Le politiche per invertire le tendenze demografiche, se hanno successo, producono effetti dopo molti anni, spesso almeno un decennio. Il tutto senza considerare il problema del lavoro povero in Italia, molto diffuso tra i giovani.
Un’economia come l’Italia non può aspettare che le politiche demografiche (forse) diano i loro frutti, ma deve fare di necessità virtù, intercettando anche le opportunità che vengono offerte, a partire dalla Silver Economy.
Il co-housing intergenerazionale va in questa direzione. Promuovendo la coabitazione tra giovani e anziani, si può ridurre l’isolamento sociale degli anziani, creare una rete di supporto mutuo, e ridurre i costi abitativi per i giovani, incentivando al contempo lo scambio di conoscenze e competenze tra le generazioni. Più che al modello “separatista” cinese che ha dato forma a Guangdong, un villaggio dedicato esclusivamente agli anziani, la nostra cultura è più incline ai modelli inclusivi e di collaborazione. E anche l’economia ne gioverebbe.
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Un adolescente su sette soffre di disturbi mentali: cosa...
Un adolescente su sette soffre di disturbi mentali. A confermarlo è l’ultimo report Unicef che, in occasione della Giornata Mondiale della Salute mentale, ha sottolineato come circa la metà di tutti i problemi della salute mentale a livello globale si manifesti entro i 18 anni. L’appello è a fare attenzione affinché vengano individuati e trattati in tempo tali disturbi e affinché comunità e istituzioni si occupino di realizzare una rete a supporto dei più fragili.
“Molti bambini sono pieni di tristezza, dolore o ansia. Alcuni si chiedono dove questo mondo sia diretto e quale sia il loro posto in esso – ha dichiarato Henrietta H. Fore, Unicef Executive Director -. È un iceberg che ignoriamo da troppo tempo e, se non agiamo, continuerà ad avere risultati disastrosi per i bambini e le società molto dopo la fine della pandemia”.
Disturbi mentali nei giovani
Secondo il rapporto dell’Unicef “Child and adolescent mental health – The State of Children in the European Union 2024”, circa 11,2 milioni di bambini e giovani entro i 19 anni (5,9 milioni di maschi e 5,3 milioni di femmine) nell’Unione europea (ovvero il 13%) soffrono di un problema di salute mentale. Tra le persone di età compresa tra i 15 e i 19 anni, circa l’8% soffre di ansia e il 4% di depressione.
Il suicidio è la seconda causa di morte (dopo gli incidenti stradali) tra i giovani fra i 15 e i 19 anni nell’Unione Europea. Nel 2020, circa 931 giovani sono morti per suicidio nell’Ue, equivalenti alla perdita di circa 18 vite a settimana. Circa il 70% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni nell’Ue che muoiono per suicidio sono maschi.
In Italia, tra i giovani tra i 15 e i 19 anni che hanno perso la vita intenzionalmente tra il 2011 e il 2020 il 43% erano ragazzi e circa il 36% ragazze.
I cambiamenti climatici incidono sul benessere psicologico dei giovanissimi, aggiungendo una dimensione di incertezza e timore per il futuro: l’eco-ansia
Una produzione originale di UNICEF & Bonfire per discuterne in vista della Giornata mondiale della #salutementale (domani) pic.twitter.com/5EE6bxLrft
— UNICEF Italia (@UNICEF_Italia) October 9, 2024
Giornata Mondiale della Salute Mentale
Oggi ricorre la Giornata Mondiale della Salute Mentale. L’Unicef Italia, quest’anno, ha deciso di dedicare questa giornata al tema dell’eco-ansia o ansia climatica, una delle preoccupazioni che maggiormente affligge i giovani.
Secondo dati Istat in Italia, infatti, il 70,3% dei giovani tra i 14 e i 19 anni si dice preoccupato per i cambiamenti climatici. Gli under 18 sperimentano quotidianamente gli effetti dei cambiamenti climatici sulle loro vite e questo sta avendo un impatto sulla loro salute mentale.
“Dobbiamo tutti lavorare per contribuire a rompere il silenzio sulla salute mentale – ha aggiunto Henrietta H. Fore -: sfidare gli stigmi, aumentare l’alfabetizzazione sulla salute mentale e garantire che le voci dei giovani siano ascoltate, in particolare quelle di coloro che hanno vissuto sperimentato problemi di salute mentale. E tutti dobbiamo impegnarci ad agire in aree chiave, come un migliore supporto ai genitori, garantire che le scuole siano luoghi più gentili e sicuri e, attraverso investimenti e sviluppo della forza lavoro, affrontare le esigenze di salute mentale delle famiglie in aree come la protezione sociale e l’assistenza alla comunità”.
Cosa fare per supportare i giovani
Per sensibilizzare sul tema l’Unicef Italia e l’Agenzia Creativa Bonfire, con il supporto di Greencome, hanno raccolto in un video una serie di testimonianze di giovani che hanno vissuto episodi di eco-ansia. Maria Beatrice Alonzi, divulgatrice e scrittrice esperta di analisi comportamentale e comunicazione non verbale, aiuta a riflettere sulle considerazioni ed emozioni emerse per capire come poter riconoscere e affrontare l’ansia dei più giovani.
L’azione dell’Unicef nell’ambito della prevenzione e della tutela della salute mentale di bambini e adolescenti, però, si basa concretamente su una strategia multisettoriale suddivisa in 4 ambiti di intervento:
Investimenti: garantire maggiori e migliori investimenti nei servizi di salute mentale e di sostegno psicosociale in tutti i settori, servizi e strutture comunitarie per tutti i bambini, gli adolescenti e le famiglie.
Promozione e prevenzione in famiglia: sostenere le famiglie, attraverso l’attuazione di programmi per la genitorialità positiva e benessere mentale per genitori e caregiver.
Risposta nella scuola e nella comunità: garantire che tutti i bambini e gli adolescenti imparino e interagiscano in ambienti di apprendimento sicuri e supportivi, sia online che offline, con accesso a servizi di salute mentale specialistici in ambito scolastico.
Cambiare approccio sulla salute mentale: la percezione pubblica della salute e delle malattie mentali è spesso negativa ed escludente, legata allo stigma, pregiudizi e paura. La promozione di comportamenti genitoriali consapevoli nonché di comunità e società opportunamente informate e resilienti.
“Nonostante i grandi sforzi di così tante persone, in particolare dei giovani che hanno condiviso le loro storie, idee e passione per il cambiamento, la nostra comunità globale ha appena iniziato ad affrontare. Quando si tratta di salute mentale, ogni paese si sta sviluppando. Ma se la sfida è grande, le ricompense per averla vinta possono essere ancora più grandi, per ogni bambino, per ogni famiglia e per ogni comunità. Non possiamo aspettare oltre. Non possiamo deludere un’altra generazione. Il momento di agire è adesso”, ha concluso Henrietta H. Fore, Unicef Executive Director.
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Siamo davvero destinati a vivere 100 anni? Secondo...
Vivere fino a 100 anni forse non è così scontato. Che la longevità abbia un limite ben preciso è un dato emerso da una recente ricerca. Lo studio è stato condotto da S. Jay Olshansky, un esperto in aspettativa di vita, docente della School of Public Health dell’Università dell’Illinois a Chicago.
Olshansky ha guidato lo studio, pubblicato il 7 ottobre sulla rivista Nature Aging, in cui si analizzano i dati sulla possibile longevità in diverse popolazioni, evidenziando un cambiamento rispetto al passato: se nei secoli XIX e XX l’aspettativa di vita ha quasi raddoppiato, oggi assistiamo a un rallentamento dei guadagni di anni. Cosa significa tutto questo per il futuro della nostra salute e della nostra vita?
L’aspettativa di vita
Nelle popolazioni con maggiore longevità, l’aspettativa di vita alla nascita è aumentata in media di soli 6,5 anni dal 1990, dopo essere quasi raddoppiata durante il XX secolo grazie ai progressi nella prevenzione delle malattie.
Secondo gli esperti, gli esseri umani sembrano, adesso, aver raggiunto un limite biologico alla vita. “La maggior parte delle persone vive oggi grazie a un tempo ‘creato’ dalla medicina – ha spiegato S. Jay Olshansky, l’autore principale dello studio -. Tuttavia, questi ‘cerotti’ medici producono meno anni di vita, il che implica che il periodo di rapidi aumenti dell’aspettativa di vita è finito”.
Un bambino nato oggi negli Stati Uniti può aspettarsi di vivere fino a 77,5 anni. Nello specifico, le bambine hanno una vita media di 80,2 anni, mentre i bambini di 74,8 anni, secondo i dati del National Center for Health Statistics. In Italia, la situazione è ancora più positiva: l’aspettativa di vita alla nascita è di circa 83 anni, con le donne che vivono mediamente fino a 85,3 anni e gli uomini fino a 80,5 anni, rendendo l’Italia uno dei Paesi con la maggiore longevità al mondo.
La ricerca e i suoi risultati
Olshansky, che studia l’aspettativa di vita da decenni, aveva già previsto in un articolo pubblicato nel 1990 sulla rivista Science che le persone stavano avvicinandosi a un tetto per l’aspettativa di vita intorno agli 85 anni. Molti esperti avevano invece previsto che i progressi nell’assistenza sanitaria avrebbero portato a ulteriori guadagni in termini di tempo. Lo studio prevede, invece, che i miglioramenti nell’aspettativa di vita continueranno a rallentare man mano che sempre più persone sperimentano gli effetti inesorabili dell’invecchiamento.
I ricercatori hanno esaminato i cambiamenti osservati nei tassi di mortalità e nelle aspettative di vita dal 1990 al 2019 negli otto Paesi più longevi al mondo. Parliamo di Giappone, Corea del Sud, Australia, Francia, Italia, Svizzera, Svezia e Spagna, oltre agli Stati Uniti. Hanno scoperto che il miglioramento dell’aspettativa di vita ha rallentato in quasi tutti questi luoghi.
“Il nostro risultato ribalta la convisione secondo cui l’aumento naturale di longevità per la nostra specie è proficuo e riguarda il futuro – ha dichiarato Olshansky -. In realtà, si trova dietro di noi, in un intervallo tra i 30 e i 60 anni. Abbiamo ora dimostrato che la medicina moderna sta producendo miglioramenti incrementali sempre più ridotti nella longevità, anche se i progressi medici avvengono a un ritmo vertiginoso”.
Fino a 100 anni si può?
Sebbene sia probabile che sempre più persone raggiungano i 100 anni, secondo il dottore, queste saranno un’eccezione, contrariamente a quanto si pensa in molti ambiti, come le assicurazioni e la gestione patrimoniale, dove si calcola che la maggior parte delle persone vivrà quasi un secolo: “Questo ragionamento è semplicemente sbagliato”, ha aggiunto Olshansky.
Lo studio sottolinea che, sebbene la scienza e la medicina possano produrre ulteriori benefici, potrebbe avere più senso investire nel miglioramento della qualità della vita piuttosto che nell’estensione della vita stessa.
I ricercatori hanno chiamato a un investimento nella geroscienza, la biologia dell’invecchiamento, sostenendo che potrebbe essere la chiave per la prossima ondata di salute e longevità: “Questa è una sorta di soffitto di vetro, non un muro di mattoni,” ha notato Olshansky. Ridurre i fattori di rischio, lavorare per eliminare le disuguaglianze e incoraggiare stili di vita più sani può consentire alle persone di vivere più a lungo e in salute.
“Possiamo superare questo soffitto di salute e longevità con la geroscienza e sforzi per rallentare gli effetti dell’invecchiamento, ma quello non lo possiamo più rallentare”, ha concluso.
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Jeff Bezos e il puttering prima di iniziare a lavorare: di...
C’è qualcosa che riguarda il lavoro, viene fatta da Jeff Bezos e puoi fare anche tu: rilassarti per bene prima di iniziare a produrre. Questo, in estrema sintesi, è il puttering, routine che il fondatore di Amazon, nonché uno degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio stimato di 204 miliardi di dollari, segue pedissequamente ogni mattina.
Puttering, cosa è?
Invece di cominciare la giornata con riunioni affollate o telefonate, Bezos dedica un’ora del mattino al “puttering”, termine che lui stesso descrive come una serie di attività rilassanti e non strutturate. Durante un discorso al Economic Club di Washington, Bezos ha sottolineato quanto sia importante per lui questo tempo libero, che gli permette di ricaricare le energie prima di affrontare gli impegni della giornata.
“Puttering” per Bezos significa muoversi lentamente in casa, senza fretta, magari dedicandosi a una passeggiata o facendo piccole faccende. Non è un momento per prendere decisioni importanti, ma piuttosto per distendersi e prepararsi mentalmente. Questa abitudine, come ha spiegato fondatore di Amazon, gli consente di essere più lucido durante le riunioni più impegnative che, non a caso, pianifica solo a partire dalle 10 del mattino. Molti non se lo possono permettere, ma la sua testimonianza offre spunti interessanti per tutti i lavoratori.
“Preferisco fare le riunioni che richiedono maggiore concentrazione prima di pranzo, quando la mia energia è al massimo. Dopo le 5 di sera, non riesco più a pensare in modo chiaro”, ha detto Bezos spiegando che grand parte del suo successo deriva al riposo e al tempo dedicato a sé stesso. Ha spiegato che si assicura di dormire almeno otto ore ogni notte, perché questo migliora il suo umore, la sua capacità decisionale e la sua energia.
Nel suo libro Invent & Wander, ha scritto: “Dormire a sufficienza mi fa pensare meglio, avere più energia e migliorare il mio stato d’animo”. Questo approccio bilanciato tra lavoro e riposo gli ha permesso di mantenere livelli elevati di produttività nel lungo periodo.
I benefici del “puttering”
Il “puttering”, al di là della routine di Jeff Bezos, ha benefici riconosciuti per la salute mentale e fisica. Secondo Maris Loeffler, terapista specializzata in ansia e stress presso lo Stanford Lifestyle Medicine Program, dedicarsi ad attività rilassanti all’inizio della giornata può ridurre i livelli di ansia e migliorare la concentrazione. Loeffler avverte che trascorrere troppo tempo su dispositivi elettronici appena svegli può avere l’effetto opposto, danneggiando la memoria e la capacità di apprendimento a lungo termine.
Molti studi, come quelli citati dalla Loeffler, collegano un uso eccessivo dei dispositivi a una riduzione del volume della materia grigia nel cervello, associata a un declino delle funzioni cognitive. Una situazione sempre più urgente, ma anche avvertita come dimostra la petizione firmata da esperti e vip per vietare l’uso dello smartphone agli under 14 e dei social agli under 16.
Il “puttering”, quindi, rappresenta un antidoto al sovraccarico mentale causato dalla tecnologia. Lontano dai dispositivi, Bezos riesce a iniziare la giornata in modo più sereno e con un approccio più calmo, concentrato su attività manuali o rilassanti. Questo tipo di routine consente di ridurre lo stress e di prevenire problemi di salute legati a ritmi troppo frenetici, come dimostrano anche altre ricerche sull’importanza di prendersi momenti di pausa e relax nel corso della giornata.
Un esempio di vita equilibrata
Nonostante la sua vita frenetica e le responsabilità legate alla gestione di un colosso come Amazon, Bezos ha scelto di mantenere una routine che gli consente di bilanciare lavoro e riposo. Il suo “puttering” mattutino è un esempio di come anche i leader più impegnati possono trarre beneficio da momenti di pausa e riflessione.
Insomma, non sono solo le lunghe ore di lavoro a determinare il successo, ma anche la capacità di prendersi cura di sé, mantenendo un equilibrio mentale e fisico che lo aiuta a rimanere performante nel lungo periodo.
La sua filosofia si riflette anche nella struttura delle sue giornate lavorative: Bezos preferisce gestire gli impegni più complessi nelle ore del mattino, quando si sente più fresco e pronto ad affrontare gli impegni di lavoro.
Ora non ci resta che testare.